Italia Oggi martedì 15 dicembre 2015
Giulio Meotti: è un pericoloso sentimento che nasce nelle èlite, nei media, nelle università
In Europa del Nord e in Francia un ebreo si sente a rischio
di Goffredo Pistelli
Il 20 dicembre in libreria uscirà, per Lindau, il suo nuovo libro, Hanno ucciso Charlie Hebdo. «Sarà un pamphlet, a un anno dalla strage, ricordando tutti quelli che attaccavano i vignettisti ma da vivi. E hanno continuato pure da morti, per niente #jesuisCharlie. Ma sarà anche la storia di 30 anni in cui la nostra libertà di espressione si è ritrovata alle prese con l’intimidazione islamista, da Salman Rushdie a Benedetto XVI, e di come quella libertà l’abbiamo perduta».
Ma non abbiamo cercato Giulio Meotti, aretino, 36 anni, da 12 al Foglio, non per parlare di islamismo quanto, piuttosto, di questo antisemitismo à la page, che circola in Europa, in cui è maturato l’embargo surrettizio contro i prodotti Israeliani: la Commissione vuol che in etichetta sia indicato se sono prodotti oltre la Linea Verde, aldilà della quale ci sono gli insediamenti conquistati con la guerra del 1967.
Domanda. Che cos’è questo sentimento anti-israeliano che si vena sempre più di antiebraismo? Ce ne sono esempi eclatanti, Dagens Nyheter, il più sofisticato quotidiano di Svezia, che, come lei ha scritto, «ha recentemente pubblicato un editoriale dal titolo «È permesso odiare gli ebrei», in cui l’autore, lo storico delle religioni Jan Samuelson, spiega che l’odio islamico per lo stato ebraico è giustificato.
Risposta. Sì questo sentimento nasce dalle élite, è un fenomeno che oggi trovi soprattutto dal mondo intellettuale, nei giornali, nelle università, nell’editoria, nelle ong, nei ministeri degli Esteri e soprattutto nel Nord Europa. È lì che emerge il partito preso anti-Isreale. Io noto che anche negli anni ’30 del 900 era già successo qualcosa del genere.
D. I prodromi del nazismo?
R. Non solo. Mentre in Germania c’erano le vignette contro i giudei sui giornali nazionalsocialisti, nell’Urss, sempre nei circoli intellettuali, albergava l’odio «al cosmopolitismo degli Ebrei». Oggi ovviamente non ci sono i pogrom ma l’odio altoborghese e colto. Sono gli intellettuali i primi a tradire gli ebrei. Non solo oggi, basti ricorda che da Norberto Bobbio a Concetto Marchesi, tutti i padri nobili della sinistra italiana firmarono il questionario fascista sulla «razza ebraica».
D. Più pericoloso, perché poi, inevitabilmente, scenderà dai piani alti già fin nella strada.
R. Certo che è più pericoloso. Già ora, per effetto di questo sentimento, l’opinione pubblica anche italiana non capisce molto di questa terza Intifada, non ha chiaro chi accoltelli chi, chi sia vittima e aggressore. Si è creata una confusa equivalenza morale, Israele e i terroristi sono sullo steso piano. Israele diventa ingiusto, iniquo.
D. Ricordiamo qualche caso?
R. Beh, recentissimo quello della ministra degli Esteri svedese, Margot Wallström: in un’intervista, dopo Parigi, aveva detto che «per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in Medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c’è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza». Mentre il premier, Stefan Löfven, ha spiegato che gli accoltellamenti non sono terrorismo ma un’altra cosa: resistenza, risposta all’occupazione. Del resto anche Francois Hollande…
D. Anche Hollande?
R. Nella commemorazione del 13 novembre, ha citato tutti gli attacchi, dalle Twin Towers, alle metro britannica e spagnole, a Bruxelles e a Parigi ma non ha menzionato Gerusalemme. Facendo una scelta morale: la Città Santa o Tel Aviv sono sacrificabili e pure Israele lo è. Si va facendo strada l’idea che, eliminando il problema Israele, si risolverà il problema del mondo islamico.
D. Che non mi pare sia in cima ai problemi dell’Isis: anche la loro propaganda punta ai paesi islamici moderati o al cuore dell’Europa. O, ancora, a Roma.
