8 Giugno 2019
Negli anni ‘30, a Vladivostok, molti cattolici siberiani furono arrestati e fucilati, con l’accusa di spionaggio. Le tre storie che pubblichiamo, frutto delle ricerche di Tat’jana Šapošnikova, archivista della parrocchia cattolica della Madre di Dio, ci ricordano che dietro alle grandi dinamiche e ai grandi numeri della storia si cela sempre la realtà concreta di un volto umano.
di Redazione
Il decennio che va dal 1929 alla fine degli anni ‘30 in Unione Sovietica è tristemente noto come il decennio delle repressioni contro i «nemici del popolo».
Dalla dekulakizzazione (la campagna contro i cosiddetti contadini ricchi) in poi, si assiste a una continua ascesa di violenze da parte del potere sovietico che tocca il suo apice nel famigerato biennio del grande terrore, tra il 1937 e il 1938: Stalin, per vari motivi su cui non possiamo soffermarci in questa sede, decide di regolare i conti con tutti gli elementi «antisovietici» – «sabotatori», «spie», «reazionari», «filocapitalisti» – che a suo modo di vedere infestano la nazione.
Come recita l’ordine operativo 00447, che costituisce il sunto della temperie di quegli anni, «agli organi della sicurezza di Stato si affida il compito di distruggere tutta questa banda di elementi antisovietici nella maniera più spietata e di difendere il popolo lavoratore dagli intrighi controrivoluzionari (…) e una volta per sempre mettere fine alla loro azione vile e sovversiva contro i fondamenti dello Stato Sovietico».
Nella categoria dei nemici del popolo, oltre agli ex gerarchi di partito, sono annoverati membri dell’amministrazione, responsabili dei dicasteri economici, intellettuali, membri di associazioni culturali, cittadini appartenenti a determinate etnie sospettate di «collaborazionismo» con i paesi antisovietici (tedeschi, polacchi, finlandesi, ebrei eccetera, vittime delle cosiddette «operazioni nazionali») e ovviamente sacerdoti e fedeli delle varie confessioni cristiane.
È nel contesto di questa lunga ondata repressiva che si collocano le vicende dei cattolici siberiani, soprattutto polacchi, di cui si occupa da anni Tat’jana Šapošnikova, archivista della chiesa cattolica della Madre di Dio a Vladivostok: «Io stessa provengo da una famiglia di parrocchiani vittime delle repressioni.
Nel 1937-1938, durante le cosiddette “operazioni nazionali”, furono annientate intere famiglie di polacchi» racconta Tat’jana, accusate di associazione controrivoluzionaria o di aver venduto informazioni sensibili al vicino Giappone. Grazie ai documenti raccolti negli archivi dell’FSB, ai ricordi di famiglia, e ai racconti dei testimoni, Tat’jana Šapošnikova ha ricostruito le storie di tanti cattolici siberiani vittime delle repressioni.
Ne riportiamo qui tre, pubblicate nel portale Sibir’ realii, a memoria del fatto che le grandi vicende della storia nascondono sempre la realtà semplice e concreta di un volto umano.
Il baule del vescovo
Regina Stan’ko era nata in una famiglia cattolica di Vladivostok. Suo padre, Stanislav Stan’ko, si era trasferito dal governatorato di Vitebsk durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905. Fino alla rivoluzione d’ottobre aveva servito come scrivano nell’esercito; dopo l’instaurazione del potere sovietico aveva trovato un impiego nelle ferrovie, e negli anni trenta lavorava ormai nella «Direzione generale della Rotta Marittima del Nord» (organizzazione addetta al controllo del traffico navale tra il nord Europa e il Pacifico).
Genovefa Iosifovna, mamma di Regina, era nata nel governatorato di Kovno (oggi Kaunas, Lituania). Nel 1908, in seguito alle riforme di Stolypin (che prevedevano un finanziamento all’emigrazione per la colonizzazione delle zone più spopolate) si era trasferita con i genitori nella Siberia occidentale, e due anni dopo a Vladivostok, dove aveva conosciuto il suo futuro marito.
