Abstract: cento anni di PCI, “corpo estraneo” della democrazia italiana? Cosa ha rappresentato la presenza comunista per la storia italiana, dalla sua fondazione a Livorno nel 1921 all’attuale deriva post comunista che sfrutta lo spazio conquistato dalla vecchia “talpa rossa” nelle istituzioni,
Cultura & Identità Rivista di studi conservatori n.34 – 31 Dicembre 2021
Cento anni di PCI: “partito nazionale”
o “corpo estraneo” della democrazia italiana?
A cento anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano, qualche interrogativo (e qualche risposta) sul significato della sua presenza nella storia dell’Italia contemporanea
Oscar Sanguinetti
La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve, secondo le regole della dialettica hegeliana, in quest‘altra: tutto ciò che esiste, merita di morire. Friedrich Engels In quest’anno ormai conclusosi, è ricorso il centenario della nascita — al Teatro San Marco di Livorno, il 21 gennaio 1921, nell’assemblea dove era confluita la minoranza radicale del Partito Socialista Italiano (PSI)dopo essersi scissa dal partito principale anch’esso a convegno, il XVII, nelle vicinanze, al Teatro Goldoni — del Partito Comunista d’Italia, poi Italiano (PCI).
L’evento è stato solennizzato nei mesi scorsi dalle sinistre in forma minore e con toni, tutto sommato, sommessi. All’icona “troppo bolscevica” di un Pietro Secchia (1903-1973)o di un Luigi Longo (1900-1980) si è preferita l’icona accattivante di Enrico Berlinguer (1922-1984) a testimonianza che la cultura politica di sinistra, il mainstream della cultura nazionale, è sembrata in quel frangente oscillare fra desiderio di enfatizzare e necessità di non evocare fantasmi imbarazzanti.
Non voglio aggiungere altro inchiostro a quello già sparso — in relativa abbondanza —: mi preme solo porre qualche interrogativo — e cercarne una qualche risposta, di certo non esaustiva — relativo alla sostanza di una esperienza la cui storia è in genere narrata da soggetti sui quali il PCI esercita tuttora una grave, talora — ma non sempre — inconscia, egemonia falsandone la narrazione.
Non intendo, cioè, rifare la storia del PCI quanto, invece,tentare di rivedere i termini di una “leggenda rosa” ormai inossidabile e cercare di capire come e quanto l’esistenza di questo soggetto politico — ma non solo politico —sia “pesata” sulla vicenda passata e pesi sul futuro della nazione italiana.
Domande, è scontato, poste e affrontate da tutt’altra prospettiva rispetto a quella comunista, fermo restando lo sforzo di basarsi su fonti di buon livello e su fatti acclarati, compresi quelli trascurati dai più.
La prima domanda è: il PCI è stato davvero autonomo rispetto all’omologo sovietico? E ancora, è stato davvero un partito “diverso” dagli omologhi nel mondo? È stato un partito “nazionale” a pieno titolo oppure una setta?
Quindi, è stato in qualche modo e in qualche misura corresponsabile dei milioni di morti fatti dal comunismo novecentesco in tutto il mondo?È stato un “motore” efficiente o una zavorra dello sviluppo dell’Italia nel secolo scorso e il suo lascito lo è ancora nel presente? Infine, è davvero finito nel 1989?
1. Qualche cenno di storia (1921-1989)
Se si vuol dare un giudizio — o una serie di giudizi — su un qualunque soggetto è sempre opportuno per prima cosa ripercorrerne — ancorché in breve, come nel caso di questo articolo — la vicenda storica (1).ù
Il PCI non è stato né la prima né l’unica realtà che abbia professato la dottrina del comunismo moderno e abbia cercato di realizzare una società collettivizzata (2). In realtà associazioni il cui fine era la soppressione più o meno ampia del capitalismo e della stessa proprietà privata e l’instaurazione di un regime politico-economico socialista esistevano nel nostro Paese — come in altri — da molto prima della nascita del PCI.
Il soggetto che per primo concepì un disegno di questo genere — ancora mosso dall’egualitarismo spinto della Rivoluzione francese, incarnato dalla figura di François-Noël “Gracchus” Babeuf (1760-1797) — e operò, con modalità settarie, per il suo raggiungimento possiamo dire sia stato l’aristocratico pisano Filippo Buonarroti (1761-1837) a cavallo dei secoli XVIII e XIX.
Ma un po’tutto l’ambiente latomistico — massonico, carbonaro e di altre appartenenze — fu popolato di società a ispirazione socialistica (3).
Con l’aggravarsi della Questione Sociale nata dalla Rivoluzione industriale del primo Ottocento e soprattutto grazie all’esplosione ideologica che precedette e trovò il suo culmine nei moti del 1847-1849— il Manifesto dei comunisti di Karl Marx (1818-1883) e di Friedrich Engels (1820-1895) è del 1848 — iniziò a prendere forma un movimento esplicitamente socialista — fin dalle origini diviso fra anarchici insurrezionalisti, radicali comunisti e riformisti —, che sfociò nella costituzione di sindacati operai e di leghe contadine, nonché, il 15 agosto 1892, nella fondazione di un partito politico unitario, la cui presenza in parlamento andò rafforzandosi rapidamente.
Il partito comunista nasce nel primo dopoguerra all’indomani della conquista del potere, grazie al golpe di ottobre, da parte dal partito “bolscevico” di Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin” (1870-1924), nella Pietrogrado post zarista del 1917.
Pur sottoposta a forti pressioni esterne — la dura guerra contro i sostenitori della deposta monarchia e contro gli eserciti delle potenze occidentali —,l’“esperienza comunista” attecchirà in Russia e Mosca diverrà la vera centrale diffusiva della Rivoluzione socialista in tutta l’Europa e in tutto il mondo.
Sezioni della Terza Internazionale (1919-1943) nasceranno, aggregando organizzazioni esistenti, in tutta Europa e in Asia.
Il mito della Rivoluzione con le armi in pugno per costruire il socialismo integrale così dilagherà e, dopo il grande — quanto fortuito — successo di Lenin parrà davvero che raggiungere la meta fosse questione di pochi anni e ovunque nei Paesi liberi si susseguiranno moti rivoluzionari, spesso sanguinosi.
Da noi gli anni 1920 e 1921 — il cosiddetto “Biennio Rosso” — segneranno appunto il culmine delle agitazioni politiche operaie e contadine.
Ma in quegli stessi anni in cui nasceva il PCI l’élite dirigente dell’Italia liberale e la monarchia sabauda, spaventati dal prospettarsi di una rivoluzione sanguinosa e per loro esiziale, decidono una manovra di arroccamento, irrigidendo gli assetti del potere nel senso di creare uno Stato autoritario in grado di impedirne un avvento che pareva inevitabile e imminente.
Si appoggerà così sull’altra ideologia “rivoluzionaria” nata dalla guerra, ossia il nazionalismo sociale del movimento fascista, guidato dall’ex socialista Benito Mussolini (1883-1945), acerrimo nemico del socialismo e del popolarismo e dotato della massa di manovra — le “squadre”, composte da ex “arditi” e da altri reduci della Guerra Mondiale, letta come “vittoria tradita” — necessaria per demolire nella società tutto ciò di organizzato che sapesse di socialismo e di comunismo.
Nel breve torno di anni dal 1921 al 1925, in cui prende corpo il nuovo regime, il partito comunista ha ancora spazio per consolidarsi e per svilupparsi.
Nel ventennio fascista il partito è sottoposto — come tutte le opposizioni, ma con ancor maggiore brutalità —a una dura discriminazione e a una forte repressione da parte dello Stato e deve passare alla clandestinità, molti dei suoi dirigenti e quadri devono andare in esilio in Russia e in Francia — dove, a Lione, il partito terrà il suo terzo congresso —, sostenuti dai partiti comunisti e dalle sinistre borghesi locali.
Nel 1936-1939 parecchi di loro, come altri fuoriusciti anti-fascisti, combatteranno nelle brigate internazionali a fianco delle formazioni repubblicane e delle forze sovietiche inviate dal leader del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) Iosif Vissarionovič Džugašvili “Stalin” (1878-1953) in Spagna.
