C’era una volta il Sudafrica

libro_MandelaLa Nuova Bussola quotidiana 9 aprile 2014

Rino Cammilleri

Pubblichiamo di seguito la prefazione di Rino Cammilleri al libro “Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica” (D’Ettoris Editori, Crotone 2014, pp. 120), unico libro critico nei confronti del leader sudafricano morto alla fine dell’anno scorso.

Un adagio riguardante il Messico e riassumente la sua travagliata storia moderna recita: «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti!». Si riferisce alle guerre con cui gli scomodi confinanti gli strapparono tutta la parte settentrionale nell’Ottocento e il loro zampino destabilizzante nelle revoluciones da cui fu afflitto quasi continuamente fino agli anni Trenta del Novecento. L’adagio si potrebbe tranquillamente adattare al Sudafrica, sostituendo la seconda parte del lamento messicano con «…e così pieno d’oro». Il fatto è che il Sudafrica non solo ha una tale disponibilità di giacimenti auriferi (e di diamanti e uranio…) da mantenersi ai vertici della produzione mondiale, ma ha pure una posizione geografica importantissima per la rotta delle superpetroliere che, data la loro stazza, sono troppo grosse per poter passare dal Canale di Suez nelle rotte da e verso l’Oriente.

Fu così che il povero Paese, un unicum nel Continente Nero, finì implicato nel complesso «grande gioco» che gli Usa e l’Urss disputavano in quegli anni sullo scacchiere africano. La decolonizzazione, infatti, fu solo l’inizio dei problemi dell’Africa lasciata a se stessa. Spuntarono come funghi movimenti «di liberazione» marxisti, i cui leader avevano studiato nell’Unione Sovietica, coadiuvati qua e là dalle truppe mercenarie che la Cuba castrista, sempre alla fame, metteva a disposizione di chi la manteneva. Cioè, l’Urss. Tra dittature comuniste e colpi di stato, guerriglie senza fine e contro-golpe, esodi biblici di profughi ed efferatezze e massacri, la «democrazia» africana si venne formando sulle uniche basi possibili, quelle etniche, cosa che permane ancora oggi. Cioè, ogni elettore vota praticamente per i candidati della sua «tribù» e ogni eletto favorisce la sua etnia, cosa che provoca immancabilmente proteste e tentativi di golpe da parte degli esclusi o emarginati.

Il sistema «demo-tribale», poi, tollera e, magari approva, satrapie personali con cariche presidenziali a vita e trasmissibili ai figli, arricchimenti inauditi per i capi mentre i popoli permangono nel sottosviluppo più bieco. Tutto questo può essere ovviato solo dai missionari cristiani (e lo è, nei luoghi in cui hanno qualche influenza), che operano prima di tutto per cambiare le teste. Cioè, la mentalità animista che fa sì che le cose rimangano come sempre sono state perché così le hanno «tramandate gli antenati». Come fai a inculcare la democrazia all’occidentale in un ambiente che uccide gli albini per mutilarli a scopo di trarne medicamenti? O che crede che stuprare una vergine guarisca dall’Aids? O che teme il malocchio come la cosa peggiore del mondo?

Qualche anno fa un missionario mi scrisse chiedendomi di indicargli se ci fossero dei Santi gemelli sugli altari della Chiesa cattolica. Suggerii i santi Cosma e Damiano, Tommaso l’Apostolo che era detto Dìdimo, cioè «gemello», santa Caterina da Siena che aveva una gemella… Ma, incuriosito, gli domandai a che cosa gli servissero. Mi rispose che nella sua missione africana la nascita di gemelli era considerata infausta e uno dei due veniva soppresso. Così, l’unico modo per mutare questa barbara usanza era quello religioso: convincere i locali ad abbandonare l’animismo per abbracciare il cristianesimo, nel quale i figli, anche gemelli, sono una benedizione, non il contrario.

Già: ogni fatto singolare, ogni cosa che uscisse anche minimamente dall’ordine dato, quello «tramandato dagli antenati», era una disgrazia e andava eliminato. L’episodio del missionario e dei Santi gemelli accadeva quando ancora il cristianesimo da quelle parti non doveva fare i conti anche con il fondamentalismo islamico. Ma questo è un altro discorso e noi dobbiamo tornare al Sudafrica. Quel Paese era un unicum, abbiamo detto, perché là non c’erano i problemi che abbiamo descritto. Là governavano i discendenti dei boeri olandesi, bianchi e di mentalità occidentale.

Erano lì da due secoli e non erano più europei bensì afrikaner, con lingua, moneta e cultura proprie. I neri ci stavano bene, rispetto al resto del continente, e la cosa era dimostrata da un flusso continuo di immigrati che trovavano lavoro e paghe dignitose. L’«apartheid» non era un problema più di quanto lo fosse quello che, di fatto, imperava nella parte meridionale degli Stati Uniti d’America. Al massimo scandalizzava qualche turista dal cuore tenero, ma i più, in Occidente, non ne sapevano nulla. Ed è presumibile che nemmeno importasse loro.

Né il Sudafrica aveva una Hollywood che denunciasse la «discriminazione razziale» (cosa, del resto, che la stessa Hollywood aveva cominciato a fare solo tardi: si pensi a quell’apologia del Ku Klux Klan che era, al tempo del muto, l’epico Nascita di una nazione di David W. Griffith, considerato ancora un classico). Ma ecco che l’Urss, il cui rublo non aveva nemmeno corso internazionale, ebbe un bisogno spasmodico dell’oro sudafricano per i suoi scambi, e della posizione strategica del Paese.