Nel 1922 dai coniugi Stan’ko era nata Regina. Stanislav Stan’ko aveva accolto la rivoluzione con entusiasmo; provenendo dal popolo semplice, credeva veramente che la situazione sarebbe cambiata in meglio. Ben presto però l’umore in casa Stan’ko cominciò a mutare.
Le porte della loro tenuta davano sulla strada maestra: «Per quella stessa strada, specialmente d’estate, passavano colonne di detenuti. Io e mio fratello correvamo a guardare quei poveri infelici che crollavano a terra direttamente in colonna, e morivano senza giungere alle baracche. Cercavamo di vedere se tra di loro non ci fosse qualche volto noto. Una scena orribile.
I detenuti camminavano avviliti, sfiniti, trascinando le gambe a stento. Da entrambi i lati della colonna, ogni cinque metri, c’erano soldati con i fucili e i cani» (Dalle memorie di Regina Stan’ko).
Nel 1937 Stanislav Stan’ko fu arrestato. L’arresto fu accompagnato da perquisizioni: gli agenti dell’NKVD presero un baule che il vescovo Karol Sliwowski, da poco defunto, aveva affidato alla famiglia Stan’ko, e in cui venivano conservate le reliquie della parrocchia.
«Gli arresti venivano fatti sempre di notte: portarono via papà e rivoltarono casa da cima a fondo. Frugarono tra le nostre cose, le nostre carte, staccarono tutte le foto dagli album. Ma soprattutto, aprirono il baule del vescovo, che era sempre chiuso a chiave: lasciarono qualcosa sul pavimento e si portarono via tutto il resto – una statuetta d’argento, una macchina da scrivere, degli album di fotografie e dei quaderni.
Dopo l’arresto di papà io e mio fratello ci recammo varie volte al campo di prigionia di Vtoraja rečka, dove l’avevano portato: recinzioni, tre ordini di filo spinato, guardiani con i cani, torrette con soldati armati. Lui però era rinchiuso in cella. Vicini, conoscenti, colleghi di papà ci voltarono le spalle, perché eravamo «nemici del popolo».
È chiaro che noi bambini avevamo paura che arrestassero anche la mamma. Avevano trascinato fuori in giardino valigie piene di libri russi, polacchi, francesi e inglesi. Dopo alcuni giorni arrestarono Pavlina, la sorella di mamma, e sua figlia Malečka rimase sola. Chissà perché proprio zia Pol’ja, era difficile trovare qualcuno più povero di lei e della figlia in tutta Vladivostok».
La zia di Regina, Pavlina Bernadskaja, fu liberata nel 1939. Anche dopo molti anni non amava ricordare l’esperienza in prigionia, e di molte cose parlava solo per accenni. I parenti però capivano che doveva aver subito delle torture. Poco tempo dopo l’arresto del padre, alla famiglia Stan’ko fu comunicato che non poteva più vivere nell’Estremo oriente russo.
Concessero dieci giorni per prepararsi al trasloco, e nel frattempo in casa loro si insediò un militare con la sua famiglia. Gli Stan’ko furono mandati a Tomsk.
«Quando mi girai a guardare per l’ultima volta la casa dove ero nata e cresciuta, ebbi la sensazione che tutta la mia vita stesse andando in rovina, e che il futuro non fosse altro che una nera parete.
Giungemmo a Tomsk il 20 ottobre, con la neve che ci arrivava alle ginocchia. Noi avevamo ancora addosso gli abiti estivi, perché a Vladivostok ad ottobre fa ancora caldo. Ci ammalammo tutti, e le nostre cose arrivarono solo in gennaio. I primi tempi ci fermammo dai parenti di papà, sebbene fossimo ben consapevoli che l’arrivo di una famiglia di pregiudicati fosse per loro estremamente inopportuna.