La guerra civile spagnola sarà un banco di prova e una scuola di eccezionale importanza per combattere il fascismo in patria e per acquisire le tecniche politico-militari necessarie per combattere una guerra rivoluzionaria: in essa emergeranno la figura di Palmiro Togliatti (1893-1964), nome di battaglia “Ercoli”, il vero “uomo”di Stalin nelle Spagne, e quella di capo militare di LuigiLongo, il futuro successore di Togliatti.
Mussolini manderà in carcere e al confino parecchi esponenti del PCI ma avrà la miopia, da un certo anno in avanti, di riunirne un gran numero in una unica colonia penale, nell’isola di Ventotene, a poca distanza da Napoli, dove i reclusi vivranno in regime di semi-libertà potendo attingere a un’ampia biblioteca, sì che il penitenziario diverrà una fervente scuola-quadri per molti neofiti.
Qui saranno elaborati i piani per trasformare la lotta anti-fascista in guerra rivoluzionaria di classe, una volta crollato il regime nella guerra ormai persa.
Quando questo accadrà, il 25 luglio 1943, il PCI sarà l’unica forza politico-militare all’altezza della situazione e sarà così in grado di conquistare l’egemonia nella Resistenza e nella lotta di liberazione.
Per verità, quando nell’estate del 1939, l’Unione Sovietica (URSS) e il Terzo Reich nazionalsocialista avevano stipulato un accordo di non-aggressione reciproca e di collaborazione strategico-militare — il cosiddetto Patto Molotov-Ribbentrop —, anche il PCI, come gli altri partiti di obbedienza moscovita, aveva smorzato il suo anti-fascismo, evitando collisioni troppo forti con il regime fascista, con il quale, con la sua ala più “sociale”, quando non socialista, anzi aveva cercato un effimero ralliément.
Ma, quando il Führer, Adolf Hitler (1889-1945), nel giugno del 1941, attaccherà l’Unione Sovietica, il PCI, come le altre sezioni dell’Internazionale Comunista, riprenderà la lotta anti-fascista. Il PCI, entrato nel governo del territorio occupato dagli anglo-americani — ossia da Napoli in giù —,affidato dal re Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) al generale Pietro Badoglio (1871-1956) al Sud, dopo la svolta verso la legalità operata da Togliatti a Salerno dell’aprile del 1944, sfruttando i suoi quadri addestrati all’estero (4), nella guerra di Spagna e nel maquis francese — già attivo dal 1940 —, creerà formazioni militari e para-militari — i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e le SAP (Squadre di Azione Patriottica) — che scateneranno a freddo (5) una offensiva a base sabotatoria e terroristica sul tutto il territorio — cioè da Roma a Milano e Torino sino a Ferrara e a Imola (Bologna) — della neonata Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
Bersaglio degli agguati omicidi e degli attentati dinamitardi dei gruppi terroristici comunisti saranno principalmente i dirigenti e le figure di spicco del Partito Fascista Repubblicano, come pure le autorità dello Stato mussoliniano, in genere soppressi mentre sono soli e all’aperto, nonché, come era uso fra loro, privi di scorta.
La vittima forse più illustre del terrorismo gappista sarà il filosofo — uno dei massi-mi esponenti dell’idealismo italiano —, nonché alto funzionario dello Stato, il vero artefice e regista della variegata cultura del fascismo, Giovanni Gentile (n.1875), assassinato a Firenze il 15 aprile 1944, mentre rientrava a casa (6).
Contemporaneamente, il PCI, come i risorti partiti dell’Italia pre-fascista, anche qui avvalendosi della sua esperta e ramificata struttura clandestina con diramazioni internazionali, costituirà formazioni militari — le Brigate Garibaldi, le più numerose di tutte — che si concentreranno sulle alture alpine e appenniniche e di lì attaccheranno a più riprese — anche se non sistematicamente —,con tecniche di guerriglia partigiana, tedeschi e fascisti repubblicani.
Le truppe del rinato esercito di Mussolini si troveranno così a dover combattere anche questa guerra — che assumerà via via l’aspetto di una guerra civile, italiani contro italiani, con sangue sparso in abbondanza da entrambe le parti, in un avvitamento progressivo della spirale della violenza — oltre a quella che le vedeva a fianco della Germania hitleriana contro gli Alleati che nel1944 e nel 1945 avevano spinto il fronte fino alla Garfagnana e poco dopo fino al Po.
Dopo il 25 aprile 1945,caduta la RSI, le milizie comuniste daranno vita a una “caccia al fascista” che farà migliaia di vittime. Chi era accusato di aver militato o, comunque, in qualche maniera collaborato con il regime — ed era francamente la maggioranza della popolazione, specialmente nei duri anni di guerra, quando per mangiare si dipendeva dallo Stato — era fatto oggetto di violenza di ogni genere che giungevano fino all’omicidio.
Particolare spirito di vendetta fu manifestato nei confronti degli ex militi repubblicani, soprattutto nei confronti degli irregolari— Legione Autonoma Ettore Muti, Decima Flottiglia MAS, Brigate Nere — e, con ancor più furore, contro le reduci del corpo delle ausiliarie, sulle quali infierire “con creatività” e spesso in maniera “femminicida” sarà per mesi lo “sport” più praticato dai partigiani della prima o, più probabilmente, dell’ultima ora.
E si noti bene cheallora frequentemente famiglie di ex fascisti e famiglie di anti-fascisti o di comunisti convivevano, addirittura sullo stesso pianerottolo, nel medesimo caseggiato popolare…
Con il pretesto della continuazione della lotta anti-fascista — era considerato fascista chiunque si ponesse di traverso alla tattica comunista, fosse egli o ella cattolico, liberale o monarchico —, all’incirca fino al 1948-1949,militanti comunisti saranno in prima fila nella vendetta non solo contro i militi e gli aderenti della Repubblica mussoliniana, ma le “Volanti Rosse” e la “polizia partigiana” liquideranno numerosi esponenti anti-comunisti, “notabili” locali, imprenditori e proprietari terrieri, i quali, per il solo fatto di essere autorità sociali, erano considerati “nemici” di classe” da eliminare (7).
Ma il tentativo insurrezionale per creare in Italia una repubblica popolare — ricordiamo che la spartizione delle aree d’influenza a Jalta è del 1945 e nei due anni precedenti, la possibilità di una guerra rivoluzionaria per comunistizzare l’Italia non è del tutto accantonata, come lo sarà nel dopoguerra —, visto anche l’esito fallimentare dell’analogo tentativo che ebbe come teatro in quegli stessi anni la Grecia, si esaurirà gradualmente e il mainstream dell’iniziativa comunista sarà la lotta politica parlamentare, tanto nell’ultimo periodo monarchico e nel neonato — 1948 —, quanto più nel regime repubblicano-democratico imposto dagli Alleati.
In parallelo, sfruttando l’eredità logistica del disciolto partito fascista e anche, in buona misura, del movimento socialista, e avvalendosi delle cospicue risorse messe a disposizione dal Cremlino nel quadro della nascente Guerra Fredda con gli Stati Uniti d’America, il PCI cercherà di darsi un assetto di partito democratico di massa capillarmente diffuso su tutto il territorio e ben introdotto nella società.
Il PCI di Togliatti, almeno dal 1947, quando viene estromesso dal governo a causa dello scoppio della Guerra Fredda, sa che una conquista violenta del potere turberebbe gli equilibri globali — vi sarebbe un Paese a governo comunista all’interno del blocco anti-comunista — che, per inciso, professa allora la dottrina del rollback e non quella, più morbida, del semplice containement —, il che innescherebbe nel mondo occidentale una reazione come quella greca.
Dunque non gli resta che puntare a ottenere il medesimo obiettivo, però per vie legali e democratiche, attraverso una mutazione esteriore: ma il comunismo è l’essenza stessa della metamorfosi…
Lo sforzo di legittimarsi democraticamente si porrà in sintonia con la tattica staliniana dei “fronti popolari” quale via di conquista del potere nel mondo libero e spingerà il PCI a costruire anche in Italia una coalizione politica di tutte le forze “democratiche” e “anti-fasciste”, di cui diverrà la forza egemone.
