Estratto da Annali Italiani.Rivista di studi storici ,anno II,n.3,
Milano gennaio-giugno 2003,pp.111-162
di Ivo Musajo Somma
Il 24 marzo 1921, la vigilia del venerdì santo, Carlo iniziò il suo primo infelice tentativo di restaurazione tornando sul suolo ungherese con l’intento di ripristinare l’ordine legittimo, confidando nella lealtà dell’ammiraglio Miklós Horthy, che gli aveva sempre giurato fedeltà. Horthy, sollevatosi contro la sanguinaria dittatura comunista di Bèla Kun (1886-1939) e dopo un effimero governo socialista, aveva preso il potere il 16 novembre 1919 come «reggente» provvisorio di una restaurata monarchia ungherese.
Quando l’imperatore non aveva ancora lasciato Vienna, l’ammiraglio Horthy si era presentato al cospetto del sovrano per accordarsi con lui a proposito della consegna della flotta agli Jugoslavi ed era scoppiato in lacrime dinanzi a Carlo. Ebbe a dire in seguito Zita: «Tutt’a un tratto Horthy — mi sembra ancora di vederlo davanti a me — si mise sull’attenti e con la mano destra giurò, senza che nessuno gliel’avesse chiesto: “Non mi concederò tregua fintanto che non rimetterò la Maestà Vostra sul trono di Vienna e di Budapest”» (69).
Non è privo d’interesse riportare alcune impressioni di Carlo durante il viaggio, inizialmente in incognito, in Ungheria: «Un sentimento indescrivibile nel ritrovarsi, sconosciuti, in casa propria… Sul confine, dalla parte ungherese, c’era un vecchio maresciallo dei gendarmi nativo di Debreczen, un tipico figlio della puszta [la pianura ungherese], bruno di colorito, che non sapeva nemmeno da che parte dovesse incominciare a controllare un passaporto. […] Da Pinkafö continuammo per Oberwarth, dove in quel momento si snodava la processione del Resurrexit. Quando ci passò davanti scendemmo dall’auto e ci inginocchiammo.
La seguiva la guarnigione della cittadina, con gli uomini vestiti delle divise del buon tempo andato […]. Fu un momento di indicibile sollievo, specie alla vista delle mie vecchie uniformi… Da Oberwarth proseguimmo per St. Mihály… Chiesi ad alcune persone che aspetto aveva il loro re. Come avevo immaginato, mi fecero vedere delle fotografie, però nessuno mi riconobbe. Alla fine brindammo tutti alla salute del sovrano; mi rimproverarono perché non avevo vuotato anch’io il bicchiere in un sorso solo, come loro» (70).
Il 27 marzo Carlo entrò a Budapest, ma Horthy si rifiutò di cedere il potere adducendo il rischio di una guerra civile e di una possibile invasione da parte delle truppe dei vincitori della guerra (71); il sovrano, costretto a cedere, dopo alcuni giorni si risolse a far ritorno in Svizzera. Il 5 aprile, il re, nell’affacciarsi alla finestra del palazzo del vescovo di Szombathely, mons. János Mikes (1876-1945), che lo ospitava, vide la piazza antistante imbandierata e stracolma di persone che lo acclamavano al grido di «Éljén!».
La folla e Carlo stesso, in uniforme, intonarono l’inno nazionale ungherese; lungo il percorso in treno verso la frontiera la scena doveva ripetersi a ogni villaggio. In quella circostanza un giovane prete al servizio del vescovo locale ebbe a dire con rabbia: «Se solo avessi un poco di potere, il re non dovrebbe lasciarci come un cane bastonato, ma andrebbe in trionfo a Buda, lì nel luogo che gli appartiene, a palazzo reale»: quel giovane prete era destinato a diventare famoso, più tardi, come cardinale József Mindszenty (1892-1975), primate d’Ungheria e confessore della fede sotto il regime comunista nel secondo dopoguerra (72).
Carlo non si diede comunque per vinto: in Ungheria c’erano ancora truppe che gli erano fedeli, comandate da uomini come il colonnello barone Anton Lehár (1876-1962), eroe di guerra e fratello minore del noto compositore Franz (1870-1948); la sua famiglia poteva contare tra gli antenati cechi, ungheresi e austriaci, perciò egli, più che a qualche etnia o nazione, si sentiva prima di tutto fedele alla Casa d’Asburgo (73), per la quale volle impugnare di nuovo le armi.
