La Nuova Bussola quotidiana 1 Maggio 2020
Aurelio Gazzera, missionario nella Repubblica Centrafricana, nel libro, Coraggio. Bisogna dare battaglia perché Dio conceda la vittoria, racconta con voce libera una realtà terribile, in cui la guerra religiosa ed etnica uccide da otto anni, il Covid rischia di fare un massacro, Ebola sta tornando e i cinesi sfruttano e inquinano per cercare l’oro
di Anna Bono
Aurelio Gazzera, carmelitano, da molti anni missionario nella Repubblica Centrafricana, è una persona fuori del comune. In una società devastata dalla corruzione più sfrenata (il Centrafrica è il paese dell’ “imperatore” Bokassa che ne ha dilapidato le ricchezze in un delirio di onnipotenza) e, dal 2012, da una guerra etnico-religiosa tra cristiani e musulmani, dimostra una straordinaria capacità di resilienza.
A Bozoum, la sua parrocchia 400 chilometri a nord ovest della capitale Bangui, riesce ogni anno, anche quando i combattimenti tra le milizie armate si fanno più vicini, a organizzare persino una grande fiera agricola che attira produttori e acquirenti da tutta la regione. Nel 2008 ha aperto un blog per raccontare la sua vita e quella dei suoi fedeli. Nel 2018 i post del blog sono stati raccolti in un libro, esempio di come, messa alla prova, una comunità abbia imparato a confidare nella Provvidenza e a farsene strumento. È pubblicato da Salinzucca, si intitola: Coraggio. Bisogna dare battaglia perché Dio conceda la vittoria.
Tanti missionari sono coraggiosi come lui, capaci di mantenere vive e confidenti le loro comunità testimoniando la fede anche in situazioni disperate, quando quel che si costruisce un giorno può andare perduto il giorno successivo. A rendere speciale padre Aurelio sono la sua lucidità, la sua concretezza, la libertà di giudizio, l’indipendenza da ideologie e interessi politici.
Quando nel giugno del 2017 la Comunità di Sant’Egidio ha annunciato di essere riuscita a riunire a Roma i rappresentanti del governo centrafricano e di 13 gruppi armati, a convincerli a firmare un cessate il fuoco con effetto immediato e a raggiungere una intesa che avrebbe messo fine ai combattimenti, padre Aurelio, nonostante i toni rassicuranti della Comunità e l’entusiasmo generale, ha subito smentito l’esito dei colloqui: perché attorno al tavolo dei negoziati c’erano un governo inconsistente e solo gli esponenti di alcune bande armate neanche tutte centrafricane; e perché l’appartenenza etnica e religiosa usata in modo strumentale dai leader delle milizie per aizzare la popolazione contro gli avversari aveva creato una frattura sociale difficile da sanare.
Aveva ragione. Nei due giorni successivi, scontri violentissimi avevano provocato 100 morti. Poi i combattimenti sono proseguiti. Decine di gruppi armati controllano tuttora circa il 70% del paese.
Il 14 marzo nella Repubblica Centrafricana è stato confermato il primo caso di Covid-19. Padre Aurelio, che è anche responsabile della Caritas diocesana, non si fa illusioni, sa di poter fare ben poco per impedire il diffondersi dell’epidemia: “la gente vive fuori casa – spiega intervistato dall’agenzia di stampa Fides – per riuscire a procurarsi il necessario per la famiglia è necessario uscire. Solo così è possibile trovare qualche lavoretto, vendere o comprare oggetti e alimenti indispensabili”.
Ma senza perdersi d’animo la sua comunità ha reagito. “In ogni parrocchia – dice padre Aurelio – abbiamo fatto una riunione, rispettando distanze e numero di presenti, nella quale ho prima presentato la malattia (sintomi, precauzioni, contagio, rischi), invitando a prendere sul serio questo problema. Poi ci siamo organizzati, come credenti e come Caritas, per assicurare ai più deboli (anziani, poveri, malati e portatori di handicap) assistenza e cibo”.