Sfruttando il peso della sua vittoriosa — e minacciosa— storia recente, i comunisti punteranno così alla maggioranza parlamentare già nelle prime elezioni nazionali indette dopo la promulgazione della nuova Costituzione repubblicana nel 1948.
La straordinaria mobilitazione del mondo cattolico attuata dai Comitati Civici voluti dal venerabile Papa PioXII (1939-1958) e creati dal medico di Azione Cattolica Luigi Gedda (1902-2000), e la consapevolezza del mondo anti-comunista della gravità dell’ora faranno sì che nelle elezioni del 18 aprile di quell’anno il Fronte Popolare, contro ogni pronostico, subisca una sconfitta pesantissima ed epocale.
Questo insuccesso ridimensionerà per più di dieci anni la crescita comunista e, pur non essendo sfruttata a pieno dai vincitori, aprirà per il Paese la stagione del cosiddetto “centrismo”, un periodo di stabilità e di crescita, a salda guida democratico-cristiana.
Il partito metterà allora ogni suo sforzo nel radicarsi nella società creando un apparato logistico e propagandistico enorme: decine di migliaia di funzionari stipendiati, migliaia di sezioni e federazioni che innervano capillarmente il territorio, campagne propagandistiche su scala straordinariamente ampia — e altrettanto costose —, affissione di migliaia di manifesti, elettorali e non; stampa di milioni di volantini; la propaganda quotidianamente svolta da due importanti testate a diffusione nazionale, l’Unità e Paese Sera, e da una locale, l’Ora di Palermo; una casa editrice, la Editori Riuniti di Roma; istituti di cultura, come il Gramsci di Roma; una cinematografia di qualità — allora ben più “chiave” di oggi come social-medium — corriva al partito; decine di testate periodiche, dall’illeggibile Critica Marxista a Rinascita, a Vie Nuove e a tante altre settoriali; centinaia di parlamentari — che versavano forti quote dei loro emolumenti al partito —; manifestazioni sindacali ed elettorali con mobilitazione di migliaia di aderenti; e feste de l’Unità, organizzate praticamente ovunque, nelle estati italiane.
A ciò si aggiungeva il controllo della Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori, la CGIL, la quale, a sua volta, egemonizzava l’intero mondo sindacale del Paese.
In breve torno di anni il PCI si presenterà come il più potente partito comunista dell’Occidente libero: non potrà accedere al governo, ma godrà di “fette” di potere reale e locale — rafforzato ancor di più dalla riforma regionale del 1970 — sempre più ampie.
Un potere reale arricchito dal numero inverosimile di realtà non comuniste di fatto fiancheggiatrici — quegli “utili idioti”, cari a Lenin (8) —, dall’apparato del Partito Socialista ai giornali di sinistra e radical chic, alle reti radiofoniche e televisive di Stato — la terza rete, quando nascerà, sarà appaltata in toto al PCI —, alle grandi case editrici dell’intellettualità liberale e radicale borghese — basti pensare a Einaudi, a Feltrinelli e a Laterza: ovvero le tre case editrici italiane più potenti e accreditate —,alla cinematografia e alla drammaturgia “impegnate” (9), ai sindacati unitari nonché, per un periodo, alla violenza di piazza, magari poco gradita ma comunque “rossa” e “anti-fascista”, dei “gruppuscoli” extra-parlamentari.
Nelle regioni “rosse” — Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna —, dove godeva di suffragi “bulgari”, nell’arco di due decenni il PCI costruirà un sistema di potere che metterà in sintonia e in osmosi partito, amministrazioni pubbliche — specialmente dopo il 1970, quando nasceranno le regioni —, sindacati, mondo cooperativo, cariche istituzionali — per esempio le fondazioni bancarie locali —, costituendo un conglomerato di poteri compatto e impenetrabile che garantirà la produzione di ricchezza — con ricaduta percentuale sulle casse comuniste —, sia di assicurare lavoro e carriere politiche di successo ai giovani aderenti, ricavandone, come contropartita, la possibilità di “controllare” circuiti-chiave della società italiana.
Saranno i cosiddetti “moti di Genova” del 1960 (10) — quando squadre di portuali comunisti aggrediranno a freddo la polizia in servizio di ordine pubblico durante un congresso del Movimento Sociale Italiano, il partito neo-fascista — a sbloccare la situazione, a rilanciare l’anti-fascismo come parte dell’identità repubblicana — mettendo in sordina l’analogo motivo anti-comunista — e, quindi, a ridare un ruolo di protagonista al partito.
Nel1963 l’“apertura a sinistra” attuata dall’ex docente della Cattolica, Amintore Fanfani (1908-1999), segretario della Democrazia Cristiana (DC), il partito di maggioranza relativa, nei confronti del Partito Socialista Italiano guidato da Pietro Nenni (1891-1980), rotto il patto di unitàdi azione con Togliatti, darà ancora più centralità al motivo e alla discriminante anti-fascista, facendo riassorbire al PCI lo smacco del 1948 e acquisire — vincendo la diffidenza anti-comunista dei tempi della Guerra Fredda — un ruolo di partito nazionale, con pieno diritto di cittadinanza, come ai tempi del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, consociazione di tutti i partiti antifascisti, degli anni della guerra.
Il centro-sinistra aprirà un percorso di successivo e graduale slittamento della politica italiana, sempre a guida democristiana, verso sinistra e verso l’accesso al governo del PCI che corrispondeva a questa strategia con scaltrezza e flessibilità, mantenendo intatto il suo fascino di partito dei lavoratori e di calamita per gl’intellettuali moderni mentre sfumava ogni suo carattere — ma non smantellava i relativi apparati — bellicoso e rivoluzionario per conquistare il consenso della borghesia e de i cattolici.
Il Sessantotto — la rivolta degli studenti delle università in via di diventare “di massa”, tintasi presto di “profondo rosso” — sarà subìto ma anche gestito dialetticamente, trasformandolo in una opportunità per il partito, che si presenterà a sinistra come l’unica forza progressista in grado di fare le riforme invocate da studenti e lavoratori, mentre a destra si “venderà” come l’unico capace di tenere a freno le intemperanze della sinistra extra-parlamentare, giocando così un ruolo di partito d’ordine (11).
Negli anni 1970, sulla base dell’analisi svolta da Enrico Berlinguer della vicenda politica del Cile — dove il Partito Socialista di Salvador Allende Gossens (1908-1973) aveva vinto le elezioni grazie al tradimento della Democrazia Cristiana locale e poi, dopo pochi anni di governo era stato schiacciato da un golpe militare — capirà che per andare al governo il PCI avrebbe avuto bisogno non solo del tradimento democristiano ma anche di un consenso maggioritario del più ampio mondo cattolico, gerarchie incluse (12).
Rinverdirà così la “politica della mano tesa”, inventata dai comunisti francesi fra le due guerre e fatta propria il 20 marzo del 1963, a sei mesi dall’avvio del Concilio Vaticano II, da Togliatti in occasione di una conferenza tenuta a Bergamo.
In questa linea il PCI sfumerà ancor di più la sua ideologia marxista-leninista e si rilancerà come partito nazionale, arrivando a teorizzare un “compromesso storico” e un “compromesso culturale” con i cattolici italiani che desse vita a un governo di comune intesa che escludesse solo a destra i neofascisti e a sinistra le formazioni comuniste radicali. Ma il disegno tramonterà pochi anni dopo.
Lo stesso ambiguo gioco il partito farà nella stagione del terrorismo rosso e nero, specialmente in occasione nel 1978 del rapimento e dell’omicidio dell’ex presidente del Consiglio e presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro (1916-1978) a opera delle Brigate Rosse (13).
Ma, presto il terrorismo si rivolterà contro il ruolo di gendarme del capitale svolto dal PCI e comincerà ad attaccarne e a ucciderne i quadri.
L’omicidio del leader sindacalista della Italsider di Genova, Guido Rossa (1934-1979), comunista militante, segnerà una svolta e il PCI affiancherà lo Stato nel combattere il terrorismo, accreditandosi ancor di più come partito nazionale e come partito d’ordine.