Carlo tornò una seconda volta in Ungheria nell’ottobre dello stesso anno: il giorno 20 l’imperatore e Zita, incinta dell’ottavo figlio, insieme a pochi accompagnatori, lasciarono la Svizzera con un aereoplano Junkers appositamente predisposto e raggiunsero nel pomeriggio dello stesso giorno l’Ungheria occidentale; il 21 ottobre ebbe luogo il giuramento dei soldati e degli ufficiali monarchici del reggimento Ostenburg e, attorno alle 23, ebbe inizio il trasferimento verso Budapest con un convoglio ferroviario: il treno reale, nella sua marcia verso la capitale, fu ovunque acclamato in modo trionfale e altre truppe si misero a disposizione del sovrano tornato in patria.
La mattina del 23 ottobre, dopo la celebrazione della messa al campo (74), nei sobborghi di Buda ebbero luogo le prime scaramucce con le truppe di Horthy, inviate a fermare Carlo; a quel punto, il doppiogiochismo di alcuni militari ungheresi che preferirono non alienarsi del tutto la simpatia del reggente e la grave mancanza di risolutezza dimostrata da altri, pur leali, ufficiali legittimisti, compromisero la situazione, portando al fallimento la missione e anche il secondo tentativo di restaurazione, iniziato altresì sotto i migliori auspici (75).
Occorre anche dire che il desiderio di Carlo di restaurare la monarchia in Ungheria senza colpo ferire, per quanto nobile, non poteva che scontrarsi con la cieca caparbietà di Horthy, ben deciso a conservare il potere. Nel momento del pericolo, Carlo e Zita poterono contare sul soccorso del conte Ferenc Miklós Esterházy zu Galántha(1896-1939), che chiese di poter ospitare i sovrani nel suo castello di Tata (Totis), posto fra Györ e Budapest. Esterházy, che due giorni prima aveva raggiunto il convoglio reale insieme alla moglie Mária (1896-1973), si era fino ad allora tenuto in disparte, ma si fece avanti senza esitazioni quando la situazione divenne grave.
Alla piccola stazione di Tata, Carlo e Zita trovarono ad attenderli una decina di carrozze del conte insieme alla sua automobile e quando scesero dal treno furono acclamati dal loro seguito e dai soldati realisti con un’ultima, fragorosa, ovazione. La disinteressata dedizione degli Esterházy, che risaltava ancora di più se paragonata al cinismo di chi tradì il re, era il frutto di una fedeltà rimasta immutata nel corso dei secoli: «L’Imperatore e Re Francesco, quando dovette scappare da Vienna davanti agli eserciti di Napoleone, venne a Totis.
Ancora un secolo più tardi la fedeltà e la coscienza del dovere nel signore di Totis era rimasta inalterata. Il castello ospitò l’Imperatore e Re Francesco Giuseppe, quando costui si trovava all’apice del suo splendore; ora era pronto a tributare gli stessi onori al Sovrano che aveva perduta la sua potenza» (76).
Dopo il soggiorno a Tata e un altro periodo trascorso presso l’abbazia di Tihany, sul lago Balaton, sotto la custodia del governo ungherese — che non riuscì a ottenere da Carlo alcun atto di abdicazione —, Carlo e Zita, scortati per incarico delle potenze dell’Intesa dalla marina britannica, si accingevano a intraprendere il viaggio che li avrebbe condotti a Madera.
Aladàr von Boroviczény, uno di coloro che furono accanto a Carlo nell’impresa dell’ottobre del 1921 e gli rimasero fedeli fino all’ultimo, annotò in seguito: «[la consapevolezza del fatto che] con la restaurazione del legittimo Re l’Ungheria avrebbe trovata la sua via d’uscita da una situazione opprimente ci furono di sollievo nei duri giorni del carcere. Noi avevamo fatto onestamente ciò che poteva essere utile al Re e alla patria. Però, come sempre, quando nella storia dell’Ungheria l’intrigo si pose fra la corona e la nazione, anche questa volta il paese cadde nella sventura. Gli interessi del Re e della patria erano gli stessi e non si poteva dividerli» (77).