L’impero sovietico, nato da una rivoluzione filosofica a essenza prettamente economica (non si chiamava Il capitale l’opus magnum di Marx?), come sappiamo è morto proprio di economia. Doveva mantenere una pletora spaventosa di impiegati pubblici, per definizione improduttivi (l’elefantiaca Armata Rossa, i milioni di addetti ai controlli più minuti e ossessivi, polizie e informatori, funzionari di partito… perfino i ballerini erano «di stato»), finanziare i vari partiti comunisti nel mondo, mantenere una rete di spionaggio a livello planetario, agenti di influenza e disinformazione… E non aveva una moneta spendibile sul piano internazionale. Poteva usare solo l’oro. Così, venne riattivato un classico strumento della filosofia marxista-leninista: far esplodere le contraddizioni.

Dice la filosofia suddetta che la realtà si muove secondo lo schema hegeliano tesi-antitesi-sintesi. La tesi genera la sua antitesi e dal conflitto tra le due nasce la sintesi, che è loro superiore, uno stato di avanzamento della realtà stessa. Per esempio (c.d. materialismo storico), nella Roma antica c’erano i patrizi (tesi) e la plebe (antitesi), cioè sfruttatori e sfruttati. Dal loro conflitto scaturì il cristianesimo (sintesi), il quale, una volta affermatosi, a sua volta cristallizzò in tesi (feudalesimo) e generò la sua antitesi (borghesia). E così via. Quanto sia rozzo e banale questo schema si vede a occhio nudo, ma attenti a non sottovalutarlo, perché troppa gente è morta per esso, sia per affermarlo sia per averlo subìto. E non è ancora estinta la genìa di quelli che ci credono.

Tornando alla vulgata marxista, compito del filosofo è accelerare il processo descritto, che è di per sé positivo e ineluttabile. Sapendo qual è il traguardo (il trionfo finale del proletariato, che fermerà il processo perché non ci sarà più nessuno da sfruttare), il partito-guida (i filosofi che hanno «preso coscienza» di come funziona il processo suddetto) deve far sì che questo venga raggiunto prima possibile. Da qui la ricerca di «contraddizioni» già in atto (una tesi con la sua antitesi) e il loro aizzamento affinché si risolvano in una sintesi. E in Sudafrica ce n’era una bell’e pronta: i bianchi sfruttatori (tesi) e i neri sfruttati (antitesi).

Partì dunque una campagna internazionale tesa a far sapere al pianeta quanto fosse triste la sorte dei blacks sudafricani, costretti a bere in bar separati, a non poter votare, a usare autobus riservati. Gli Usa, di suo, avevano la coscienza sporca al riguardo e stavano cercando di ovviare proprio in quegli anni (basta guardare il film Mississippi burning di Alan Parker, con Gene Hackman e Willem Dafoe), perciò la propaganda, toccando loro un nervo scoperto, ebbe facile gioco nel paralizzarne la risposta.

Gli europei, reduci delle dittature nazista e fascista nonché culturalmente ormai colonizzati dai liberals americani, dal canto loro erano sensibilissimi al principio «un uomo, un voto», perciò si indignarono all’idea che in Sudafrica i neri non potessero votare. Perché, si sa, quando uno può votare alle elezioni i problemi per lui finiscono e si può guardare tranquillamente altrove. Da qui, boicottaggi per il Sudafrica, perfino alle Olimpiadi, e campagne di odio per il suo governo bianco e razzista. I sudafricani facevano la parte dei cattivi anche al cinema, come si vede, per esempio, in Arma letale 2 di Richard Donner.

Peccato che la realtà (vera) sia sempre più complicata di quella compressa negli slogan della propaganda ideologica e teorizzata a tavolino dalla sinistra hegeliana (di cui Marx faceva parte). Infatti, in Sudafrica non c’erano solo i bianchi da una parte e i neri dall’altra. Ma i neri stessi avevano qualche problema ad andare d’accordo, visto che le due etnie principali, Zulu e Xhosa, non si amavano affatto. Anzi. Ho l’età per ricordare benissimo i necklaces, le «collane» con cui gli esponenti delle rispettive fazioni politiche regolavano i conti tra loro: alla vittima, legata, veniva messo al collo un copertone d’auto a cui si dava fuoco. Anche queste foto facevano il giro del mondo, ma ormai il martoriato Paese procedeva sulla strada che gli era stata artificialmente tracciata.

Come diceva l’Antonio shakespeariano dopo avere lanciato i romani contro gli assassini di Cesare, «danno, tu sei scatenato, prendi il corso che vuoi». Fu così che il più prospero dei Paesi africani entrò in un tunnel di lotte e destabilizzazione da cui è faticosamente (e parzialmente) uscito solo in tempi recenti. E mi fermo qui. Aggiungerò solo che forse qualcuno, dopo aver letto queste mie righe, potrà pensare che ci sono andato leggero sulla questione dell’apartheid. No: la segregazione razziale, prima che indegna di un paese civile, è stupida. Il mio è, al contrario, un invito a studiare l’apartheid sudafricano per quel che veramente fu.

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