R. Certo. A loro interessa distruggere i nostri valori e le nostre democrazie. E noi, invece, a chi quei valori li pratica nel cuore del Medioriente, non guardiamo con un grande alleato ma come un problema, un fastidio.
D. Facciamo altri esempi, Meotti.
R. C’è l’appello, sul Guardian, dei 300 accademici che, in occasione della terza Intifada, hanno dichiarato di interrompere ogni rapporto con le università israeliane e l’hanno fatto. Poi c’è la grande organizzazione di femministe americane che boicotta Israele, quasi fosse il più grande violentatore di donne del mondo. E, ancora, ci sarebbe Amnesty International, che non ha mai preso una posizione chiara sul terrorismo in Israele. E insiste sull’equivoco di fondo della risposta spropositata da parte di Gerusalemme. Per non parlare del rapper ebreo americano Matisyahu, cacciato da un festival di musica in Spagna.
D. Lei diceva che i più duri stanno nel Nord Europa.
R. Nei Paesi scandinavi soprattutto, per una serie di motivi, ma soprattutto per la presenza di comunità islamiche molto forti, che fanno pressioni e ricattano, anche se loro, gli intellettuali, i giornali, gli universitari, non lo ammetteranno mai. Laddove l’integrazione è alla prova, si pensa di cavarsela scaricando Israele.
D. Citava il Guardian. In Gran Bretagna come va? C’è un problema storico, perché i sionisti fecero terrorismo durante l’occupazione inglese in Palestina e ci fu la strage dell’Hotel King David di Gerusalemme, nel 1946.
R. Sì, è vero ma le pare possibile che né la Regina Elisabetta né il Principe Carlo abbiano mai messo piede in Israele? In compenso vanno spesso in Paesi meravigliosi, dal punto di vista dei diritti umani, tipo l’Arabia Saudita. Però Oltremanica, pur col multiculturalismo spinto e problemi di estremismo islamista, gli ebrei non scappano come dalla Francia.
D. In Francia, c’era un brutto clima molto prima degli attentati: cimiteri profanati e il rapimento e la barbara uccisione di un cittadino Ilan Halimi.
R. È vero che sono la comunità più grande, 250mila persone ma da lì fuggono 6mila israeliti all’anno. L’alià, come si chiama l’emigrazione verso Israele, gli costa moltissimo, amano l’Europa, ci vivono da secoli. Ma la storia d’amore fra ebrei e la Francia è finita da quando c’è stata la strage alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012.
D. E da noi?
R. No, in Italia, si ama e si odia meno intensamente e in modo meno ideologico che altrove. E forse conta che gli ebrei siano poco più di 30mila. Certo, abbiamo le folli esternazioni di Gianni Vattimo e Piergiorgio Odifreddi, sui giornali e nelle università, gli editoriali di Repubblica, ma la gente è lontana da questo sentimento. Se uno va in giro in kippah (il copricapo israelitico, ndr), nessuno ha da dire qualcosa. L’Italia non ha conosciuto il fenomeno di delazione e collaborazionismo di Vichy, per intendersi.
D. E la politica? Una volta a sinistra, addirittura nel Pci, c’era un nucleo filoisraeliano molto forte.
R. Sì fino al 1967. Un sentimento che veniva da lontano, una simpatia verso l’ideale del kibbutz, perché Israele è stato a lungo un esperimento collettivista di successo. E poi se, non fosse stato per l’Urss, nel 1948, non sarebbe neppure nato.
D. E con la Guerra dei sei giorni cosa succede?
R. Che l’intellinghentzja di sinistra la inquadra come una guerra di espansione, un peccato originale, un corpo estraneo. Si guarda agli Israeliani come occupanti, associati all’Occidente. Da allora si è andati peggiorando, fino a una passeggiata di Massimo D’Alema, ministro degli Esteri del Prodi II, che a Beirut, nel 2006, si fece fotografare a braccetto con un dirigente di Hezbollah, mentre era in corso la guerra del Libano. Ma non siamo arrivati agli eccessi di Jeremy Corbyn.
D. Il leader laburista è un tantino filopalestinese…
R. Amico della peggiore canaglie di Hamas e di Hezbollah, senza vergognarsene affatto. È la sinistra che si accompagna agli imam dell’odio.
