Il cardinale Ruini nella sua recente intervista al Corriere della Sera ha detto che il cattolicesimo politico di sinistra è sempre meno rilevante. Ma che cos’è questo movimento culturale? Da dove origina? Ripercorriamo alcuni passaggi con lo storico Marco Invernizzi
di Marco Respinti
In una intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo e pubblicata sul Corriere della Sera il 3 novembre, il cardinale Camillo Ruini (foto in basso), già presidente della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato esaurita la stagione del «cattolicesimo democratico».
Per comprendere cosa il «cattolicesimo democratico» sia stato e in che senso possa dirsi oggi sempre meno rilevante, Il Timone ha incontrato Marco Invernizzi (foto a fianco al titolo), storico del movimento cattolico, conduttore di Radio Maria e autore di diverse opere, tra le quali: Luigi Gedda e il movimento cattolico in Italia (Sugarco, 2012), San Giovanni Paolo II. Un’introduzione al suo magistero (Sugarco, 2014) e, con Giancarlo Cerrelli, La famiglia in Italia dal divorzio al gender (Sugarco, 2017).
Che cosa significa «cattolicesimo democratico»?
«Per comprenderlo si deve risalire alla Rivoluzione francese (1789-1799), quando una parte dei cattolici lesse i “principi dell’Ottantanove” non come una contraffazione dei valori cristiani, quali erano, ma come elementi positivi da valorizzare. Nacque quindi una versione “democratica” del cattolicesimo che, pur stigmatizzandone le derive giacobine più violente, considerava e considera un bene la modernità filosofico-politica nata appunto dalla Rivoluzione francese, cercando un dialogo con la sua componente meno estremista.
Noto, tra l’altro, che questo uso dell’espressione “cattolicesimo democratico” tende a suggerire l’idea che altri cattolici non proni ai “principi dell’Ottantanove” debbano automaticamente essere considerati non democratici (intendendo l’espressione in senso non illuministico-giacobino). Evidentemente è un abuso».
Che ruolo ha avuto nel secondo dopoguerra in relazione alla Democrazia cristiana (Dc) «A parte la scuola cattolica controrivoluzionaria, che in quel periodo storico non ha avuto esponenti significativi in Italia, nella Dc va distinta la base elettorale, composta da cattolici anticomunisti e conservatori, dai vertici. Fra questi ultimi ci sono stati gli eredi del Partito popolare, fra cui Alcide De Gasperi (1881-1954), intenzionati a ripristinare il sistema politico liberale prefascista; molti deputati eletti tra le file dell’ Azione cattolica, legati al Magistero del Servo di Dio papa Pio XII (1876-1958) e a Luigi Gedda (1902-2000); infine, la componente di Giuseppe Dossetti (1913-1996), cioè la Sinistra interna.
Quest’ultima, nata nell’Università Cattolica di Milano, mirava a conquistare lo Stato con un progetto politico antiliberale. Contestando il cosiddetto “moderatismo” (cioè l’opposizione alle Sinistre socialcomuniste) e l”‘atlantismo” antisovietico in politica estera, il suo progetto culminerà nel ritiro di Dossetti dalla politica, tra 1951 e 1952. Dossetti aveva infatti capito che, per cambiare il Paese, non sarebbe bastata la politica, ma serviva un progetto culturale in grado di riformare profondamente, in senso rivoluzionario e antioccidentale, il Paese.
Nacque così la cosiddetta “Scuola di Bologna” attraverso quella che oggi è la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, la quale si pretende interprete “autentica” del magistero del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), proponendolo come momento di “rottura” nella storia della Chiesa.
Figura indubbiamente carismatica, Dossetti viene ordinato sacerdote, partecipa ai lavori del Concilio come perito del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, e fonda una congregazione religiosa tuttora esistente (la comunità monastica “La piccola famiglia dell’Annunziata”, a Monteveglio). Il suo impegno durante i lavori conciliari è quello di cercare di portarli su posizioni di “rottura” con la tradizione, ma verrà fermato da papa Paolo VI (1897-1978)».
