Anche da un punto di vista umano il celibato offre molti vantaggi. Per la comunità. E per il sacerdote. Un bene prezioso da conservare gelosamente
Alessandro Gnocchi
«Hans Küng, teologo risicato, ha scritto al Papa per fermargli la mano sul rilancio in enciclica del celibato dei preti. II teologo di Tubinga dice che il celibato è un dono carismatico a volo autonomo come i fatti dello spirito. […] Küng privilegia il celibato carismatico perché la Fede non avrebbe senso obbligato. Non gli entra nella manica che la Chiesa latina abbia saldato celibato e sacerdozio. […] II Papa gli ha risposto come si rispondeva ai birbanti secondo don Abbondio: con il silenzio».
Correva l’anno 1980 quando don Francesco Fuschini, gran penna del Novecento cattolico, commentava così l’intemerata scagliata dal “risicato teologo di Tubinga” contro un Giovanni Paolo II che si apprestava a ribadire l’essenza cattolica del celibato sacerdotale. Niente di nuovo. Passano i Papi, passano i tempi, ma gli Hans Kung restano, malinconicamente uguali a se stessi in compagnia delle loro vecchie idee innovatrici.
A trent’anni esatti di distanza dal quel 1980, basta infliggersi anche saltuariamente la lettura di Repubblica, quella di Scalfari non quella di Platone, per ritrovarsi negli stessi pensieri di don Fuschini. E già questa constatazione è sufficiente per capire una delle ragioni per cui un cattolico ordinario, a lume di buon senso, deve difendere l’intangibilità del celibato sacerdotale. Se guarda nomi e facce di chi, dentro e fuori la Chiesa, torna alla carica per ammogliare i preti, intuisce subito che la strada giusta sta proprio dalla parte opposta.
«La crisi del celibato» scrive padre Cornelio Fabro nella sua opera L’avventura della teologia progressista «ha in parte notevole la sua causa nella messa in discussione del medesimo da parte dei teologi progressisti. I suoi patroni sono noti. Basta ricordare i nomi di Küng e Bòckle. II movimento anticelibatario possiede i più calorosi banditori fra quei teologi che da molto tempo si disinteressano della cura d’anime e godono di eccellenti condizioni economiche. La vita borghese e il darsi alle teorie non sono favorevoli ai doni di Dio».
Ma come, si chiedono oggi i vecchi innovatori nel calduccio dei loro salotti borghesi, neanche uno scandalo come quello della pedofilia entrata con demoniaca perfidia nella Chiesa induce Roma a mutare parere sull’argomento? A fronte di tale incidente probatorio, il cattolico ordinario, sempre a lume di buon senso, per prima cosa considera che ben altro fumo, come disse Paolo VI, è entrato nel tempio di Dio grazie proprio a certi innovatori.
Poi spulcia le cronache e scopre, effettivamente, centinaia di bambini molestati, ministri di culto pedofili trasferiti da una parrocchia all’altra, indagini della polizia, condanne, scuse pubbliche: tutto venuto a galla nel 2003 nella Chiesa Anglicana dell’Australia del Nord, dove i pastori sono sposati. «Saremmo ingenui e disonesti» ha detto nel 2002 per quanto riguardava la situazione degli Stati Uniti il vescovo di Chicago della Chiesa Episcopaliana «se dicessimo che quello della pedofilia è un problema della Chiesa Cattolica e non ha nulla a che fare con noi anglicani perché abbiamo preti sposati e donne prete. Non è così».
Ma il lume del buon senso non si ferma a queste constatazioni. Non sono le condizioni eccezionali a supportare ciò che, invece, dovrebbe essere ordinario. Il buon cattolico, allora, sul filo dell’ordinarietà, è indotto a ricorrere a una di quelle belle storie sui santi che oggi vanno così poco di moda. Storie veramente ordinarie poiché, se non è vero che tutti i cristiani sono chiamati al matrimonio, è vero invece che tutti i cristiani sono chiamati alla santità.
E così ricorda che, nel luglio del 1941, nel lager di Auschwitz, tra lo stupore generale, un uomo si offrì di andare a morire al posto di un compagno di prigionia. «Voglio andare alla morte invece di quel padre di famiglia. Prego di accettare la mia offerta». «Chi sei? Quale è la tua professione?». «Sacerdote cattolico». «Perché lo fai?». «Questo padre è più necessario alla sua famiglia che la mia vita, ormai logorata dalle sofferenze, alla società».
Quel sacerdote cattolico era padre Massimiliano Kolbe, un santo. E sarebbe inutile paragonare il suo sacrificio a quello eroico di tanti laici, perché la santità e l’eroismo non sono la stessa cosa. Lo spiegò lo stesso San Massimiliano Kolbe al suo incredulo aguzzino velando l’offerta della propria esistenza con il ricamo sublime dell’umiltà: «Questo padre è più necessario alla sua famiglia che la mia vita, ormai logorata dalle sofferenze, alla società».
Un sacerdote sposato non avrebbe potuto argomentare in tal modo perché avrebbe tradito la sua famiglia, alla quale sarebbe stato innegabilmente necessario quanto il compagno di prigionia salvato. Ma non avrebbe neppure potuto nascondersi, perché avrebbe tradito il suo essere ministro di Dio, uomo del sacrificio. Si sarebbe trovato nell’impossibilità di agire.
