di Giacomo Samek Lodovici
Nei giorni scorsi, sul quotidiano Il Foglio, si è svolto un dibattito sul celibato ecclesiastico. Contro quest’ultimo alcuni (già dallo scorso gennaio e non solo nella discussione sul quotidiano diretto da Giuliano Ferrara) citano in proprio favore anche un testo firmato da Joseph Ratzinger nel 1970; essi stessi, peraltro, talvolta precisano (giustamente) che le opinioni teologiche di un uomo possono legittimamente cambiare, come è avvenuto su questo tema allo stesso Ratzinger molto prima di diventare Papa.
Del resto, possono mutare anche le opinioni di un uomo che è già Papa e le sue uniche affermazioni irriformabili sono solo quelle in cui è impegnata la sua infallibilità. Di più, possono legittimamente modificarsi anche le opinioni di un santo e persino quelle di un santo che è anche Papa.
Ora, è vero che il celibato ecclesiastico non è un dogma, è vero che la scelta fatta dalla Chiesa al riguardo non è irriformabile. Tuttavia ci sono valide e forti ragioni per stabilirlo e mantenerlo come requisito del sacerdozio: eccone di seguito alcune.
In primo luogo (ed è la motivazione più importante), Gesù non hai mai preso moglie ed il sacerdote è alter Christus: in tal senso, il celibato del sacerdote è modellato su quello di Cristo e lo fa a Lui assomigliare il più possibile. Nei discorsi di Gesù ci sono affermazioni significative al riguardo, in passi che esigono una rottura con i rapporti familiari e che possono essere applicati anche alla questione del celibato: «Chi non odia suo padre e sua madre non può essere mio discepolo; chi non odia suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26); molto importante è soprattutto quanto dice Gesù in Mt 19,12: «vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno».
Gesù parla di se stesso e di uomini che, per una libera scelta, hanno intrapreso la via del celibato come totale servizio a Dio. Come dice il Direttorio della Congregazione per il Clero (1994), «L’esempio é il Signore stesso il quale, andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato tutto per compiere la missione loro affidata. Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati all’Ordine sacro tra i celibi».
In secondo luogo, il celibato ecclesiastico, pienamente compreso nel suo senso, è una scelta d’amore esclusivo per Gesù, da cui si irradia l’amore per tutti coloro che Egli ama. È una scelta esclusiva analoga alla scelta del compagno/a della propria vita, del proprio coniuge, che deve essere amato in modo speciale ed esclusivo, con una donazione per tutta la vita e con una predilezione, da cui si irradia anche l’amore per le persone amate dal coniuge. Secondo san Paolo «chi non è sposato si preoccupa […] come possa piacere al Signore» (1 Cor 7, 32). «Piacere al Signore» vuol dire amarLo: infatti noi cerchiamo di piacere alle persone che amiamo. Il «piacere a Dio» del sacerdote, così, è analogo a quello della relazione interpersonale degli sposi.
In terzo luogo, dai passi di S. Paolo si ricava anche che, tramite il celibato, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo possono (il che non significa che avvenga sempre di fatto così) essere più integrali. Infatti, laddove chi è celibe si preoccupa di piacere a Dio, l’uomo sposato, giustamente, deve preoccuparsi anche di accontentare la moglie e di stare con lei nonché di crescere ed accudire i figli. Paolo nota che l’essere umano legato col vincolo matrimoniale «si trova diviso» (1 Cor 7, 34) a causa dei suoi doveri familiari (1 Cor 7, 34).
Da questa constatazione sembra così emergere che il celibe riesce invece a dedicarsi completamente a Dio. Paolo precisa ancora il discorso quando confronta la situazione della donna sposata con quella della donna che ha scelto la verginità o che è rimasta vedova: mentre la donna coniugata deve preoccuparsi di «come possa piacere al marito», quella non sposata «si preoccupa delle cose del Signore» (1 Cor 7, 34).
