[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32]
Ci ricorda quel grande agiografo del Bargellini che lo spostamento della capitale imperiale lasciò in Roma praticamente deserto il colle Palatino, così detto perché su di esso sorgeva il complesso di edifici che costituivano il Palatium, cioè la residenza dell’imperatore.
Il luogo rimase, però, ancora per secoli il centro amministrativo della città. Ci sorgevano due chiese, una delle quali risalente al IV secolo. Poiché era inserita nella magione imperiale, ci si potrebbe aspettare che fosse dedicata a un martire romano. Invece, no. Fu intitolata a un martire, sì, ma di Terracina. Perché?
Perché questo martire si chiamava Cesario. Fu molto popolare fino al Medioevo, e gli vennero dedicati molti edifici sacri. In Roma rimane solo una chiesa a suo nome, quella di San Cesario in Turri, nei pressi delle Terme di Caracalla. Si tenga presente che, nei tempi delle persecuzioni, uno dei motivi principali che trascinavano i cristiani alla morte era il loro rifiuto di rendere all’imperatore il culto che la legge romana prevedeva.
La deificazione dei Cesari era, sì, giustificata da un’esigenza di unità almeno formale in quel vasto impero in cui pullulavano i culti più vari. Una sorta di religione civile che, oggi, forse potremmo paragonare al bacio della bandiera o alla mano sul cuore quando risuona l’inno nazionale. Ma per i pagani era qualcosa di più, e i cristiani non potevano sottomettervisi. Pagavano le tasse, militavano nelle legioni, ricoprivano ogni carica civile e la loro lealtà era fuori discussione. Ma nella casa dell’imperatore preferirono venerare un altro Cesare. Un Cesarius.
15 ottobre