8. L’esilio definitivo e la morte
Il 19 novembre 1921 la coppia reale, quando si congedò dall’equipaggio dell’incrociatore inglese Cardiff che l’aveva portata nell’isola portoghese di Madera, fu accolta dal sindaco della capitale Funchal e da una piccola folla che si era raccolta sulla riva. Il conte Károly e la contessa Irma Hunyady (1873-1925), i quali avevano fino ad allora costantemente accompagnato i sovrani, non ottennero la proroga del permesso di soggiorno e dopo poco tempo dovettero rimpatriare.
Anche ad altri del seguito reale fu impedito di recarsi o di trattenersi presso Carlo per condividerne l’esilio. In aggiunta, le potenze dell’Intesa, che avevano decretato l’esilio dell’imperatore a Madera, non avevano preso alcuna decisione a proposito del mantenimento della sua famiglia, che in breve si trovò priva di sostanze sufficienti. Nel febbraio del 1922 Carlo, Zita, i bambini — che li avevano raggiunti dalla Svizzera — e i pochi domestici rimasti lasciarono Villa Victoria, una dépendance del Palace Hotel di Funchal, per trasferirsi in una villa, la Quinta do Monte, che sorgeva sulle alture sovrastanti la baia, messa gratuitamente a disposizione da un possidente del luogo: si trattava però di una residenza estiva, fredda ed estremamente inospitale in quella stagione (78).
Nel marzo successivo Carlo cominciò ad accusare un raffreddamento, che in breve si aggravò, costringendolo a mettersi a letto con febbre alta e tosse: nelle quasi due settimane di malattia Zita gli rimase accanto giorno e notte, sebbene anche quasi tutti i bambini si fossero in breve tempo ammalati. Il 25 marzo la febbre salì a quaranta gradi e la tosse divenne quasi ininterrotta; il 27 gli fu amministrata l’estrema unzione; lo stesso giorno chiese di confessarsi e dichiarò solennemente ad alta voce: «Perdono di cuore a tutti i miei nemici, a tutti coloro che mi hanno offeso e a tutti quelli che lavorano contro di me» (79): la sera, dopo aver ricevuto la comunione, fece chiamare Otto, col quale rimase solo pochi minuti.
Pur confortato dalla profonda fede — pregava ininterrottamente — e dall’affetto unanime della famiglia, l’imperatore durante la malattia soffrì, oltre che per gli aspri patimenti fisici, che sopportò tuttavia con cristiana compostezza, per la lontananza dalla propria terra, il cui pensiero non lo abbandonava mai. Da cristiano, Carlo aveva sempre cercato d’interpretare gli eventi piccoli e grandi della vita alla luce della Provvidenza divina e, ora, in particolare, leggeva i dolorosi sviluppi della situazione in patria come una prova imposta dal cielo a lui e ai suoi popoli, offrendo per questo le sue sofferenze in espiazione a Dio: la notte prima di spirare fu sentito dire: «Debbo soffrire così affinché i miei popoli tornino uniti» (80).
La mattina del primo aprile le condizioni di Carlo si fecero palesemente critiche: poco prima di mezzogiorno egli si voltò verso la sposa, che, al suo capezzale, gli suggeriva sottovoce brevi preghiere e giaculatorie, mormorando: «Ti amo così tanto». Di lì a poco, con il nome di Gesù sulle labbra, l’ultimo imperatore della Casa d’Asburgo si spense: erano le 12 e 23 di sabato 1° aprile 1922 (81). Carlo riposa nella chiesa di Nostra Signora del Monte, che si trovava poco lontano dalla villa, a Funchal; la sua tomba è in una cappella laterale: un semplice sarcofago sormontato da un crocefisso di legno proveniente dalla fedele terra tirolese (82). Unico ornamento l’immagine della corona di spine (83).