Il sistema sanitario centrafricano è in condizioni deplorevoli. Le strutture sanitarie già faticano a trattare le epidemie in corso di malaria, morbillo e tubercolosi. Per i malati di Covid-19 sono disponibili solo 14 posti letto, tre respiratori polmonari e mancano del tutto reparti di isolamento per la quarantena dei casi meno gravi. Finora i casi registrati sono solo 19. Ma il paese confina a ovest con il Camerun dove i casi il 26 aprile erano già 1.621 e a sud un lungo confine lo separa dalla Repubblica democratica del Congo che registrava 416 casi il 25 aprile.
D’altra parte il Covid-19 non è la malattia più temibile. Dal Congo c’è la possibilità che ne arrivi una ben più letale, Ebola. Dal 2018 la febbre emorragica è ricomparsa nell’est del paese e non è ancora stata sradicata. Il 17 aprile uno dei nuovi ammalati è fuggito dal centro sanitario in cui era ricoverato e di lui si sono perse le tracce. Senza più cure morirà (la mortalità di Ebola è molto elevata, tra il 40 e il 70 per cento dei casi), ma nel frattempo tutte le persone con cui entrerà in contatto rischiano di essere contagiate e a loro volta diffondere il virus.
Il coronavirus non è neanche l’unica minaccia alla salute che arriva dalla Cina. L’instabilità e l’insicurezza continuano a destabilizzare la vita sociale e ad arrecare danni gravissimi all’economia nazionale: a tutte le attività, salvo che a quelle illegali, al contrabbando delle materie prime preziose, al loro sfruttamento sconsiderato che anzi prosperano, complici la corruzione e la debolezza del governo. La Cina non ha perso l’occasione di approfittarne.
Dall’inizio del 2019, proprio vicino a Bozoum, quattro ditte cinesi hanno aperto più di 17 cantieri per cercare ed estrarre l’oro nell’Ouham, un fiume poco distante dalla città. Le imprese ne hanno deviato il corso per setacciarne il fondo con ruspe e scavatrici, lasciando ovunque montagne di ghiaia, buche piene d’acqua, le rive rovinate, l’acqua inquinata con il mercurio, usato per estrarre l’oro.
Padre Aurelio ha raccolto una documentazione dei danni ambientali causati delle attività estrattive, si è fatto portavoce della comunità di Bozoum presso il governo, è riuscito a farsi ricevere da alcuni ministri. Ma a nulla è valso. Nonostante un rapporto regionale, un rapporto di una commissione governativa e una inchiesta parlamentare le attività continuano. Il ministero delle miniere e della geologia ha respinto le richieste di ordinare la sospensione dei lavori sostenendo che tutta la vicenda non è altro che una manovra politica in vista delle elezioni. Padre Aurelio è stato persino arrestato per alcune ore, sorpreso a scattare fotografie in prossimità dei siti. I soldati hanno sparato ad altezza d’uomo quando nell’aprile del 2019 gli abitanti di Bozoum hanno minacciato di scendere nei cantieri e bloccare le attività.
Amnesty International è scesa in campo da poco per sostenere la comunità di Bozoum. Il suo rapporto conferma i danni derivanti dalla deviazione del fiume Ouham, dalla presenza di grandi quantità di mercurio e dall’inquinamento delle acque del fiume, risorsa vitale per gli abitanti dell’area. Ma con la pandemia tutto è rimandato, le iniziative anche a livello internazionale sono sospese.
Padre Aurelio non si scoraggia. “È stata una grande gioia incontrare parroci, suore, laici che si preoccupano prima di tutto degli altri – ha detto al ritorno dalla sua visita alle parrocchie della diocesi – padri e suore, giovani e a volte anziani, e nessuno che si ponga il problema per sé, o che pensi di partire. E sono tutti decisi a sfidare il virus, con le poche armi di cui disponiamo: la preghiera, la carità e la speranza”.