Così pure, il fenomeno degli “indiani metropolitani” (14) sarà un segnale di allarme del livello raggiunto dal processo di dissoluzione culturale e morale delle giovani generazioni apertosi nel 1968, sempre più scivolanti verso il nichilismo, l’edonismo drogastico e il tribalismo, processo che iniziava allora a intaccare anche i ranghi della gioventù comunista menomandone l’impegno politico.
L’ascesa dell’astro craxiano e la sua acre polemica contro il neo-stalinismo rappresenteranno un pericolo per il PCI che vedrà messa a rischio la sua egemonia nella sinistra e, dopo il 1979, romperà la collaborazione con la DC — spintasi fino al battesimo dei “governi rossi” capeggiati da Giulio Andreotti (1919-2013) — ricaccerà il PCI all’opposizione dura — fino ad accusare di neo-mussolinismo il corpulento leader riformista del PSI — e al tentativo di riprendere quota lanciando la “politica dell’austerità” prendendo le distanze e facendone oggetto di condanna politica e “morale” radicale la corruzione partitocratica — in realtà una forma illecita di finanziamento dei partiti dell’arco costituzionale — che preludeva alla svolta di Mani Pulite” — in effetti una formula propagandistica coniata dal comunista Giorgio Amendola (1907-1980) nel 1975 — apertasi nel 1992.
Le mani del PCI erano tutt’altro che “pulite” — basti pensare all’“oro di Mosca” (15), ai pingui introiti da funzioni istituzionali goduti dalla CGIL e alle corpose “commissioni” percepite per agevolare i commerci con i Paesi socialisti attraverso la rete delle cooperative controllate da Botteghe Oscure — ma il volto scarno e sofferente e il look dimesso del leader Berlinguer, uniti a un controllo ferreo e capillare dei canali mediatici riuscirono ad accreditare il PCI e i suoi eredi come unica eccezione di “moralità” pubblica in un mondo popolato da “mariuoli”.
Ma prima di Tangentopoli, nel 1989, vi era stata la occhettiana “svolta della Bolognina”, lo scioglimento del partito, la scissione della “sinistra” interna e la nascita di un “soggetto 2.0”, il PDS: il PCI, come tale, non c’era più. Poco dopo, dalla riaggregazione dell’erede del PCI e di frammenti del cattolicesimo democratico più radicale, a lungo “compagno di strada” dei comunisti, prenderà corpo una formazione ancora più distante dal “vecchio” PCI.
2. Un partito autonomo?
Tornando alle domande poste all’inizio, se osserviamo il percorso che ho per sommi capi descritto, ci accorgiamo che una linea costante e “portante” segna la storia del PCI — a dispetto della pretesa “via italiana al socialismo” inalberata dalla dirigenza nel secondo dopoguerra —, un fil rouge che nella sostanza politica ricalca in maniera pressoché perfetta il corso della storia del comunismo della casa-madre sovietica.
Il PCI è stalinista — anche se al suo interno si consumerà la lotta, culminata con l’espulsione nel 1930 di Amadeo Bordiga (1889-1970), già in atto in URSS fra stalinisti e trotskisti — dagli anni 1920 lungo tutta l’età dei totalitarismi, guerra di Spagna inclusa; attenua la sua intransigenza anti-fascista negli anni 1939-1941; riprende la lotta contro il fascismo negli anni della guerra persa dall’Italia e dalla Germania; “prova”, in maniera controllata, la strategia insurrezionalistica fra il 1945 e il 1948; poi, con il permesso di Stalin, con la “svolta di Salerno”, imbocca la via “democratica” e legale, pur senza smantellare la sua struttura clandestina e quella “discreta” — la cosiddetta “Gladio Rossa” (16) — e senza interrompere i suoi legami finanziari con la casa-madre, con i partiti-satelliti dell’URSS e con l’apparato spionistico sovietico in Occidente —; subisce la sconfitta del 1948 e appoggia in toto l’URSS all’epoca della contrapposizione frontale” con gli Stati Uniti; nel 1956 accusa gli insorti indipendentisti ungheresi di essere una banda di contro-rivoluzionari e plaude senza rossori all’irruzione dei carri armati del Patto di Varsavia nell’antico Paese di santo Stefano (969-1038) e del beato imperatore Carlo di Asburgo (1887-1922); si adatta perfettamente al clima della “distensione” USA-URSS dell’età kennediana e giovannea e al “disgelo” del periodo kruscioviano in Russia: dismette cioè il terrificante colbacco dacekista e indossa massivamente il completo giacca-cravatta all’“italiana”; approfitta del nuovo clima ecclesiale creatosi con il pontificato di san Giovanni XXIII (1958-1963) e, ancor più, dopo il 1965, della distorta lettura del Concilio Vaticano II che prevale, per aprire brecce nell’anticomunismo dei cattolici italiani; fa sue tutte le campagne pacifistiche lanciate dai sovietici che lacerano l’Alleanza Atlantica, ma nel 1978, al vertice del suo potere reale, invia Giorgio Napolitano — il primo dirigente comunista a essere ospitato, e con inusitata deferenza, nella Repubblica a stelle e strisce, allora governata dal “democratico” James “Jimmy” Earl Carter Jr. — a trasmettere una immagine colta e rassicurante del partito; approfitta scaltramente del Sessantotto e del terrorismo per costruirsi l’immagine di partito d’ordine; asseconda la strategia filo-comunista — e “suicida” — di Moro fino ad appoggiare, alla fine degli anni 1970, i governi “democristiano-comunisti” di Andreotti (17); quando i rapporti fra USA e URSS si tendono di nuovo all’epoca della presidenza di Ronald Wilson Reagan (1911-2004), riprende la sua op-posizione intransigente; così pure quando si afferma la figura carismatica di Benedetto “Bettino” Craxi (1934-2000).
Quando Michail Sergeevič Gorbačëv cercherà di salvare lo scricchiolante impero rosso con riforme apparentemente innovative, il PCI si adeguerà e quando l’immenso impianto multi-continentale dell’impero socialcomunista crollerà — meglio: si auto-liquiderà, lasciando lo Stato, ma salvando il potere “duro”, invadendo il mondo con i suoi potentati economici finalmente liberi, il commercio delle sue ricche risorse naturali, i suoi “oligarchi” politici divenuti rispettabili “finanzieri” con base a Londra —, cercherà di riciclarsi in forme che salvino il contenuto, lo “spirito” della Rivoluzione comunista, per poter continuare a premere in altra forma per la destrutturazione e la de-moralizzazione dell’Italia e dell’Occidente.
Fino al crollo dell’URSS i dirigenti del PCI — oltre a ricevere regolarmente preziose valigette da Mosca attraverso i canali diplomatici — faranno frequenti viaggi nella madrepatria del comunismo e nei Paesi satelliti dell’impero rosso: per vacanze nei lussuosi resort del partito nella Cuba castrista e sul Mar Nero, percorsi d’indottrinamento e di tecnica politica e spionistica presso le scuole moscovite, per i congressi della gioventù comunista mondiale, per relazionarsi con i vertici dell’Internazionale, nonché, durante il regime staliniano, per sfuggire alla giustizia patria.
3. Un partito “diverso”?
È stato davvero, quello comunista italiano, un partito “nuovo” e “diverso” dal resto del mondo, come dice di sé e come di lui narra certa pubblicistica e certa storiografia?
Di certo fino all’incirca ai primi anni 1970, quando il comunismo, piuttosto che come un monolite, iniziò a presentarsi come un “plateau de fromages” (18), il PCI manterrà le caratteristiche di una delle tante sezioni dell’Internazionale — peraltro sciolta formalmente nel 1943 —: sarà cioè un partito essenzialmente di quadri, dal forte indottrinamento marxista-leninista e dal l’intensissimo impegno esistenziale dei suoi aderenti — autentici “rivoluzionari di professione” —, con personale politico esterno e apparato para-militare e informativo interno — leggi: spionistico — operante in costante collaborazione con il KGB e con il GRU, i servizi — civile e militare, rispettivamente — sovietici.