Il cardinal Castrillon Hoyos in passato ha sottolineato una connessione tra l’Eucaristia e lo stato del sacerdote, il quale può «trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire assumere una “forma eucaristica”. L’Eucaristia, infatti, costituisce il momento culminante nel quale Cristo, nel suo Corpo donato e nel suo Sangue versato per la nostra salvezza, svela il mistero della sua identità ed indica il senso del ministero sacerdotale». Il sacerdote che amministra l’Eucaristia, che è dono perfetto, mediante il celibato può essere egli stesso dono totale.
Ovviamente, anche chi è sposato deve collocare Gesù al centro di tutte le sue azioni e del matrimonio stesso. Ma, di fatto, la sua disponibilità, anzitutto di tempo e di energie, non può essere uguale a quella del sacerdote, che può esercitare la sua piena dedizione (al servizio di Dio e di tutte le anime) in maniera concretamente più ampia.
In quarto luogo, è vero che alcuni apostoli erano sposati (nel vangelo si menziona la suocera di Pietro e in 1 Tim 3,2 san Paolo dice che bisogna escludere dai candidati all’episcopato coloro che sono stati sposati più di una volta), ma tra Gesù e gli apostoli sussisteva una comunità fraterna ed amicale che faceva perno su di Lui e che modificava gli eventuali precedenti legami. Al riguardo si possono utilmente leggere i testi dei Padri della Chiesa, i quali certificano (cfr. C. Cochini, Origines Apostoliques du célibat sacerdotale, Lethielleux, 1981) che gli apostoli che erano sposati prima di seguire Gesù hanno poi interrotto la vita coniugale, col consenso della moglie, ed hanno praticato il celibato. Se la moglie è rimasta con loro, lo ha fatto vivendo come sorella e non più come sposa. In effetti, gli apostoli furono invitati a lasciare tutto, per divenire «pescatori di uomini».
In quinto luogo (e questa motivazione è di ordine pratico, non teologico), un sacerdote sposato è molto più influenzabile e/o ricattabile: è possibile minacciarlo di rivelare eventuali reati o peccati della moglie e dei figli, è possibile, per ottenere da lui qualcosa, minacciarlo di torturare o uccidere i suoi cari (come avveniva per esempio in URSS ai preti ortodossi sotto il comunismo) o promettergli benefici per loro.
Peraltro, la trasformazione, in certi casi la rinuncia, ai legami familiari conduce il celibe per Dio ad intrattenere una serie di relazioni profonde e costanti con altri discepoli di Gesù. Essere eunuchi non significa rinunciare a relazioni umane profonde: oltre alla relazione centrale e primeggiante con Gesù, Lui stesso vero uomo e non solo vero Dio, al sacerdote è data (per esempio) la fraternità con gli altri «celibi per il regno».
In altri termini, il discorso che il lettore sta seguendo non deve affatto essere inteso come disprezzo delle relazioni umane. Gesù si rapporta ai suoi discepoli come amico e li invita a considerarsi tutti amici, anzi fratelli. Lo stesso san Paolo ha coltivato una relazione di profonda amicizia con i suoi diretti collaboratori, cioè Timoteo, Tito, Silvano e Luca. La profonda immedesimazione con Gesù, che gli fa dire: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20), non ha escluso, bensì ha promosso nella sua vita legami di amicizia molto profondi. Similmente, gli Atti degli Apostoli riferiscono che gli apostoli avevano una vita ricca di relazioni umane: vivevano e si muovevano in gruppi o almeno in coppia, ed avevano legami di amicizia e familiarità.
Insomma, parlando del celibato sacerdotale bisogna evitare di pensarlo come una rinuncia del sacerdote all’amore: piuttosto è la scelta di amare radicalmente Gesù, gli altri confratelli sacerdoti ed i fedeli che al sacerdote vengono affidati.
D’altra parte, la vocazione al sacerdozio e l’esercizio del ministero sono un dono, non un diritto, come è un dono anche la vocazione al matrimonio: «Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7, 7). Quindi, anche coloro che scelgono il matrimonio ricevono da Dio «il proprio dono», il dono del coniuge e il dono di vivere nella via del matrimonio.