In memoria del suo sovrano Aladàr von Boroviczény ha scritto: «Egli è diventato un martire! Lontano, nell’esilio, giace la tomba dove il Re riposa e intorno mugghiano le onde dell’Oceano. Egli ha combattuto per la felicità e la pace di mi-lioni e per la verità. Egli non ha potuto raggiungere lottando la pace; su di lui ha vinto la menzogna. Ma la lotta della verità e della menzogna è eterna e la verità non può perire».
Boroviczény narra anche che, quando nella capitale ungherese giunse la notizia della morte del re, «sul palazzo reale di Budapest vennero issate le bandiere a mezza asta. Nella chiesa dell’incoronazione venne allestita la grande messa funebre. La chiesa era piena di gente, come il giorno dell’incoronazione: una folla profondamente abbattuta e afflitta. Nel mezzo un enorme catafalco. Anche davanti alla chiesa, sulla piazza dove cinque anni prima il Re prestò alla nazione il suo giuramento, si pigiava ora il popolo. Un’automobile si fece innanzi. Il reggente [Horthy]. Tra la folla si fece un silenzio glaciale. Solo qua e là qualche mormorio, che risuonava minaccioso come un temporale che s’avanza da lontano. Il reggente entrò nella chiesa e la mano che cinque mesi prima aveva brandito l’arma contro il Re ora depose una corona sul suo catafalco» (84).
Zita sopravvisse ancora per lunghi anni a suo marito e nel corso del tempo formò i figli di Carlo — in particolare il primogenito Otto — affinché, una volta adulti, potessero degnamente assumere l’eredità e la grande tradizione dinastica degli Asburgo (85). Solo nel 1982 ella ebbe la possibilità di rivedere l’Austria, quando fu abrogato il divieto che fino ad allora aveva negato l’ingresso nel paese ai membri della famiglia imperiale (86).
L’ultima imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria, Zita Maria delle Grazie Adelgunda, principessa di Borbone-Parma, si spense il 14 marzo 1989 a Zizers, nel cantone svizzero dei Grigioni, dove si era definitivamente ritirata. Il funerale ebbe luogo a Vienna il 1° aprile, settantacinquesimo anniversario della morte di Carlo.
Il 28 marzo la bara di Zita venne portata nell’abbazia di Klosterneuburg, sulle colline che dominano Vienna, dove per un giorno la gente ebbe modo di sfilare davanti alla salma dell’imperatrice. La sera del 30 novembre successivo la bara fu trasportata a Vienna, prima al palazzo imperiale dell’Hofburg e duecento membri delle case d’Asburgo e di Borbone-Parma, insieme a seicento ospiti d’onore, accompagnarono la cerimonia funebre, alla fine della quale l’organo intonò, ancora una volta, le note del «Gott erhalte», l’inno imperiale, e dell’inno ungherese, mentre le seimila persone presenti all’interno della cattedrale si univano al canto.
Le preghiere funebri furono recitate in tutte le lingue dell’antico impero: tedesco, ceco, ungherese, croato, italiano, sloveno e polacco; nel messaggio di Papa Giovanni Paolo II letto dal nunzio pontificio mons. Donato Squicciarini venne usata per la defunta l’espressione «Maestà apostolica» e Otto venne chiamato «Sua altezza imperiale e reale». Infine il corteo funebre si mise in moto. Una carrozza nera del XIX secolo condusse l’imperatrice alla celebre cripta della chiesa dei Cappuccini, nel centro di Vienna: era la stessa dietro la quale, nel novembre del 1916, Zita aveva camminato accanto a Carlo e al figlio Otto in occasione delle esequie dell’imperatore Francesco Giuseppe (87).
III. CARLO FUTURO BEATO?
1. La causa di beatificazione
Il 3 novembre 1949 la Radio Vaticana annunciava l’apertura del processo di beatificazione dell’imperatore Carlo e il 22 maggio 1954 gli atti del processo, dopo l’istruttoria diocesana, furono rimessi alla Sacra Congregazione dei Riti. Un passo intermedio, ma significativo del progresso nel lungo iter, è stato fatto in questi ultimi giorni. Il 12 aprile 2003, infatti, la Congregazione per le Cause dei Santi ha decretato l’eroicità delle virtù di Carlo d’Asburgo, con la conseguente applicabilità al servo di Dio del titolo di «venerabile».
