di Stefano Fontana
Sulla questione dei cattolici in politica esistono tuttora molti nodi irrisolti. Una nuova collocazione politica, una nuova classe politica, nuovi partiti politici non si improvvisano e non è sufficiente che si creino dei vuoti politici o che si aprano dei periodi di transizione per rendere più facile la presenza dei cattolici in politica.
Oggi i cattolici sono divisi tra centro-destra e centro-sinistra. Molti credono che ciò sia dovuto al bipolarismo che, ancorché imperfetto, obbliga tutti a schierarsi di qua o di là. La tesi suona pressappoco così: dopo il referendum del 1993 e la discesa in campo di Berlusconi del 1994 si è aperta la fase del bipolarismo, che ha impedito ai cattolici di rimanere uniti.
L’ultimo tentativo è stato quello di Martinazzoli, che si è presentato alle elezioni del 1994 posizionandosi al centro. Era riuscito a guadagnare il 10 per cento dei voti, ma non c’era più alcuno spazio per farli contare politicamente. Insomma, a dividere i cattolici sarebbe stato il sistema elettorale. Hanno pensato così a lungo in molti e forse qualcuno lo pensa anche adesso, ritenendo che un nuovo partito di centro, una Udc allargata un po’ di qua e un po’ di là, potrebbe fare alla bisogna. Ma così non è.
I cattolici erano – e sono – divisi molto prima di entrare in cabina elettorale. Sono divisi, a dire il vero, in molti rigagnoli, ma lo sono soprattutto in due parti. Due aree prima di tutto teologiche e solo in seconda battuta politiche. Due aree che riguardano il modo di vedere il rapporto della Chiesa con il mondo e la stessa identità cristiana.
Due concezioni e due sensibilità che in questi ultimi anni non si sono avvicinate, nonostante i giudizi irenici dei benpensanti. Dalla politica, la divisione, come un’onda di ritorno, investe le comunità cristiane, spesso lacerandole; ma questo capita perché divise lo erano già in quanto sostenitrici di due modi di essere del cristiano nella società moderna.
Se prendiamo, per esempio, una piccola ma significativa associazione cattolica come “Agire politicamente”, l’associazione di cattolici democratici fondata da Giorgio Campanini e Alberto Monticone. E se prendiamo specularmente “Alleanza cattolica”, troviamo due modi di intendere la missione della Chiesa nel mondo, il ruolo del magistero e quello dei fedeli laici, la necessità o meno di appellarsi alla legge naturale, il posto della coscienza personale nelle scelte politiche, il significato e i limiti della laicità e della democrazia, lo spessore del ruolo pubblico del cristianesimo e così via … quasi totalmente contrapposti. Le diversità sono tante e non riguardano temi marginali.
Capita così che davanti alle grandi scelte, la divisione sia inevitabile. Anche nel periodo del Cardinale Ruini non si è avuto un atteggiamento unanime sulle questioni che contano. Romano Prodi rimandò al mittente l’invito del Presidente della CEI di astenersi dal referendum sulla legge 40 e Rosy Bindi contravvenì all’indicazione andando a votare, anche se per il no.
Fu allora che Romano Prodi disse di essere un “cattolico adulto” e da allora questa è diventata l’espressione più efficace per dividere i due campi dell’impegno politico dei cattolici: quello dei cattolici adulti e quello dei cattolici non adulti, rivendicando con orgoglio gli uni e gli altri questa loro caratteristica. Il cattolico adulto è quello che prima è di centro-sinistra e poi è cattolico, il cattolico non adulto è quello che prima è cattolico e poi è di centro-destra. La divisione non è tanto tra centro-sinistra e centro-destra, ma tra adulti e non adulti. Il bipolarismo ha solo dato due case politiche diverse a chi era già diviso.
Un punto poteva dirimere la questione: i principi non negoziabili enunciati da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. I principi non negoziabili avrebbero potuto costituire una premessa che tutti i cattolici impegnati in politica avrebbero dovuto preventivamente accettare. Una specie di preambolo per avere il diritto di chiamarsi cattolico in politica. Ma anche questo non è avvenuto, purtroppo, soprattutto per tre motivi.
Il magistero episcopale è stato debole nel porre questa questione. Eppure, secondo molti interpreti, stava indicando la nascita di qualcosa di nuovo. Molti vescovi hanno tributato al tema dei principi non negoziabili un ossequio di maniera, senza vedervi la chiave di volta per un impegno maturo e conforme agli insegnamenti di Benedetto XVI.
Il secondo motivo è che i principi non negoziabili non sono stati presentati anche come prioritari, oltre che fondamentali. Tutti i cattolici impegnati in politica dicono di accettarli, solo che alcuni li considerano prioritari e dirimenti, altri li considerano principi tra i tanti, non aventi un valore superiore al tema della giustizia, per esempio, o della lotta alla povertà. Non aver chiarito questo in modo netto da parte del magistero episcopale italiano è stato una ulteriore debolezza.
Il terzo motivo è che non ci si è adoperati per chiarire che i principi non negoziabili non sono affatto confinati nell’etica biomedica, ma riguardano la costruzione dell’intera società con ripercussioni a 360 gradi. E’ così successo che un’area del cattolicesimo accusasse l’altra di “neogentilonismo”, ossia di rinunciare ad avere un programma politico completo per concentrarsi lobbisticamente sul conseguimento di alcuni obiettivi puntuali. A parte che il patto Gentiloni non merita tanto discredito, le cose non stanno così: chi parte dai principi non negoziabili non li intende solo come dei singoli temi, ma come dei criteri e una luce per affrontare anche tutti gli altri temi politici. Del resto Benedetto XVI lo ha detto molte volte.
In questi giorni si parla molto di nuove forme di presenza politica dei cattolici. Ma il rischio è che si voglia cominciare dalla foce piuttosto che dalla sorgente.