Aggiungiamo alcune considerazioni sul piano storico, che non sono essenziali, ma comunque aiutano a correggere alcune convinzioni errate.
Come abbiamo già incominciato a dire sulla scorta di Cochini, e come A. Stickler ha ampiamente dimostrato (A.M. Stickler, Il celibato ecclesiastico, Libreria Editrice Vaticana, 1993), la scelta del celibato risale agli albori della Chiesa, che non l’ha presa nei secoli seguenti come molto spesso erroneamente si afferma. Fin dai tempi della Chiesa primitiva i sacerdoti erano uomini non sposati, oppure erano uomini che ricevevano l’ordine sacro pur essendo sposati, ma che, da quel momento, col consenso della moglie (che doveva essere mantenuta a spese della Chiesa), si impegnavano alla continenza, a non intrattenere rapporti sessuali, a non usare del matrimonio.
Inoltre, sebbene ai più risulterà sorprendente, la norma sul celibato o sulla continenza vigeva (cfr. di nuovo Stickler) fin dall’epoca degli apostoli anche nella Chiesa d’Oriente. Solo nel 691, al Concilio Trullano, ci fu il cedimento della Chiesa d’Oriente, che si sottomise al volere ed all’interferenza degli imperatori di Bisanzio. Così, in Oriente ci sono oggi personalità ecclesiastiche che auspicano un ritorno appunto alla disciplina dei primi secoli.
D’altra parte, va chiarito che anche in Oriente non ci sono preti che si sposano, bensì solo uomini già sposati che vengono ordinati preti: un sacerdote che è già tale non può mai sposarsi né in Oriente né in Occidente. E, tanto in Oriente come in Occidente, un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi.
Infine, anche in Oriente i vescovi sono tenuti al celibato, il che indica che c’è un certo legame fra il celibato e lo stato sacerdotale: infatti, chi riceve l’ordinazione riceve una partecipazione al sacerdozio del vescovo.
Molti pensano che l’abolizione del celibato potrebbe comportare l’incremento delle vocazioni. Ma il matrimonio non ha fermato l’emorragia di pope ortodossi, di pastori protestanti ed anglicani, né quella di rabbini ebraici. È vero che, se non ci fosse il celibato, alcuni ex sacerdoti non avrebbero chiesto la dispensa ed alcuni di loro, oggi sposati, chiederebbero di riprendere l’esercizio del ministero. Ma, anzitutto, la crisi della vocazioni non fa perdere valore alle ragioni teologiche del celibato sopra esposte (peraltro la crisi è soprattutto europea: dal 2008 al 2009 – l’anno a cui si riferiscono gli ultimi dati – nel mondo i sacerdoti cattolici sono aumentati dell’1,34 %, passando da 405mila a 410mila).
Inoltre, è ragionevole pensare che sia proprio la radicalità del dono totale a Dio – radicalità legata anche al celibato – ad attrarre moltissimi uomini verso il sacerdozio. Non a caso, oggigiorno gli ordini e i carismi che sono diventati “lassisti” sono in sofferenza, quando non in estrema crisi, mentre diversi cammini più radicali di consacrazione sono in crescita o comunque tengono numericamente (ovviamente purché si facciano conoscere).
È poi erroneo pensare che il celibato sacerdotale sia una causa della pedofilia nel clero. A parte il fatto che i casi di vera pedofilia sono numericamente molto inferiori rispetto alla percezione dell’opinione pubblica (il che non toglie che anche un solo caso sia esecrabile), a parte il fatto che spesso i dati sono clamorosamente falsi (cfr., tra i tanti esempi, questo articolo di Marco Respinti), la smentita si trova nelle ricerche di Philip Jenkins (opportunamente riferite da Massimo Introvigne): le condanne, per pedofilia accertata, nei riguardi di uomini in gran parte sposati come pastori protestanti, maestri di scuola e di asilo, sono percentualmente analoghe in numero o maggiori rispetto a quelle dei sacerdoti cattolici e, in generale, il 90 % dei pedofili è composto da sposati.