La moglie di mio cugino di secondo grado proveniva da una famiglia di accaniti rivoluzionari, lavorava come medico dell’NKVD, così che eravamo soggetti a una “vigilanza familiare” affidabile».
Della sorte dei propri cari arrestati a Vladivostok, gli Stan’ko non sapevano nulla. Stanislav Stan’ko fu accusato di essere una spia al soldo del Giappone. Rimase in lager fino agli anni ‘50.
«Mio padre arrivò a Tomsk incanutito, dimagrito, gravemente depresso. Perfino mamma a volte aveva paura di parlare con lui. L’NKVD aveva reso un uomo pieno di vita e saldo sulle gambe irriconoscibile».
Stanislav Stan’ko morì nel 1957 a Tomsk. Regina è divenuta medico ed ha vissuto a lungo. È morta il 16 marzo del 2016.
L’uomo che ha confessato
Per i testimoni della fede era quasi impossibile resistere alle torture della polizia politica e spesso l’accusato, fiaccato nel fisico e soprattutto nel morale, cedeva alla disperazione e finiva per confessare tutte le sue presunte colpe. (N.d.T.) Jan Strudzinski nacque nel governatorato di Varsavia il 5 aprile 1872; da giovane fu chiamato alle armi nell’esercito zarista e inviato in Estremo Oriente.
Finito il servizio militare rimase a Vladivostok e si sposò. Dal 1906 al 1927 lavorò come ispettore alla dogana di Vladivostok, e dopo due anni divenne portinaio del convitto per i dipendenti del Consolato giapponese.
Dopo la chiusura della chiesa cattolica (nel 1935; il parroco fu arrestato e mandato in lager nel 1933, ndt.) i fedeli cominciarono a riunirsi nelle case private dei parrocchiani per le preghiere comuni. Il più delle volte si trovavano nella grande abitazione della famiglia Gerasimuk, dove di tanto in tanto si recava anche Jan.
Tuttavia, alle autorità questa attività della comunità cattolica non andava a genio. Nel luglio 1937 l’NKVD arrestò il padre e la figlia Gerasimuk, e a settembre, sempre nel corso della stessa inchiesta, fu arrestato anche Jan Strudzinski, con l’accusa di aver fondato un’organizzazione controrivoluzionaria di stampo religioso.
A ciò si aggiungeva anche l’imputazione di essere una spia al servizio del Giappone, e di aver raccolto con l’aiuto dei conoscenti cattolici che appartenevano alla medesima organizzazione, informazioni sensibili «commissionate» dagli impiegati del Consolato giapponese Mimura e Yamada.
Non sopportando le torture, Jan Strudzinski «confessò le sue colpe» e dichiarò che «Valerija Gerasimuk, ex membro attivo della Chiesa cattolica polacca, dopo la chiusura della chiesa aveva organizzato a casa sua riunioni religiose illegali, che lei stessa dirigeva. Tali riunioni hanno avuto luogo fino alla primavera del 1937».
Tuttavia la collaborazione con gli inquirenti non servì a nulla, Strudzinski venne fucilato il 3 febbraio 1938 insieme a cinque altri cattolici. Molto tempo dopo l’esecuzione della sentenza, i familiari delle vittime non sapevano ancora cosa fosse accaduto ai loro cari. In città giravano voci terribili, si diceva che fosse scoppiata un’epidemia di tifo in prigione, che una parte dei detenuti fosse morta e che gli altri fossero stati gettati ancora vivi nella baia. Nel 1959 le vittime delle fucilazioni furono riabilitate. Tra loro c’era anche Jan Strudzinski.
Forse voleva che sapessimo che non aveva parlato
Di molti sacerdoti e confessori della fede, arrestati, rinchiusi in lager e fucilati, per lungo tempo non si è saputo più nulla. Il caso di padre Georgij Jurkevič qui raccontato è purtroppo emblematico. (N.d. T.)