Tuttavia, si può dire che, per il gramscismo insito nel suo DNA, il PCI nel periodo in cui sarà in auge, si presenterà davvero come un soggetto diverso: rifiuto della “violenza proletaria”, rigore nell’impegno, cultura politica di livello nei quadri, grande capacità manovriera nel sistema democratico, intellettualità di prim’ordine, capacità “diplomatica” di qualità.
Ma la sostanza dell’ideologia marxista-leninista, pur nella versione “soft” e adattata alla complessa identità storica dell’Italia dal pensatore sardo, rimarrà il suo carattere identitario profondo e inderogato sino alla fine.
4. Quanto il PCI ha contribuito al “costo umano” del comunismo?
Quanto alla domanda relativa alla co-responsabilità in quello che è stato denominato “il costo umano del comunismo”(19), ossia degli orrori commessi dal comunismo internazionale dopo il 1917, la diretta imputabilità al PCI del sangue di anti-comunisti versato si riduce agli anni della guerra civile italiana, ma soprattutto ai primi anni del secondo dopoguerra, fino addirittura al 1949, quando la metodica rivoluzionaria darà vita — per un certo periodo e in alcune zone dell’Italia settentrionale, specialmente nel famoso “triangolo rosso” o “triangolo della morte” (20), a cavallo fra le province di Reggio nell’Emilia, Modena, Bologna e Ferrara — a un “terrore rosso”, che farà migliaia di vittime fra ex fascisti, imprenditori, proprietari terrieri: tutte “autorità sociali”, ergo “nemici di classe”.
Prima e dopo di questi eventi, militanti del PCI si possono ritenere senza dubbio co-autori o co-responsabili degli eccidi di nemici e di avversari politici — per esempio gli anarchici — avvenute durante la guerra di Spagna.
Più tardi, durante la Resistenza, le formazioni partigiane garibaldine terranno costantemente un atteggiamento ambiguo e opportunistico nei confronti delle formazioni non-comuniste, arrivando persino a rendersi responsabili, nel febbraio del 1945, di una vera e propria strage di combattenti delle Brigate Osoppo a Malga Porzûs, nel comune di Faedis, in Friuli (21).
Altre gesta discutibili — omicidi e attentati terroristici, inclusa la strage di via Rasella a Roma il 23 marzo del 1944, l’attentato dinamitardo attuato dai GAP che provocò trentatré morti e che fu la causa della sanguinosa rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine, con 335 vittime innocenti (22) — imputabili al PCI punteggeranno la guerra di liberazione, ma, quando finiranno in processi, saranno in genere giustificate come atti di guerra.
Infine, l’elenco di questi “capi di accusa” non può omettere di citare il “lavoro sporco” condotto da emissari del PCI nei confronti dei connazionali prigionieri in URSS ed esposti a vessazioni inenarrabili durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale (23).
Per il resto, rimane l’ininterrotta mancanza di dissociazione da ogni fatto di sangue di cui le cronache e gli storici a mano a mano individueranno il responsabile nel comunismo internazionale, dalle Fosse di Katyń del 1940 alle innumerevoli vittime della “rivoluzione culturale” maoista in Cina, dal bagno di sangue delle cento rivoluzioni comuniste in Africa e in Asia — basti pensare al plauso per l’inizio della dittatura genocida dei “khmer rossi” in Cambogia nel 1975 — al terrorismo scatenato da Hồ Chí Minh (pseudonimo di Nguyễn Sinh Cung; 1890-1969) nel Vietnam del Sud, passando per le immani ecatombi dei vari “balzi in avanti” cinesi e per le stragi “sottoprodotto” delle guerre sovietiche in Africa e in Afghanistan, nonché per l’indifferenza verso la sorte dei milioni di uomini e di donne, di sacerdoti e di lavoratori, rinchiusi nelle carceri e nelle centinaia GuLag disseminati nelle regioni più remote e gelide del grande Paese eurasiatico, in regime di lavoro forzato.
Ma si può considerare in sostanza una forma di co-responsabilità anche la lettura costantemente e piattamente filo-sovietica — negli ultimi tempi con prese di distanza via via più nette, ma costantemente ambigue e dialettizzanti — delle repressioni attuate dai carri armati “proletari”, oltre che a Budapest, a Berlino nel 1953, in Polonia lo stesso anno di Budapest, ancora a Praga nel 1968, infine in Polonia nel 1980.
5. Che cosa rimane del PCI?
Poco, ma anche molto. Nel 1989 il PCI scompare dalla scena, ma il comunismo politico, invece, no. Il secondo sopravvive nell’ala “sinistra” filo-sovietica, che immediatamente si scinde e dà vita al partito di Rifondazione Comunista, adunatosi intorno all’on.
Armando Cossutta (1926-2015). Poi nel Partito dei Comunisti Italiani, poi ancora Partito Comunista d’Italia, come alle origini.
Senza tirare in ballo l’“oro di Dongo” — il tesoro della Repubblica Sociale Italiana, sequestrato dai partigiani rossi alla colonna di gerarchi che, insieme a Mussolini, cercavano di raggiungere la Valtellina e che pare sia finito nelle casse del PCI (24) —, il patrimonio finanziario e immobiliare dell’ex PCI — fra cui i numerosi quadri donati al partito dal compagno Renato Guttuso (1911-1987) — resterà intatto e il suo possesso, come quello della ragione sociale del partito, sarà oggetto di annose diatribe fra gli eredi politici della falce e martello. Il PCI, divenuto Partito Democratico della Sinistra, sposterà il suo baricentro a destra e indosserà abiti ideologici — e non solo — più “consoni.
Abbandonerà l’armamentario mitologico del marxismo-leninismo e s’ispirerà a princìpi liberal-socialisti, alquanto vicini al pensiero liberal, quello della sinistra statunitense, privilegiando il principio di eguaglianza, spingendolo fino alle sue declinazioni estreme.
Non si rivolgerà più ai lavoratori, né al proletariato — abbandonati di fatto da diversi anni — ma indosserà più assiduamente le ragioni dei giovani, della borghesia intellettuale “lavorata” dal Sessantotto, delle minoranze discriminate: donne, omosessuali, immigrati, e si schiererà come forza “consapevole” in tutte le “battaglie” per i “diritti civili” — più spesso mera volontà di tradurre in leggi erga omnes la grande “stagione dei desideri” maturata negli anni che la tradizione contro-rivoluzionaria chiamerà “quarta Rivoluzione”, la rivoluzione culturale del Sessantotto, “ulteriore” a quella comunista, che portava la sovversione all’interno dell’individuo stesso — degli anni 1990.
In altri termini, davanti al fallimento della prospettiva anti-capitalistica e collettivistica dovuto al flop del “socialismo reale” sovietico, di fronte al crollo della mitologia del proletariato — in via di estinzione come classe sociale —, osservando il veloce tracollo della centrale più forte dell’ideologia comunista, l’URSS, la Rivoluzione già marxista farà il classico “passo indietro” dopo i “due passi avanti” percorsi fino ad allora.
Reindosserà l’ideologia dell’illuminismo radicale allora penetrata alla grande nel cuore delle istituzioni europee e sfrutterà il volano di una Unione Europea (UE) dal DNA liberal-socialista e dalla vocazione dispotica — basta leggere il manifesto Per un’Europa libera e unita (25), redatto da Altiero Spinelli (1907-1986), Ernesto Rossi (1897-1967) ed Eugenio Colorni (1909-1944) nel 1941, durante il loro confino nell’isola di Ventotene (Littoria-Latina) —, di cui diverrà partigiano sfrenato per imporre la prospettiva neo-giacobina al nostro Paese.
Nel personale politico e nell’area culturale post-comunista si estinguerà rapidamente molta della già sbiadita mitologia — non tutta: per esempio l’icona di Ernesto “Che” Guevara de la Serna (1928-1967) sopravvivrà imperterrita — ma persisterà inossidabile lo stesso “giro mentale” del vecchio PCI, intriso di capacità di dialettizzazione — leggi esasperazione dei problemi — della realtà, di “superiorità morale”, di “egemonia”, di “scientificità”, di incarnazione “più moderna” e compiuta — perché progressista e popolare — dell’identità italiana.
