di Gianteo Bordero
Riesce oggettivamente difficile immaginare quale peso politico potranno avere i cattolici nel Partito Democratico dopo l’alleanza stipulata da Veltroni con i radicali e dopo la decisione di candidare come capolista in Lombardia il dottor Umberto Veronesi.
Anche l’Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha preso atto della «deriva laicista» del Pd e negli ultimi giorni, abbandonando i toni soft con cui fino all’altro ieri aveva commentato le vicende del nuovo partito di centrosinistra, ha iniziato a cannoneggiare con vigore in direzione di piazza Sant’Anastasia.
Il disagio cattolico si tocca con mano e mette nuovamente sul tappeto una questione che sembrava ormai archiviata dopo la stesura del Manifesto dei valori del Pd: quella della convivenza di due visioni politiche opposte per quanto riguarda i temi legati alla vita e alla famiglia e, più in generale, la definizione della laicità.
Se i teodem e tanti ex della Margherita pensavano di aver chiuso la partita grazie all’inserimento nel Manifesto sia del riconoscimento del ruolo pubblico delle religioni e del loro diritto di intervento che della posizione di cautela sulle materie «eticamente sensibili», ora tutto torna in alto mare, perché i radicali annunciano: «Nel Pd romperemo le scatole», mentre Veronesi rilascia interviste che farebbero accapponare la pelle persino al più ribelle e meno dogmatico dei credenti.
Il rischio più grande, per i cattolici del centrosinistra, è dunque che si riproduca la stessa situazione che si verificò dopo la nascita dell’Unione prodiana, nella quale le posizioni cristiane vennero di fatto ridotte alla marginalità dal predominio del laicismo ideologico (comune ai seguaci di Pannella e alla sinistra massimalista) e del radicalismo di massa (così diffuso anche tra i Ds).
Ma c’è un dato che non va taciuto: se oggi Veltroni apre le porte del Partito Democratico alla Bonino e a Veronesi, ciò è dovuto anche al combinato disposto di due fattori interni alla galassia cattolica: la scarsa capacità dei teodem di incidere sui processi politici reali del Pd e la contestuale prevalenza di una prospettiva cattolico-democratica per sua natura incline ad associarsi alla carovana laicista in opposizione pregiudiziale alle indicazioni della gerarchia.
Stando così le cose, è chiaro che il tentativo veltroniano di presentare la concezione della laicità targata Pd come qualche cosa in più e di meglio rispetto al passato, come il superamento degli «steccati ideologici» del Novecento, rappresenta solamente l’ennesimo gioco retorico a cui non corrisponde alcuna realtà: le posizioni cattoliche, nel Partito Democratico, avranno con ogni probabilità la medesima irrilevanza che avevano nell’Unione – con l’unica differenza che saranno ammantate da Veltroni con un’abbondante patina di buonismo solidarista e terzomondista.
Ma, alla fine, la sostanza non cambia: l’unica cosa che sembra interessare al leader e allo stato maggiore del Pd è ancora l’allargamento dei confini del partito per riuscire a tenere testa al Popolo della Libertà. Se questo è il fine, il mezzo non può che essere quello della riproposizione sotto mentite spoglie dell’Unione.
Certo, c’è stata la rottura con la sinistra massimalista, un atto obbligato utile a Veltroni per individuare un capro espiatorio di tutte le disavventure capitate al governo Prodi e per presentarsi come icona del «nuovo che avanza» e del «buon riformismo», ma il principio-guida è rimasto sempre lo stesso: mettere insieme ciò che insieme non può stare (Paola Binetti ed Emma Bonino, Antonio Di Pietro e i garantisti liberal) per occupare il potere, costi quel che costi.
Per quanto riguarda i cattolici del Pd, ciò significa che li vedremo continuare a fare quello che hanno fatto negli ultimi due anni: le comparse di una commedia nella quale ciò che conta non sono le belle parole sui «valori da difendere», ma la strutturazione di un sistema di potere che usa in maniera strumentale ogni posizione politica per annettere voti ma non contenuti.
(A.C. Valdera)