Si tratta senza dubbio di un passo decisivo, anche se non sufficiente — manca l’accertamento di un miracolo—, verso la beatificazione (88). Durante la cerimonia in Vaticano, alla quale ha partecipato anche una rappresentanza degli Asburgo guidata dagli arciduchi Otto e Simeone, il cardinale José Saraiva Martins C.M.F., prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, ha definito il venerabile Carlo d’Asburgo «uomo di sicura dirittura morale e solida fede», che «[…] cercò sempre il bene del suo popolo e nella sua azione di governo si ispirò alla dottrina sociale della Chiesa», perseguì «la giustizia, la pace e nutrì un costante anelito alla santità. Fu esemplare come cristiano, marito, padre e sovrano» (89).
2. Le virtù cristiane L’imperatore
Carlo — la cui tomba, venerata dalla popolazione di Madera, è circondata dalla fama miraculorum (90) — fu uomo di profonda fede cattolica, che gli diede fortezza e prudenza anche nei momenti più difficili. Utile a riguardo è la testimonianza del nunzio apostolico monsignor Lorenzo Schioppa (1871-1935), incaricato dal papa di impartire la benedizione apostolica ai sovrani sulla nave che stava per portarli in esilio.
Monsignor Schioppa, dopo averli incontrati (91), così commentò: «Il re Carlo e la regina Zita non sono delle persone ordinarie. Sono delle figure che assumono una grandezza biblica. Ho visto molte cose nella mia vita, ma non potrò mai dimenticare quest’addio alla coppia reale. La mia anima sacerdotale è stata edificata e arricchita di una nuova esperienza, perché ho potuto constatare che ci sono ancora delle anime grandi, veramente cristiane. Il re ha accolto con una calma sovrumana la sua sorte e quando ho voluto esprimergli la mia compassione, fu lui a consolarmi dicendomi: “Dio ha voluto che fosse così”. Questa chiara visione della volontà di Dio dà al più sfortunato dei principi la forza di sopportare una prova così dura e difficile. Molti furono coloro che abbandonarono nel momento del pericolo il loro sovrano, desideroso della pace, ma egli da vero cristiano perdonò tutti» (92).
Molto fiducioso nella preghiera e a essa dedito, Carlo d’Asburgo condusse una vita sobria, soprattutto se paragonata al suo rango, e si preoccupò sempre del benessere materiale e spirituale del suo prossimo (93), ivi inclusi, innanzitutto, i sudditi che gli erano stati affidati. Nonostante i gravi impegni impostigli dal suo ruolo pubblico, prima di erede al trono e poi di capo di Stato, Carlo si sforzò costantemente di non trascurare la propria famiglia, in primo luogo la sposa, che amò moltissimo, pienamente ricambiato; dopo la sua morte, Zita non pensò mai a risposarsi ma rimase legata in modo indissolubile alla memoria del marito e, nello stesso tempo, alla causa della dinastia: una fedeltà robusta e fondata sulla sua profonda fede religiosa; emblematicamente, dal giorno della scomparsa di Carlo, nel 1922, ella vestì il lutto senza interruzione.
Zita fu per Carlo una sposa affettuosa e allo stesso tempo energica, un’autentica mulier fortis. Molto è stato detto a proposito dell’influenza esercitata sull’imperatore dalla consorte: anche il barone Margutti, fra gli altri, ha sottolineato — con una certa enfasi — il sostegno che Zita non mancò mai di offrire a Carlo (94). Ma se è vero che Zita, per esempio, veniva informata della situazione politica e militare, il suo atteggiamento nei confronti del marito, tuttavia, non fu mai d’intromissione: l’unica volta che si permise di sollevare obiezioni su un problema militare, Carlo la riprese con delicatezza, dicendole: «Mia cara, dovete lasciare questo tipo di cose a me. La verità è che io sono un soldato e voi no» (95).
La stessa attenzione ebbe per i numerosi figli, la cui prima e più efficace forma di educazione fu l’esempio paterno. Al cuore di questa dinamica educativa stava la fede cristiana, sì che il primogenito Otto, parlando in particolare dell’educazione religiosa ricevuta dal padre, osservò: «Egli aveva una scienza religiosa personale e molto profonda, ed ha dato a noi suoi figli un insegnamento religioso completo. Mi è sempre rimasta impressa la convinzione e l’immagine di mio padre come un uomo dalla fede profonda, veramente vissuta» (96).