D. Matteo Renzi è stato accusato di essere filoisraeliano fin dalle primarie del 2012, in cui si ricordavano gli interessi del suo amico Marco Carrai in quel Paese.
R. Quando è andato in Israele ha parlato alla Knesseth facendo un bel discorso, ma quella di parlare bene è un po’ una sua inclinazione…
D. Beh, disse «Chi pensa di boicottare Israele non si rende conto di boicottare se stesso, di tradire il proprio futuro».
R. Infatti. Un discorso alto, da amico.
D. Ma veniamo al boicottaggio contro il quale, voi del Foglio, il direttore Claudio Cerasa in testa, avete lanciato una campagna a comprare israeliano.
R. Una cosa assurda, paradossale… Nelle stesse settimane in cui veniva tolto l’embargo all’Iran, si è introdotto questa marchiature dei prodotti israeliani fabbricati nei Territori. Una cosa vigliacca.
D. Perché?
R. Ci sono 200 conflitti nel mondo e, per nessuno di questi, Bruxelles sente il bisogno di far scegliere il consumatore. Nessuno pretende che sulle merci cinesi prodotte nel Tibet occupato, ci sia scritto «made in Tibet, under Chinese occupation», ossia «fatto in Tibet sotto occupazione cinese», eppure quando viene il Dalai Lama, tutti si commuovono un sacco. La marchiatura europea di Israele è il primo passo verso un boicottaggio vero e proprio. Il più grande magazzino di Berlino, la KaDeWe, aveva già cominciato, poi, per le proteste, sono tornati indietro. Benjamin Netanyau ha telefonato personalmente ad Angela Merkel. Una città irlandese, Kinwara, come quella inglese di Leicester, sono «Israel free», si vantano di aver eliminato prodotti israeliani. Del resto la marchiatura europea ha un precedente proprio in Germania, 70 anni prima, con la «Ju» di juden, ebreo. Anche allora si cominciò dai prodotti.
D. Mi ricordavo i negozi.
R. Prima Goebbels obbligò la marchiatura dei prodotti ebrei. Ma per tornare al boicottaggio, ci sono fondi pensione norvegesi che non investono in aziende israeliane, supermercati olandesi, svedesi, inglesi che non vendono prodotti «made in Israel». Da noi circola una petizione per chiedere ad Acea di non stringere accordi con la società idrica Mekorot.
D. A cosa punta questa guerra dell’etichetta?
R. L’interscambio più forte è con l’Europa: si vuole arrecare un danno economico, si vuol colpire la vitalità di quel paese, che è forte perché ha un’economia forte, un Pil alto, che attrae investimenti. Lo si vuole trasformare in un luogo chiuso, isolato, meno appetibile.
D. L’Europa prima del boicottaggio ha una lunga storia di sostegno economico ai palestinesi.
R. Un buco nero: rovesciamo fra la Cisgiordania e Gaza miliardi di euro ogni anno e nessuno sa dove vanno.
D. Paradossale, perché se c’è un mantra europeo si chiama «rendicontazione».
R. Vero. Volevano far fallire la Grecia per un punto percentuale e qui abbiamo un fiume carsico di euro.
D. Per fare?
R. Un tempo quei soldi finanziavano le ville dei gerarchi dell’Olp e le loro corruttele ideologiche, oggi vanno all’Autorità nazionale palestinese-Anp ma nessun controllo su come vengano spese. Per esempio su che cosa si scriva nei libri di testo, stampati grazie a quei finanziamenti, che invece contengono spesso incitamento all’odio anti-israeliano.
D. E i soldi vanno anche a Gaza.
R. Certo. E non si può escludere che il cemento per costruire i tunnel con cui Hamas entra in Israele per fare i suoi attentati venga da lì.
D. Non fa specie la natura islamista di Hamas.
R. Hamas è stata tolta dalla lista delle organizzazioni terroriste, dove era entrata nel 2003, merito, va detto, di Silvio Berlusconi, durante il semestre a guida italiana. È stato detto che l’esclusione di Hamas dalla black list è avvenuta «per un errore tecnico».
D. Una manina, qualcuno potrebbe pensare…
R. Ma non mi sorprende: dialoghiamo apertamente con Hamas ed Hezbollah. E si continua a parlare di occupazione israeliana, quando a Gaza non c’è più un soldato di Tsahal, l’esercito israeliano.