I cattolici votavano insomma Dc per opporsi a comunismo e secolarizzazione, ma di fatto finivano per alimentare la deriva che desideravano combattere?
«Certamente la De ha egemonizzato il mondo cattolico quando, dopo il 1954, anno della morte di De Gasperi, ha cominciato a costituirsi in partito di massa, organizzato e autonomo dalla gerarchia ecclesiastica, sotto la guida di Amintore Fanfani (1908-1999). Fino a quel momento, infatti, la Dc era costituita da un gruppo di notabili che dipendeva dalla forza del mondo cattolico e che doveva “subire” l’azione di controllo dei Comitati civici di Gedda, una specie di sindacato dell’elettorato cattolico.
La Dc ha continuato sì a godere del favore dell’episcopato e dell’elettorato cattolico (anche per mancanza di alternative), ma, soprattutto dopo gli scontri avvenuti a Genova il 30 giugno 1960 in seguito al corteo indetto dalla Camera del Lavoro e appoggiato dalla Sinistra contro il congresso del Movimento sociale italiano, dopo la fine del governo retto dal democristiano Fernando Tambroni (1901-1963) e appoggiato dalle Destre, nonché dopo i primi governi di Centro-Sinistra a partire dal 1961, qualcosa è cambiato. Il partito ha smesso di opporsi al processo di secolarizzazione in corso nel Paese, che i vescovi italiani denunciarono invece apertamente nella Lettera sul laicismo del 25 marzo 1960.
Dunque nel 1974, la campagna referendaria contro la legalizzazione del divorzio fu combattuta praticamente dal solo Fanfani. E, anche in occasione della battaglia contro l’aborto del 1980-1981, il contributo della De fu tenue, tanto che tutti i ministri firmatari della legge, oltre al Presidente della Repubblica, erano democristiani».
Cosa è accaduto in questa svolta?
«Credo sia mancata soprattutto la speranza, intesa anche come virtù politica, nella convinzione che il processo rivoluzionario fosse invincibile e che quindi ci si dovesse adeguare senza eccessive contrapposizioni. Fu del resto in questo contesto che nacque il tentativo di “compromesso storico” tra Dc e Partito comunista italiano (Pci), che diede vita agli esecutivi succedutisi fra il 1976 e il 1979, e in cui, per la prima volta dal 1946, il Pci rientrava nell’area di governo con i cosiddetti governi di “solidarietà nazionale”.
Si trattò di un compromesso politico frutto di un tentativo di accordo culturale, in base al quale i comunisti rinunciavano al materialismo dialettico e all’ateismo e i cattolici sia alla dottrina sociale della Chiesa, sia alla costruzione di una società ispirata al Vangelo».
Oggi l’erede del cattolicesimo democratico è il Partito Democratico (Pd)?
«Il Pd è in qualche modo l’erede del compromesso storico, seppure in un contesto culturale completamente diverso. Però, durante la segreteria di Matteo Renzi, i comunisti (forse questo è l’unico merito del politico toscano) sono stati emarginati e costretti a formare altre forze politiche, peraltro con pochi risultati. È il segno che una tappa del processo rivoluzionario è definitivamente tramontata, almeno in Occidente».
Il cardinale Ruini sostiene che la stagione del cattolicesimo democratico è solo un ricordo. Che cosa significa?
«Il cardinale Ruini dice bene. Il cattolicesimo democratico non ha più senso, perché quando nacque ed esistette in senso pieno era una specie di riflesso, una conseguenza, dell’esistenza del comunismo ritenuto indistruttibile. Caduta in Occidente questa ideologia, il cattolicesimo democratico non ha più avuto e non ha più ragione autonoma di essere. Questo non significa peraltro che sia venuto meno l’atteggiamento compromissorio da parte di alcuni cattolici verso l’ideologia o il potere di moda.
Vi sono state le stagioni del cattolicesimo liberale, del clerico-fascismo e del cattolicesimo democratico, con cui una parte dei cattolici ha cercato di affiancare e di compromettersi con le ideologie delle diverse epoche. Sono tutti tentativi falliti di principio e di fatto, ma l’atteggiamento che li ha generati potrebbe sempre rinascere a seconda del potente di turno».