«Il sacerdote cattolico può e vuole sacrificarsi» scrive padre Fabro «e la completa astinenza sessuale è un sacrificio soltanto per una causa assoluta. Né per una cristeità generica né per una Chiesa che è equiparata alle altre comunità religiose si troveranno uomini che fanno il sacrificio. La distruzione della fede oggettiva (del contenuto della fede) trascina la fede soggettiva nel compromesso. L’appello alla soppressione del celibato nasce dalla mancanza di fede nella potenza della grazia. Non si ha più fiducia nella grazia di Dio che può dare il volere e il realizzare».
«Il protestantesimo» disse Arthur Schopenhauer, che non era propriamente un apologeta cattolico, «eliminando l’ascesi e il suo punto centrale, ch’è la meritorietà del celibato, ha già propriamente rigettato il nocciolo più intimo del cristianesimo ed è pertanto da considerare come un distacco da esso», tanto da diventare «una religione buona per comodi, ammogliati e rischiarati pastori protestanti: ma non è cristianesimo».
Inaspettatamente confortato da Schopenhauer, il buon cattolico ordinario, che magari non ha il suo cervello ma ha comunque un sesto senso soprannaturale, è in grado di spingersi ancora più avanti e chiedersi quanto tempo abbia per pregare un sacerdote con moglie, figli e tutti i problemi con cui si misurano ogni giorno legioni di cattolici ordinari. E in confessionale quanto ci potrà stare?
Tutto il giorno, magari in attesa di un solo penitente recitando il Breviario o, visto che tanto verrà un solo penitente, molto meno perché comunque deve attendere alle incombenze di marito e di padre? E ancora, quanto sarà marito e padre e quanto invece sarà sacerdote nell’ascoltare, giudicare, assolvere o non assolvere quel penitente? E la notte che farà se sarà chiamato al capezzale di un malato mentre suo figlio o sua moglie stanno male? Ci manderà il coadiutore, ammesso che sia giovane e celibe?
«In seminario» scrive don Fuschini «il mio testo era Mille Santi di Piero Bargellini. San Simeone stilita: trent’anni sopra una colonna, quasi sempre in piedi, in severo digiuno, con le braccia costantemente levate in preghiera. Il problema del celibato lì non aveva un sasso dove posare il capo. Bastava la biografia del santo di estro ardito a mettere fuori gioco le tentazioni».
Va bene tutto questo, ribattono i contestatori del celibato, ma nessuno potrà negare che uno dei grandi problemi del sacerdote di oggi è la solitudine. La questione sta nel fatto che gli anticelibatari hanno in mente un sacerdote che spende la sua giornata tra il cantiere del nuovo oratorio, la tipografia per il bollettino parrocchiale, gli uffici di curia, la banca per la fideiussione e il mutuo, lo smistamento della raccolta della Caritas, la riunione con l’assessore ai servizi sociali e il consiglio pastorale. Chiunque si sentirebbe solo al termine di una giornata simile, anche un uomo sposato. Ma non un uomo che prega.
«Viene il tempo che la madre e il padre lasciano il prete nella canonica troppo grande» dice ancora don Fuschini. «Allora principia a trafficare con i fornelli e i detersivi. Si mette a tavola e il gatto è con lui. Non ho statistiche sui preti soli. So che il loro sindacato non è di questo mondo. Penso che la lettera di Hans Kung sul celibato sia arrivata come un ospite inatteso. Papa Wojtyla farà un’enciclica affettuosa sul prete tutto chiesa e cucina».
Probabilmente ci sono poche figure meno eroiche di un «prete tutto chiesa e cucina», ma, a quanto è dato vedere nel secolo, ve ne sono ancor meno di altrettanto sante. I cattolici di oggi hanno bisogno di esempi come questi: uomini che ordinariamente si oppongono allo spirito del mondo, uomini capaci di dominio di stessi, di moderazione, di rinuncia, portatori di tutti quei valori volatilizzati al tepore malaticcio e sinuoso della modernità.
In un mondo in cui la misura e l’astinenza sono dileggiate, in un mondo in cui la castità verginale e la purezza sono disprezzate, non è certo un sacerdote sposato, pur con tutta la buona volontà che ci potrebbe mettere, la figura più giusta a mostrare quale sia la strada da intraprendere per recuperare il senso e il gusto delle virtù perdute. Ciò perché l’astinenza dall’attività sessuale non può rimanere isolata come un fiore nel deserto. Diviene, allo stesso tempo, matrice e parte integrante di una condotta pronta alla rinuncia anche in altri campi, poiché non ci si può permettere tutto quando, per amore di Dio e dei fratelli, si è rinunziato al matrimonio.
In un altro articolo, sempre datato 1980, don Fuschini concludeva così il suo dire sul celibato: «Si può essere laici fino alla suola delle scarpe, ma non si può non vedere nel prete un uomo che, nel tempo che gli altri mettono su casa e pantofole, parte solo alla conquista di realtà al di là della bolletta dell’Iva. Nella sera mi sono messo tra campagne fonde e il mio cagnino mi va avanti. Ha nome Fuschini Pirro ed è il solo che fa anagrafe con me. Lui il cane, io il prete: nebbia e mistero vengono con noi».
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