di Camillo Langone
Che cos’hai fatto domenica? Ho visto una bella mostra. Questa è la risposta che sento sempre più spesso, specie se faccio la domanda a una donna. A me piace vivere pericolosamente e dichiaro di non andare a vedere mostre da molto tempo, e precisamente da quando ho deciso di andare a messa tutte le domeniche.
Se n’è accorto perfino Mario Botta, l’architetto noto ai milanesi per aver sfigurato la Scala piazzandovi sul tetto una specie di parcheggio multipiano. Lui che di musei ne ha costruiti un mucchio, nel suo ultimo libro, Dove abitano le emozioni, sembra essersi pentito: «Una società forte non avrebbe bisogno di musei per segnalare i propri valori».
Siccome siamo una società debole, ogni capoluogo di provincia sogna il suo mini-Guggenheim la cui funzione è inconsapevolmente religiosa. Lo dice sempre lui, il Botta, che i musei «sono spazi per la ricerca di spiritualità, dove il fruitore va per ricercare valori e significati del suo essere».
Già la parola fruitore dovrebbe mettere sull’avviso. Assomiglia molto a cliente, a consumatore. Come se lo Spirito potesse vendersi al bookstore, fra i cataloghi, le magliette con le riproduzioni dei quadri e i braccialetti artistici della felicità (esistono davvero, sono fra gli oggetti più venduti alla Tate Gallery di Londra).
Per quanto fra i preti italiani non manchino i soggetti bizzarri, a nessuno di loro è mai venuto in mente di chiamare fruitori i partecipanti alla messa. Perché il cattolico praticante non è uno spettatore passivo come il mostrista praticante: in chiesa si può cantare, si può leggere la Bibbia dal pulpitino a fianco dell’altare, si possono raccogliere le offerte, si possono accendere ceri e candele, si può anche suonare l’organo.
Alle mostre si può guardare ma non toccare. Alle messe si può addirittura mangiare (l’ostia consacrata, previa confessione) e insomma vengono coinvolti tutti i sensi, finanche l’odorato con l’incenso e il tatto col segno di pace.
E che dire dei «valori e significati»? Alle mostre i valori sono più che altro i valori di mercato, e i significati spesso mancano per statuto, basti pensare all’interminabile sfilza di opere denominate Untitled. Senza titolo, senza senso. Non ho mai capito come possano gli artisti insegnare qualcosa se non sono nemmeno capaci di dare un nome a ciò che fanno.
L’arte contemporanea è quasi sempre dissacrante, nichilista, quindi andarla a vedere impoverisce l’anima. Maurizio Cattelan è forse il massimo artista italiano vivente e di sicuro è un genio, però del male: uno guarda il suo Papa colpito dal meteorite, i suoi fantocci di bambini impiccati agli alberi, e gli viene voglia di suicidarsi.
L’arte antica, al contrario, è quasi sempre sacra, e se si trova in un museo significa che è stata rubata o comunque estirpata dal suo ambiente naturale. Le colte, delicate fanciulle che vanno per mostre sono in realtà complici di infiniti crimini a cominciare da quelli di Napoleone, celebre saccheggiatore di chiese e di conventi.
Piero della Francesca la sua Sacra conversazione non la dipinse per farla fotografare coi telefonini a Brera, ma per essere oggetto di devozione in una chiesa di Urbino. E Raffaello? Che senso ha la sua Madonna Sistina in una pinacoteca di Dresda? Perché limitarsi a guardare il sacro, oltretutto avvilito da un’ambientazione assurda, quando lo si può vivere nei luoghi originari?
Lo ha spiegato bene Joseph Ratzinger in un libro del 2004: «Ciò che nei musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a essere presente vivo». La massima esperienza di bellezza della mia vita l’ho fatta a Sant’Antimo, nell’abbazia romanica fra le vigne e gli ulivi di Montalcino, durante l’affollatissima messa domenicale col coro gregoriano dei frati vestiti di bianco, l’incenso che invade la navata, i candelieri vibranti di fiammelle, le devote che si gettano a terra al momento della consacrazione. Non la scambierei con tutto il Louvre.
(A.C. Valdera)