di Alfonso Berardinelli
Quando il senso e il valore del passato si polverizzano, è giusto parlare di maestri, come fa Filippo la Porta nel suo Maestri irregolari (Bollati Boringhieri). Ma che cos’è un maestro?
Più che un modello da seguire, un grande classico o uno scrittore amato, credo che un maestro sia soprattutto un mediatore, un individuo che non propone se stesso, né si comporta in modo che allievi e discepoli si concentrino su di lui. Al contrario, un maestro punta il dito su qualcos’altro, indica qualcun altro.
Rende presente qualcosa che merita tutta l’attenzione e che non coincide né con lui (il maestro) né con chi lo ascolta (l’allievo). Un maestro non è un protagonista in scena, non è un fascinatore, un seduttore, un trascinatore, una guida, un leader.
Un maestro è meglio che sia cedevole, duttile e ironico. Deve mettersi un po’ da parte. Non sta di fronte, ma di lato, a fianco. Mette fra se stesso e chi lo ascolta qualcosa di più importante e di più grande, qualcosa a cui prima non si pensava. Un maestro è dunque una persona vivente accanto ad altre persone viventi, non è un autore e un’ auctoritas consegnata alla parola scritta, a un testo immodificabile.
Per lo studente che studiò Dante seguendo le lezioni di Erich Auerbach o di Natalino Sapegno, il maestro non è Dante, sono Auerbach o Sapegno. Dato che all’università ho studiato i rapporti polemici di Socrate con i Sofisti seguendo le lezioni di Guido Calogero, il mio maestro è Calogero non è Socrate né Platone. Il fatto che Socrate abbia evitato di scrivere e di chiudere il movimento del suo pensiero in un corpus di testi è esattamente ciò che rende Socrate uno dei massimi esempi dell’idea di maestro.
Neppure Gesù scrisse. E il termine «Upanishad», che denomina nel loro insieme alcuni testi fondamentali dell’induismo, ricorda che l’insegnamento deve essere diretto e viene impartito da maestro a discepolo stando «seduti accanto».
(A.C. Valdera)