Al tempo della svolta che cade sotto il nome di “Tangentopoli” il PCI riuscirà, sacrificando i suoi uomini più fedeli, a stornare da sé i fulmini della magistratura politicizzata — a sinistra — che in quel mentre annichilivano i grandi avversari del PCI, la DC e il PSI craxiano. Anzi, si auto-intesterà un ruolo di giudice della moralità altrui che irrobustirà ulteriormente il suo volto — o la sua maschera — di garante della Costituzione repubblicana e del campione del senso dello Stato, che tuttora coltiva.
Oggi, dopo l’ennesima e spregiudicata ri-autodenominazione — quella in in Partito Democratico —, questa sua pretesa di rappresentare la parte migliore del Paese e il medesimo tour d’esprit, egemonico e virulentemente avverso a ogni ordine morale basato sulla legge naturale, persiste, ma si accompagna a un vuoto d’idee ancora più risucchiante di quello dei tempi di Massimo D’Alema e di Matteo Renzi.
Incapace di trovare soluzioni vere e ai problemi veri della nazione, sempre più gravi, ciò che resta del PCI, a norma di “pensiero debole” si rifugia nel blocco aggressivo di ogni asserzione con pretesa di verità e coltiva il relativismo teoretico e morale più vieto e infecondo.
Specialmente in campo bioetico gli eredi del PCI abbracciano ogni abbrutimento morale che desideri diventare legge sotto il pretesto di tutelare questa o quella categoria per definizione “oppressa”: non sono più i tempi — il 1947 — in cui Enrico Berlinguer proponeva ai giovani comunisti, come esempio di integrità di vita, santa Maria Goretti (1890-1902) (26) o i tempi in cui non si vedevano di buon occhio le relazioni extra-coniugali o i “divorzi” fra militanti, “Migliore” — cioè Togliatti — incluso!
È più interessato a demolire ogni fermento di rinascita, in qualunque sfera della vita, che non a proporre qualcosa di pregevole per il futuro del Paese.
“Cavalca” come sempre l’“inclusione” di ogni minoranza e di ogni devianza contribuendo a creare quel contenitore rigido di un melting pot sempre più rancido e inquinato, luogo agglutinazioni di “coriandoli” rancorosi (27) che sta diventando la società italiana, in un Paese in via di diventare con sempre più alta probabilità una porzione — magari “pregiata” — del contenitore globale che la UE e i “poteri forti” mondiali ci stanno allestendo.
Dovrà subire il ventennio berlusconiano a denti stretti buttandosi con tutto il suo peso culturale, mediatico e iconografico contro l’“abusivo” di Palazzo Chigi riducendo sempre più lo spessore della sua ideologia alla pura persecuzione — attraverso i giudici di sinistra — dell’“indesiderabile”, mettendogli con ogni mezzo i bastoni fra le ruote e impedendogli accanitamente di svolgere il suo programma di riforme, forse l’unica chance del Paese per uscire dall’immobilismo causato dallo strapotere dello Stato iperburocratico e dal sistema economico semi-socialista che caratterizzava l’Italia in quel decennio.
6. Conclusione
Da quanto sopra esposto, emerge nitidamente un giudizio globale non certo benevolo nei confronti del PCI.
Parte integrante ed eminente di quel “partito anti-italiano” erede del giacobinismo (28), che s’impone nel secondo dopoguerra dietro le quinte della titolarità del potere sullo Stato demandata pro tempore al partito cattolico-democratico — almeno nella sua anima profonda — anch’esso membro del CLN, la vera incubatrice della Repubblica nata nel 1948, il PCI opererà costantemente ed energicamente per mutare, secondo la lezione gramsciana e con ogni mezzo lecito e meno lecito, il senso comune degli italiani, per trasformare la monarchia liberale, prima, e la repubblica, poi, in una “democrazia popolare” appartenente alla galassia dell’impero globale sovietico, per de-sacralizzare e de-moralizzare la fibra profonda del popolo della Penisola, per attuare in pienezza e in forma aggiornata la Rivoluzione nella sua forma comunista nell’antica nazione cattolica, che ospita la sede del vicario di Cristo e la cui identità è intrisa più che altre di cattolicesimo “tridentino”.
Anche al PCI — senza dimenticare il cattolicesimo democratico “sociale” e statalista —, da sempre la forza traente delle sinistre, si deve quella marcatura profonda di “socialismo burocratico” — basti pensare al numero disperante di permessi e di concessioni anagrafiche, fiscali, commerciali, edilizie, sanitarie, che il cittadino deve ottenere da un nugolo di poteri male assortiti per esercitare qualunque attività che vada oltre il mero sopravvivere — che ancora il nostro Paese presenta e che lo distingue dalle maggiori liberal-democrazie occidentali. Al PCI e ai suoi epigoni, soprattutto, si deve la condizione attuale dell’organo inquirente e giudicante, nel cui ambito la certezza del diritto è ormai solo un lontano ricordo.
Per onestà intellettuale, nel tracciare questo bilancio di cento anni di storia, ci si può domandare se la presenza di una organizzazione comunista “scientifica” nella vita dell’Italia contemporanea, oltre a rappresentare un inibitore, come sopra descritto, abbia avuto anche qualche ricaduta benefica reale sul Paese, ma è davvero improbo trovarne una.
Certo, l’ampia opera di “educazione delle masse” attuata dal partito nelle sezioni, nei sindacati e nelle cooperative dalle scuole, dai media, dalle conferenze, dai comizi, dalle riunioni di cellula, in qualche misura ha trasmesso a persone illetterate, di cultura subalterna anche elementi “tecnici” e istruttivi non solo di base. Tuttavia, è un fatto che tutta questa azione educativa è stata sempre finalizzata a preparare militanti per la Rivoluzione comunista.
La “missionarietà” del partito, che tanti sacrifici ha richiesto in questo senso ai suoi militanti e che tanti cattolici ha affascinato nel tempo, si è dunque esaurita in questa prospettiva limitata e finalizzata. E aver promesso a tanti “minores” la società senza classi, sorta di “paradise now” in terra, aver richiesto tanti sforzi per “costruire il socialismo” si è tradotto certo nel dare un senso a milioni — forse — di vite di nostri connazionali.
Né, per altro verso, si può dimenticare che il partito ha goduto a lungo di un numero di iscritti di valore assoluto (29) e di un consenso elettorale stabilmente al di sopra del 25% — nelle elezioni europee del 1984, insieme al Partito di Unità Proletaria (PDUP), ha raggiunto un terzo dei consensi espressi degl’italiani —, il che significa che una forte minoranza di italiani — ma comunque una minoranza — si è riconosciuta nei suoi programmi e nei suoi uomini — nel “mito” Berlinguer, soprattutto —, anche se assai meno nella sua ideologia, che, anzi, dopo gli anni 1970 ha iniziato una decrescita galoppante.
Ma il cinismo con cui sono stati gestiti a più riprese le speranze e l’afflato suscitati e, dopo il 1989, la disinvoltura con cui si è cambiata pelle e nome, ha causato — come già avvenuto per tanti giovani dopo la “liquidazione” del Sessantotto alla fine degli anni 1970 — la delusione profonda e il fallimento di tante di quelle stesse vite, aprendo percorsi esistenziali oscillanti fra la caduta nell’edonismo più vieto e la disperazione più nera.
È pur vero che il progetto post-comunista è riuscito — soprattutto sfruttando lo spazio conquistato dalla vecchia “talpa rossa” nelle istituzioni, nell’ordine giudiziario, nei media pubblici e nei centri di potere reale, tangibile e intangibile — a ricuperare diversi aderenti delle classi borghesi e medie, ma ne ha fatto altrettanti manichini “griffati” privi di progettualità politica, forse “due dita” al di sopra del livello medio della cultura politica della classe partitica, capaci — talvolta con abilità davvero apicale — solo di demolire, di diffamare, di aggredire l’avversario.
