Tempi.it 13 Aprile 2018
I numeri mostrano che la convinzione religiosa si atrofizza all’interno delle comunità di immigranti di tutti i credi, razze e origini. E per l’islam è peggio che per la Chiesa
di Michael Davis
Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Michael Davis apparso nel sito del settimanale britannico. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina.
L’8 aprile mi sono fatto due ore e mezza di automobile fino al Santuario nazionale della Divina Misericordia a Stockbridge, Massachusetts per la festa della Divina Misericordia. Come avrei potuto non farlo? A giudicare dalle targhe nelle aree di parcheggio, i pellegrini erano venuti da ogni angolo degli Stati Uniti. Secondo il programma, molti altri avevano preso aerei dall’Europa. Io in confronto abito praticamente in fondo alla strada.
È stata un’occasione di profonda commozione, nonostante la mancata collaborazione di Madre Natura: faceva un freddo da gelare le dita, con raffiche di neve ogni tanto. Eppure 15 mila pellegrini sono calati sulla piccola cittadina di montagna, infagottati in giacconi e coperte. Alcune anime generose vagavano tra la folla distribuendo scaldamani.
A parte lo svolgimento ufficiale della giornata, quello che mi colpiva di più era la composizione demografica. Si vedevano ispanici, filippini, africani e cinesi – ma a malapena un caucasico. Cosa che non rispecchia minimamente la popolazione cattolica nazionale: il 59 per cento è bianco, il 34 per cento ispanico, il 3 per cento asiatico e un altro 3 per cento è nero.
Ovviamente questo non ha nulla a che vedere con la razza e ha tutto a che vedere con i comportamenti degli immigrati. Gli immigrati, qualunque sia la loro tradizione di fede, tendono a essere più devoti delle loro controparti indigene. Vale anche per paesi come la Svezia, dove gli immigrati in prevalenza bianchi dalla Polonia stanno alimentando un boom della popolazione cattolica.
Ma questi nuovi cattolici rappresentano un elemento permanente dei paesi dell’America e dell’Europa occidentale? Pare improbabile. Un recente sondaggio Gallup dimostra che la quota di cattolici che frequentano la Messa continua a precipitare dal 1955, dal 75 al 39 per cento. E questo benché la popolazione nominalmente cattolica sia notevolmente cresciuta grazie alla massiccia immigrazione dal Sud America. La partecipazione ai servizi protestanti, invece, è rimasta abbastanza stabile.
L’assenza di immigrazione protestante in realtà offre loro [ai protestanti] un vantaggio con questa metrica. I figli e i nipoti degli immigrati che smettono di praticare la fede hanno più probabilità di identificarsi – sebbene solo nominalmente – con la religione della propria famiglia. Siccome l’immigrazione cattolica è così alta, ci sono molti cattolici “per cultura” o “non praticanti”: quelli che si identificano con la Fede, ma non frequentano la Messa. I protestanti che sono usciti di chiesa, invece, hanno più probabilità di definirsi non religiosi.
Curiosamente, assistiamo alla stessa tendenza nell’islam. Una recente indagine del Pew Research Center evidenzia che, mentre la popolazione musulmana d’America è cresciuta del 50 per cento nell’ultimo decennio, il 23 per cento di coloro che sono stati educati come musulmani non si identifica più con quella fede. Questo significa che circa un musulmano su quattro in questo paese apostaterà. Per fare un confronto, il 21 per cento di coloro che sono stati educati come cattolici hanno lasciato la Chiesa, secondo un’indagine del Pew del 2015. Gli americani escono di moschea a una velocità perfino superiore di quanto escano di chiesa.
Perciò la buona notizia è che la Chiesa non fa risultati peggiori delle sue rivali protestanti o non cristiane. La cattiva notizia è che qualcosa nella società americana provoca l’atrofizzazione della fede religiosa all’interno delle comunità di immigranti di tutti i credi, razze e origini. Anche qui, di nuovo, lo studio del Pew Research Center sull’islam in America è illuminante. Il 9 per cento degli ex musulmani si è convertito a una fede diversa, e l’uno per cento dice di essere in cerca di un cammino spirituale. Ciò significa che solo il 10 per cento è disposto a impegnarsi con la religione organizzata. Il restante 90 diventa di fatto ateo o “spirituale-non-religioso”, che in genere vuol dire la stessa cosa.
Evidentemente c’è qualcosa nella nostra cultura che disincentiva la convinzione e la pratica religiose. Che cosa sia esattamente quel fattore è un’altra questione. Ma quando osserviamo i tassi di uscita di chiesa (e di uscita di moschea), dovremmo fare attenzione a non sovrastimare le statistiche sugli immigrati.
Dovremmo piuttosto concentrarci su come questa influenza secolarizzante inciderà sulla coesione sociale. Si pensi alla ghettizzazione dei musulmani britannici e alla crescita del movimento dell’homeschooling tra i cristiani americani. Entrambe possono essere ascritte, quanto meno in parte, alla percezione tra le famiglie devote che i loro figli hanno più probabilità di abbandonare la propria fede se sono esposti alla società occidentale “mainstream”. Vedono la nostra cultura come ostile ai loro valori e costumi – alla religione stessa. E se date un’occhiata ai numeri, non hanno tutti i torti.