D. Perché l’Europa ha assunto negli anni questa posizione? Un contraccolpo emotivo alla creazione dello stato di Israele?
R. Una sorta di complesso di colpa. Di cui il finanziamento a fondo perduto di uno Stato palestinese che però non ha dato frutti se non la perpetuazione del conflitto. L’Europa ha messo sullo stesso piano la Shoah e la «Nakba», la catastrofe della nascita di Israele come la chiamano i palestinesi.
D. E ora, nel pieno della minaccia terrorista Isis, paradossalmente si arriva anche al boicottagio.
R. Israele è diventato una foglia di fico per le classi dirigenti europee per parlare d’altro. E i terroristi di Hamas diventano, con tutte le sfumature semantiche, combattenti, partigiani, resistenti. Eppure i kamikaze, le bombe umane, li hanno inventati loro. Già ai tempi dei dirottamenti aerei e delle stragi degli anni ’70: quelli dell’Olp si facevano ammazzare col kalashnikov in mano ma erano votati alla morte.
D. Ma cosa pensa Giulio Meotti di questo problema? Come si risolve? Non si può negare che, anche certi israeliani, con la loro radicalità, abbiano le loro colpe. Lei non ha fiducia nella formula «due popoli, due Stati»?
R. È difficile applicare un’utopia, bella e sfuggente, alla realtà. Secondo me imporre dall’alto una soluzione a Israele è un rischio. Sarebbe chiedergli di suicidarsi. Chiedere di riconsegnare i territori del ’67 non avrebbe precedenti.
D. Sì perché poi ci furono anche quelli annessi con la guerra del Kippur del 1973, poi riconsegnati.
R. Oltre a Gaza e la Cisgiordania, Israele si è ritirato dal Golan, dal Sinai, dal Sud Libano. Ma «terra in cambio di pace» non ha funzionato: spesso, proprio da quelle terre, sono partiti e partono gli attacchi.
D. Insomma come ne usciamo?
R. I miei amici israeliani, quando glielo chiedo, mi dicono che è importante gestire il conflitto, minimizzare i danni e aumentare il benessere dei palestinesi.
D. Il benessere contro le sirene del terrorismo…
R. Oggi a Ramallah, a Nablus, a Jenin si vive meglio che al Cairo, a Riad e a Tunisi. Soluzioni politiche non ne vedo, anche perché non vedo palestinesi disposti a fare scelte impopolari come fece Anwar el Sadat, che pagò con la vita l’aver messo piede in Israele.
D. Anche Yitzhak Rabin pagò con la morte, per mezzo di un terrorista ebreo, l’aver firmato la pace.
R. È vero. Ma Abu Mazen, che pure non è una figura negativa, non pare disposto a firmare accordi. Il punto è che il massimo che Israele può offrire è meno del minimo di quanto chiedono i Palestinesi. Il conflitto è sul 1948 e non sul 1967, è sull’esistenza stessa di Israele.
D. La sua citazione di Sadat mi fa venire in mente che i principali nemici della causa palestinese sono stati spesso i Paesi arabi: il re di Giordania li cacciò con le baionette nel famoso Settembre nero.
R. I paesi arabi hanno sempre strumentalizzato la Palestina. Saddam, per esempio, finanziava i kamikaze e usava la questione palestinese. Ma le pare che potrebbero tenerli come li tengono da decenni nei campi profughi? Dal 1948 agli anni Sessanta, 800mila ebrei scapparono dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord.
D. Dallo stesso Iraq, con l’operazione Tappeto volante…
R. Esatto. Ma nessuno in Europa è finito in un campo profughi. La comunità internazionale ha le sue colpe, a cominciare dall’Onu, che ha dedicato ai palestinesi una specifica agenzia, unico popolo al mondo, la Unrwa che sta per «United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees». Durante l’ultima guerra a Gaza si è scoperto che nelle scuole e negli ospedali gestiti dall’agenzia, Hamas aveva ammassato missili. Pensi l’ironia: proprio contro Israele, nato sul voto dell’Onu…
D. Che fare allora?
R. Solidarietà. È l’unica arma che abbiamo noi occidentali a favore di Israele, la frontiera che tutti gli uomini civili dovrebbero difendere.