3. La vita spirituale
Per quel che concerne la vita spirituale — pur non avendo ancora sufficienti informazioni a disposizione — si può certamente dire, fra l’altro, che Carlo d’Asburgo fu molto assiduo nella partecipazione alla messa ed ebbe una particolare devozione per il culto eucaristico. Un cappellano che fu vicino alla famiglia imperiale a Madera ebbe a dichiarare: «Passava gran parte della notte alla presenza del Santissimo Sacramento, conservato nel suo oratorio domestico» ( 97 ).
In queste due forme devozionali Carlo si manteneva, per certi aspetti, fedele a una tradizione assai sentita dagli Asburgo: secondo una leggenda familiare, infatti, il celebre avo Rodolfo I (1218-1291), avendo incontrato lungo la strada un sacerdote che si recava ad amministrare gli ultimi sacramenti a un moribondo, gli cedette il proprio cavallo affinché potesse attraversare un torrente; subito dopo, Rodolfo non volle che la cavalcatura gli fosse restituita, sostenendo che non poteva più servirsi per la guerra e per la caccia di un cavallo che aveva portato il Redentore (98).
In un’epoca molto più vicina alla nostra, si pensi all’importanza che assunse, anche per impulso della casa regnante, la processione del Corpus Domini a Vienna: dopo la messa solenne nella cattedrale di Santo Stefano, alla presenza dei sovrani e dei grandi dell’impero, aveva inizio il corteo, aperto dai cavalieri di tutti gli ordini austro-ungarici, seguiti dagli ecclesiastici; veniva poi il baldacchino sotto il quale il cardinale arcivescovo recava l’ostia consacrata, immediatamente seguito da Francesco Giuseppe a piedi, a capo scoperto e con una candela accesa in mano; dietro di lui venivano gli arciduchi e gli altri ordini e notabili, le corporazioni, le confraternite e il resto dei fedeli. Nel corso della processione, che attraversava tutta la città vecchia, l’imperatore si presentava agli occhi del popolo come il «primo servitore del Divino sacramento»(99).
4. I doveri di Stato
Ma limitarsi a parlare della limpida testimonianza di Carlo come laico cristiano ordinario sarebbe inadeguato: vi è un altro aspetto, senz’altro d’importanza non secondaria, della sua pratica eroica delle virtù e che viene anch’esso considerato nell’ambito della causa di beatificazione attualmente in corso. Secondo la Relatio citata, infatti: «[…] non ci possiamo trarre dalle pene, considerando il caso del Servo di Dio semplicemente come quello di un pio aristocratico, padre di famiglia: ci occupiamo di lui perché nella sua vita in un determinato momento storico, è stato Imperatore d’Austria» (100).
In qualità d’imperatore d’Austria e di re apostolico d’Ungheria Carlo d’Asburgo sentì innanzitutto una forte responsabilità dinanzi a Dio, nel quale egli riconosceva l’origine dell’altissima autorità che si trovava ad esercitare: proprio perché la funzione imperiale e reale gli era stata conferita— anche tangibilmente nell’incoronazione e nell’unzione— da Dio, egli era fermamente convinto di doverla esercitare nel più scrupoloso dei modi e che nessuno avesse diritto o potere di esonerarlo da essa.
La consapevolezza che l’autorità veniva da Dio fu in Carlo motivo di attenzione al modo in cui la esercitò, non di autoesaltazione, e ancor meno coincise con un atteggiamento di tipo «assolutistico»: basti pensare al fatto che Carlo, appena poté, fece riprendere in Austria le attività parlamentari, bloccate dalla guerra. Egli, inoltre, costantemente dimostrò agli altri, fossero essi i grandi del regno o il popolo, di aver assunto la sua alta dignità «[…] con umiltà esemplare, considerandola verso la fine della sua vita il calvario da soffrire» (101). In più occasioni Carlo sottolineò, sia con le parole sia con il comportamento, la sua percezione «sacrale» del titolo imperiale di cui era insignito, per nulla imbarazzato nel dichiarare: «io sono re per grazia di Dio e non per grazia del popolo» (102).