Padre Georgij Jurkevič nacque nel governatorato di Minsk il 5 aprile 1884. Frequentò il seminario di Pietroburgo e fu ordinato sacerdote nel 1910. All’inizio gli assegnarono una parrocchia a Krasnojarsk, ma ben presto lo trasferirono più a est, a Chabarovsk. Giunse per la prima volta a Vladivostok nel 1921, per consacrare una nuova chiesa in pietra.
Lì conobbe il parroco locale, padre Karol Sliwowski. Padre Karol, piacevolmente sorpreso dalla cultura e dall’entusiasmo del giovane prete, gli propose di diventare vicario della parrocchia cattolica di Vladivostok. Il trasferimento ufficiale di padre Georgij avvenne nel 1923.
All’epoca, a causa della campagna antireligiosa, erano già state confiscate alle chiese le case parrocchiali, per cui al sacerdote fu assegnata una camera in una casa privata, assieme a un ex-galeotto che doveva fungere da «osservatore». Karol Sliwowski fu ben presto mandato alla periferia di Vladivostok, agli arresti domiciliari; Georgij Jurkevič fu invece arrestato con l’accusa di spionaggio.
Al giovane sacerdote imputarono legami con diplomatici giapponesi e polacchi, in particolare con il segretario del Consolato polacco e la sua consorte. Durante gli interrogatori padre Georgij non negò affatto tali conoscenze, così come non negò di conoscere i polacchi che lavoravano alla «Casa polacca» di Vladivostok.
L’altra imputazione riguardava l’«attività sistematica» contro il potere sovietico, che secondo gli inquirenti consisteva nel suo biasimo verso i cattolici che appoggiavano il governo. Inoltre, padre Georgij fu accusato anche di speculare in oro e valuta: durante le perquisizioni in casa sua furono rinvenute monete d’oro e d’argento di epoca zarista, yen e dollari.
Durante gli interrogatori, inizialmente padre Georgij rigettò ogni accusa; poi però, non sopportando le torture, «confessò» tutto. Tuttavia non tradì nessuno dei suoi parrocchiani. L’inchiesta terminò il 6 febbraio 1932, con la condanna del sacerdote a dieci anni di lager.
«L’arresto di padre Georgij fu un duro colpo per noi. Ha continuato a vivere nei miei ricordi per tutti questi anni. I miei genitori tentarono varie volte di mettersi in contatto con lui. Solo nel 1939, quando abitavamo già a Tomsk, mia madre incontrò un prete cattolico, parlarono a lungo di Vladivostok, dei sacerdoti, evidentemente c’era un filo che lo legava al GULag, e il filo si dipanò fino a padre Georgij.
Infatti, proprio quell’anno, padre Jurkevič inviò una breve e cortese lettera, in cui chiedeva di spedirgli del lardo salato e dei calzini di lana. Grazie a questa lettera scoprimmo che stava scontando la pena vicino a Mariinsk, nella regione di Kemerovo. Mamma inviò subito il pacco.
Altre lettere dal sacerdote martire non ce ne furono, ma ci giunse voce che durante la reclusione padre Jurkevič avеsse perso un occhio. Ora finalmente sappiamo come andarono le cose. Forse voleva farci sapere che durante gli interrogatori non aveva parlato».
Non molto tempo fa, la parrocchia cattolica di Vladivostok ha inoltrato una richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Interni della regione di Kemerovo per conoscere il destino di padre Georgij Jurkevič. Nella lettera di risposta del dicastero regionale, si comunicava che il detenuto Georgij Ljudvikovič Jurkevič era morto nel lager di Novo-Ivanoskij, nella provincia di Mariinsk, nella regione di Kemerovo, il 4 luglio 1942.
Significa che anche dopo aver scontato la pena indicata nella condanna, non fu liberato. Non è stato possibile avere notizie sulle cause della morte e sul luogo di sepoltura. Nella chiesa della Madre di Dio a Vladivostok, vi è uno speciale pannello dedicato al clero e ai parrocchiani perseguitati, uomini che hanno sacrificato la vita per non aver rinnegato la loro fede.