A cent’anni di distanza potremmo domandarci paradossalmente come sarebbe stata l’Italia senza un soggetto come il PCI: a mio avviso, non solo per l’antipatia politica dichiarata che non può non provare chi, come chi scrive, si dichiara credente e conservatore, e non solo di fatto, alla luce di tutte le considerazioni sopra fatte — ancorché in estrema sintesi —, si può affermare che, se la parte del Paese che si è riconosciuta nel PCI si fosse affidata ad altra guida politica, in particolare ad elementi meno ideologici e nello sforzo di riequilibrare le fatali fughe in avanti del sistema capitalistico-liberale, a elementi meno spregiudicati moralmente — non tanto come singoli, ma come valori in gioco —, sicuramente il Paese avrebbe conosciuto uno sviluppo, anche nel campo del lavoro e del sociale, di gran lunga migliore.
Forse anche la sua anima identitaria — che è cattolica e intrisa di buon senso — ne avrebbe senza dubbio beneficiato.
A ogni modo, la realtà è stata ed è un’altra. Se con tutta probabilità il destino dei conservatori in una Italia guidata dal PCI filo-sovietico sarebbe stato un GuLag — ancorché probabilmente “all’italiana” —, non si può non gioire che il PCI sia venuto meno.
È un fatto incontrovertibile, ancora, che i suoi cascami odierni sono meno pericolosi rispetto al PCI, dotato di elevata raffinatezza di analisi e di scaltra abilità manovriera, capace di tenere insieme metodi para-bellici, lotta parlamentare, fascino intellettuale, doti mimetiche di prim’ordine.
Ma, come quei prodotti industriali ad alto tasso di tossicità che rovinano in profondo il terreno su cui vengono depositati, quei cascami continuano a inquinare lo spazio pubblico del Paese, grazie anche allo spazio che dà loro un establishment, internazionale e nazionale, formalmente non comunista ma che coltiva disegni per il futuro dell’Italia che per più di un aspetto riportano alla mente il fantasma sinistro – in ogni senso del termine – della vecchia URSS. Se, cento anni dopo, il PCI ha perso, Gramsci è riuscito in qualche modo — anche se non da solo —, come nei suoi programmi, a rovesciare il senso comune degl’italiani, schierandolo «contro la realtà e la tradizione, la famiglia, la patria e il sentire religioso», come correttamente poche settimane addietro ha scritto Marcello Veneziani.
La “vecchia talpa rossa”, in qualche modo, da noi è riuscita alla lunga a vincere.
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(1) Mentre lavori — soprattutto memorie di protagonisti — su singole vicende della storia o su singoli personaggi del comunismo italiano abbondano, studi complessivi dedicati al PCI diprovenienza non comunista, ergo non auto-apologetici od opportunisticamente ellittici, scarseggiano: a oggi si possono citare Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi (a cura di), P.C.I. La storia dimenticata, Mondadori, Milano 2001 — con saggi,fra gli altri, dei curatori e di Massimo Caprara (1922-2009), di Paolo Pisanò, di Giuseppe Parlato e di Maurizio Tortorella —;e, pur con tematica più limitata, Rocco Turi, Storia segreta del PCI. Dai partigiani al caso Moro, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2013 — il saggio è incentrato soprattutto sui legami fra apparato clandestino del PCI e organizzazioni, fra rete “discreta” del comunismo internazionale e movimenti terroristici. Assai utile Ugo Finetti, Botteghe Oscure. Il Pci di Berlinguer & di Napolitano, Ares, Milano 2016, un profilo dal 1961 al 1989, scritto da un ex dirigente socialista. Il miglior studio sul PCI resta comunque quello di AngeloPerego S.J. (1913-1988), Dottrina e prassi del Partito Comunista Italiano, con una prefazione di Alessio Ugo Floridi S.J. (1920-1986), So.Gra.Ro. Società Grafica Romana, Roma1962. Il libro di padre Perego, docente nella Facoltà Teologica di Chieri (Torino), è forse l’unico studio socio-politico documentato e ad ampio spettro del soggetto-PCI: purtroppo risale ai primi anni 1960 e non ha conosciuto né aggiornamenti, né tentativi di emulazione più recenti. Di parte comunista, classico è ormai il lavoro di Paolo Spriano (1925-1988), Storia del Partito Comunista Italiano, 5 voll., Einaudi, Torino 1998, che termina con il 1975.
(2) Idee e pratiche collettivistiche radicali — spinte fino alla comunione delle donne e alla co-educazione della prole — si registrano all’interno di prospettive religiose di marca gnostica già nei primi secoli del cristianesimo, nelle sette càtare e pauperistiche medioevali — che male interpretano la dottrina cristiana del “comunismo primitivo” — e nelle forme più radicali della Riforma evangelica “protestante” del secolo XVI,per esempio negli “anabattisti” di Münster, in Germania, studiati in maniera eccellente da Friedrich Percyval Reck-Malleczewen (1884-1945), lo storico e medico cattolico prussiano ucciso a Dachau. Il comunismo “moderno” è invece figlio dell’Illuminismo e, più tardi e più compiutamente, della filosofia dialettica idealistica, che Karl Marx (1818-1883) “rovescia”in dialettica materialistica, nella quale sfocia tutto il percorso del pensiero immanentistico, razionalistico, antropocentrico,infine ateistico, della modernità quanto meno a partire da René Descartes “Cartesio” (1596-1650).
(3) Sul tema cfr., fra l’altro, Carlo Francovich (1910-1990),Albori socialisti nel Risorgimento. Contributo allo studio delle società segrete. 1776-1835, Le Monnier, Firenze 1962.
(4) Sulla penetrazione del PCI fra gl’italiani, anti-fascisti e non, emigrati in Francia, cfr., per esempio, Pietro Pinna,Le fratellanze comuniste italiane nella Francia degli anni trenta: dall’internazionalismo al regionalismo?, in Memoria e ricerca. Rivista di storia contemporanea, anno XII, n. 47,settembre-dicembre 2014, pp. 135-152.
(5) La prima reazione fascista si avrà solo tre mesi dopo l’8 Settembre, quando le imboscate omicide erano ormai parecchie ed era caduta la prima vittima “di peso”, il federale di Ferrara, Iginio Ghisellini (n. 1895), ucciso il 13 novembre 1943. La sua morte sarà vendicata mettendo al muro undici anti-fascisti — fra cui nessun comunista ma parecchi ebrei — nei pressi del Castello Estense il 15 novembre. Mussolini, consapevole della spirale di violenza che la reazione poteva creare, aveva proibito di compiere azioni di vendetta o di rappresaglia. In quell’autunno, specialmente su iniziativa fascista, si erano moltiplicati i contatti — alcuni proprio a Ferrara — fra ambienti anti-fascisti ed esponenti fascisti per preservare il Paese dagli orrori di una guerra civile: uno dei fucilati di Ferrara sarà appunto uno dei negoziatori per conto del Partito d’Azione. Sulla guerra sovversiva scatenata dal PCI durante la lotta di Liberazione cfr. anche il saggio di P. Pisanò, La guerra privata del PCI (8settembre 1943-25 aprile 1945), in S. Bertelli e F. Bigazzi (acura di), P.C.I. La storia dimenticata, cit., pp. 233-274
(6) Cfr. S. Bertelli, Gentile: come uccidere un filosofo, ibid.,pp. 295-302. Di questi anni terribili le narrazioni sono numerose: su tutte emerge la lucida e documentata prosa di Renzo De Felice (1929-1996) nel suo Mussolini l’alleato. 1940-1945,2 voll. in 3 tomi, Einaudi, Torino 1997, vol. II,La guerra civile.1943-1945.
(7) Su questa vicenda, tuttora semi-sconosciuta, cfr., fra altri,Giampaolo Pansa (1935-2020), Il sangue dei vinti, Sperling& Kupfer-Pickwick, Milano 2013, nonché le numerose e documentate pubblicazioni del giornalista e storico Giorgio Pisanò (1924-1997), specialmente Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), 3 voll., FPE (Fratelli Pisanò Editori), Milano 1971-1972 (reprint, 6 voll., Edizioni de il Giornale, Milano2017).