Quando, dopo il crollo dell’impero, esponenti della massoneria, probabilmente perché intimoriti dalla rivoluzione bolscevica divampata in quei mesi in Ungheria e in Germania, lo contattarono per proporgli di riacquistare la corona in cambio di alcuni compromessi: egli respinse l’offerta affermando di non poter accettare dalle mani del demonio ciò che aveva ricevuto da Dio (103). La responsabilità che egli sentiva nei confronti di Dio lo portava, come diretta conseguenza, a un alto senso di responsabilità verso i popoli che gli erano stati da Dio affidati. Ciascuno di essi, si trattasse degli abitanti dell’avita Austria o della lontana Galizia, gli stava ugualmente a cuore e per questo il sovrano fece ogni sforzo possibile al fine di dare all’impero un assetto federalistico, benché, come ho già osservato, fosse terribilmente arduo concretizzare il progetto nelle circostanze in cui si trovò a governare (104).
Per contrasto, come acutamente coglie Brook-Shepherd, «[…] il fondo sciovinistico dei tempi nuovi gli dovette riuscire doloroso. Il credo austriaco era la conciliazione, mentre quello dell’era nazionalistica era l’odio» (105). Anche alla fine della sua vicenda terrena Carlo continuò a leggere la sua condizione di imperatore e re alla luce della fede, che allora, in particolare, gli proponeva come esempio l’immagine della passione di Cristo. Negli ultimi momenti egli dirà: «Se la mia vita non è risultata utile ai miei popoli, forse lo sarà il mio morire» (106).
Per il medesimo motivo, Carlo, che pure fu un comandante avveduto e amato dai suoi soldati (107), si pose come obiettivo urgente la conclusione dell’ormai troppo sanguinoso conflitto, mostrandosi in questo, sostanzialmente, l’unico capo di Stato che nel 1917 accolse con sincerità l’accorato appello di Papa Benedetto XV (1914-1922) a por fine alla «inutile strage» della guerra (108).
5. Il sovrano esemplare
La consapevolezza dell’origine divina dell’autorità terrena, la nozione piena delle radici cristiane dell’Europa e dell’unità — fondata su tali radici — delle patrie europee, il rispetto per la specificità di ognuna di esse, lo sforzo costante per ottenere la pace e l’armonia fra popoli di diversa cultura sono tutti elementi che contribuiscono a riempire di significato l’ipotesi — auspicata — di una prossima beatificazione di Carlo d’Asburgo.
E questo, non solo perché, attraverso Carlo, il quale resse un impero sovranazionale, erede del Sacro Romano Impero, il cristiano e, in specifico, il laico impegnato nell’animazione cristiana delle realtà temporali, potrebbero godere di un nuovo esempio da cui trarre alimento, ma anche perché egli, che appartenne a una dinastia a buon diritto considerata europea «più di ogni altra casa regnante in Europa» (109), verrebbe proposto, in chiave «laica», come un modello valido e ricco d’insegnamenti, soprattutto nel frangente attuale, per gli uomini politici di altra fede o, comunque, «di buona volontà».
Un ritratto poco noto raffigura Carlo vestito degli antichi paramenti imperiali, con la spada e il globo fra le mani e la splendida corona ottagonale del Sacro Romano Impero sul capo, sostenuta da due angeli: si tratta della rielaborazione di un famoso ritratto di Carlo Magno (742ca-814) dipinto da Albrecht Dürer (1471-1528) (110).
Se si riflette, una tale rappresentazione non è poi così peregrina: in fondo, come un imperatore di nome Carlo — Carlo Magno — pose le basi dell’impero cristiano in Europa occidentale e un altro sovrano dello stesso nome — Carlo V (1500-1558) — ricoprì degnamente la medesima carica nel difficile, per certi aspetti traumatico, passaggio dell’Europa dal medioevo all’età moderna, allo stesso modo fu un ultimo imperatore di nome Carlo a custodire fedelmente la tradizione imperiale ancora all’inizio del XX secolo (111) e forse — chissà? — a trasmetterla, attraverso la sua icona, alle generazioni del nostro secolo e dei secoli venturi.