Sul declino economico invece gran chiasso
Eugenia Roccella
Da almeno cinquant’anni siamo abituati a mettere in relazione sviluppo economico e controllo delle nascite, nell’illusione che meno siamo, più diventiamo ricchi e felici. C’è ancora chi lo pensa; Marco Pannella, per esempio, propone il “rientro dolce” dalla sovrappopolazione, grazie a una robusta politica antinatalista, affidata alle suggestioni libertarie della scelta individuale.
Altri, invece, ammettono che l’invecchiamento della popolazione porterà qualche problema (chi pagherà le pensioni? Riusciremo a sostenere l’aumento della spesa sanitaria necessario per assistere i nostri anziani?), ma tendono a minimizzare. Come Massimo Livi Bacci, che su Repubblica di ieri firma un articolo ottimista, o il Corriere della Sera, che riduce la questione demografica a una notiziola di poche righe. L’Occidente si è autoconvinto che i bambini se li possano permettere solo i ricchi, perché sono fonte di spese, di preoccupazioni e non rendono.
Ma davvero si può scindere lo sviluppo economico dal tessuto antropologico e culturale di una comunità? Non è un’astrazione pericolosa, immaginare che sia sufficiente iniettare nel paese un flusso costante di immigrazione, per risolvere il problema del riequilibrio generazionale?
La recessione non ha solo cause strettamente economiche, ma legate alla situazione generale di un paese. L’invecchiamento della popolazione vuol dire che ci sono, in circolo, meno idee nuove, meno gusto per il rischio e l’avventura, meno energie fresche, meno conoscenze all’avanguardia. Vuol dire ripiegamento, tendenza a privilegiare la rendita e la sicurezza, meno lavoro, meno consumi e meno investimenti. Vuol dire non avere uno sguardo proiettato sul domani, sul nuovo, sulla vita che continua e va avanti.
L’inverno demografico, quel deserto di voci infantili che viviamo nelle nostre città, produce un generale vuoto di entusiasmo, creatività e voglia di fare. Il vago senso di impoverimento umano che ci prende quando nelle riunioni di famiglia i bambini mancano, suggerisce che una società che non fa figli è una società in sofferenza.
Non si può puntare sulla sola immigrazione, come fosse l’unica alternativa alla denatalità, senza nemmeno considerare i costi sociali e culturali dell’integrazione, le lacerazioni e i problemi che la società multietnica inevitabilmente comporta. Soprattutto, l’immigrazione non cura il male sociale che prosciuga l’Europa, che le fa consumare il presente e ignorare il futuro.
I nostri leader ripetono che bisogna sostenere le famiglie. Ma spesso quello che hanno in mente sono solo aiuti economici, se va bene; invece serve anche un po’ di immaginazione, la volontà culturale e politica di rinfrescare una tradizione familiare un po’ ammaccata ma ancora viva, che ha prodotto un modello di sviluppo, e che rimane al fondo dell’identità italiana.
Dopo aver costruito per decenni un senso comune tutto basato sulle opzioni individuali, dopo aver screditato in tutti i modi i sentimenti di responsabilità e di accoglienza familiare, oggi dobbiamo riparare il danno, e la politica se ne deve fare carico.