(8) A coniare questa espressione di successo pare non sia stato Lenin, il quale si sarebbe limitato a utilizzarla qua e là: sulla vera origine le ipotesi sono svariate, ma nessuna verificata.
(9) Anche il PCI beneficerà dell’infiltrazione nell’apparato culturale italiano dei numerosi “agenti d’influenza” attivati in Occidente da V Direttorato del KGB sovietico. Mai apertamente propagandisti delle idee comuniste questi agenti erano in grado però di farne penetrare in vari modi la sostanza fra l’intellettualità; su di essi, cfr. il romanzo, ben documentato, di un “ ex”,Vladimir Volkoff (1932-2005), Il montaggio, 1982, trad. it.Guida, Napoli 2011 (1a ed., Rizzoli, Milano 1983).
(10) In realtà i moti di piazza scatenati dagli attivisti del PCI coinvolsero per più giorni diverse città italiane e le vittime della repressione — una decina — non si ebbero a Genova, anche se Genova ne rimase l’emblema.
(11) Sul Sessantotto la bibliografia è smisurata: in prospettiva conservatrice, mi limito a proporre Enzo Peserico (1959- 2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, presentazione di Marco Invernizzi, prefazione di Mauro Ronco, Sugarco, Milano 2008; nonché al mio saggio Sessantotto e destra giovanile. Appunti fra storia e auto-biografia, in Cultura&Identità. Rivista di studi conservatori, anno X, n. 21, settembre 2018, pp. 3-19, con nutrita bibliografia.
(12) La vicenda sarà seguita con estrema attenzione — in un contesto di generale superficialità, che sfiorava l’ignoranza colpevole — da Giovanni Cantoni, che su di essa scrisse una memorabile serie di articoli su Cristianità, ora raccolti ne La “lezione” italiana. Premesse, manovre e riflessi della politica di compromesso storico sulla soglia dell’Italia rossa, Edizioni di “Cristianità”, Piacenza 1980. A ridosso degli eventi, Cantoni promuoverà altresì la traduzione di due opere di membri della Società per la Difesa della Tradizione, della Famiglia e della Proprietà (TFP) brasiliana: Fabio Vidigal Xavier da Silveira, Frei, il Kerensky cileno, prefazione di P. Corrêa de Oliveira, ibid., 1973; e P. Corrêa de Oliveira e Sociedad Chilena de Defensa de la Tradicion, Familla y Propiedad, Il crepuscolo artificiale del Cile cattolico, ibid., 1973.
(13) Le Brigate Rosse, l’organizzazione rivoluzionaria terroristica attiva negli anni 1970 e 1980, hanno la loro origine — sia come “brodo di cultura” ideologico, sia come risorse militari — nel frammento dell’apparato clandestino comunista, creato al tempo della lotta partigiana e sopravvissuto “carsicamente” — ma non del tutto autonomamente —, cui ripugnava la “via democratica al socialismo” e propendeva invece per “abbattere lo Stato borghese” con le maniere forti.
(14) Ovvero i gruppi più radicali dell’extra-parlamentarismo di ispirazione comunista, “figli” dei movimenti degli anni 1970, ma ancora più vicini al nichilismo esistenziale e all’anarchismo individualistico. L’allarme per i dirigenti comunisti suonerà quando il 17 febbraio 1977 questi “indiani” impediranno a Luciano Lama (1921-1996), segretario della CGIL e “big” del PCI, di tenere un comizio all’interno del campus dell’Università La Sapienza di Roma, occupata.
(15) Sul tema, accurata è la ricostruzione, alla luce degli archivi sovietici, di cui è artefice Valerio Riva (19129-2004), Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al PCI dalla rivoluzione d’ottobre al crollo dell’URSS, in collaborazione con F. Bigazzi, n. ed. aggiornata, Mondadori, Milano 2002
(16) Cfr., sul tema, Gianni Donno, La Gladio rossa del PCI. 1945-1967, introduzione di Piero Craveri, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001; e anche Gian Paolo Pelizzaro, Gladio rossa. Dossier sulla più potente banda armata esistita in Italia, Settimo Sigillo, Roma 1997
(17) Sul punto cfr. [G. Cantoni ,] Niente “oro alla patria”!, in Cristianità, anno V, n. 21, gennaio 1977, pp. 1-2
(18) Cfr. l’articolo di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), “Comunismi assortiti”, 1969, trad. it., in Cristianità, anno III, n. 13, settembre-ottobre 1975, pp. 1-2.
(19) Su questo tema, cfr. lo studio sistematico, ancorché parziale e datato, di Robert Conquest (1917-2015), James O.[liver] Eastland (1904-1986), Richard L.[ouis] Walker (1922-2003) e Stephen T. Hosmer, Il costo umano del comunismo. Russia, Cina e Vietnam, n. trad. it. (dai testi originali), a mia cura, D’Ettoris Editori, Crotone 2017.
(20) Cfr. G. Pisanò e P. Pisanò, Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile. Testimonianze fra cronaca e storia, Mursia, Milano 1998; nonché, molto documentato, Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso. La guerra di liberazione e la sconfitta del fascismo (1943-1947), Sapere 2000, Roma 2007, consultabile in integro in formato PDF nel sito web http://memoriadibo-logna.comune.bologna.it/files/1943-45/onofri/triangolo-rosso.pdf .
(21) Sulla vicenda, cfr., fra l’altro, Tommaso Piffer (a cura di), Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, il Mulino, Bologna 2012; Idem (a cura di), Le formazioni autonome nella Resistenza italiana, Marsilio, Venezia 2020; nonché il film di Renzo Martinelli, Porzûs, del 1997. Come noto, nella strage perirono il fratello minore, Guidalberto, detto Guido (n. 1925), studente, dello scrittore Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e lo zio dei cantanti Francesco de Gregori e Luigi Grechi (pseudonimo di Luigi De Gregori), Francesco (n. 1910), capitano degli alpini.
(22) Sulla vicenda cfr., fra l’altro, M. Caprara, Rasella: una strage cercata, in S. Bertelli e F. Bigazzi (a cura di), P.C.I. La storia dimenticata, cit., pp. 283-294.
(23) Sulla vicenda, cfr., fra l’altro, Giancarlo Lehner (con F. Bigazzi), La tragedia dei comunisti italiani. Le vittime del Pci in Unione Sovietica, Mondadori, Milano 2000
(24) Sul punto cfr., fra l’altro, Gianni Oliva, Il tesoro dei vinti. Il mistero dell’oro di Dongo, Mondadori, Milano 2018; nonché M. Caprara, Dov’è finito l’oro di Dongo?, in S. Bertelli e F. Bigazzi (a cura di), P.C.I. La storia dimenticata, cit., pp. 315-334.
(25) Cfr. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene. The Ventotene Manifesto, presentazione di Josep Borrell e introduzioni di Lucio Levi e Pier Virgilio Dastoli, 2a ed. bilingue aggiornata, Editrice Ultima spiaggia, Camogli (Genova)-Ventotene (Latina) 2021.
(26) Berlinguer paragonerà la giovane partigiana comunista Irma Bandiera (1915-1944), torturata e uccisa da poliziotti repubblicani bolognesi per non aver voluto tradire i compagni, alla santa giovane che si era fatta uccidere per difendere la sua verginità, vedendo in entrambi esempi della virtù delle ragazze italiane (cfr. Chiara Valentini, Berlinguer, Feltrinelli, Milano 2014, p. 99).
(27) Le efficaci metafore dei “coriandoli”, delle “mucillagini” e del “rancore” sono del sociologo Giuseppe de Rita, che le ha introdotte nei vari rapporti sullo stato della società italiana emessi annualmente dal CENSIS, il Centro Studi Investimenti Sociali, da lui diretto.
(28) Su questo concetto cfr. Massimo Introvigne, Centocinquant’anni dopo: identità cattolica e unità degli italiani, in Francesco Pappalardo e Oscar Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, pp. 5-33.(29) Alcuni dati dei massimi raggiunti dalle iscrizioni — e dai consensi elettorali — del PCI in A. Perego S.J., op. cit., p. 258.