Il prof. Mario Palmaro, che insegna Filosofia del diritto, Etica e Bioetica nell’Università Europea di Roma, offre in queste pagine una riflessione sul ruolo del diritto penale nell’ordinamento giuridico, nelle sue applicazioni in materia di Bioetica. Sull’argomento, con particolare riferimento alla questione dell’aborto, era intervenuto Con. Carlo Casini, nel n. 620 (ottobre 2012) di Sc. II contributo del prof. Palmaro arricchisce il dibattito sul delicatissimo e vitale argomento.
di Mario Palmaro
La catalogazione delle condotte criminose risponde sempre alla necessità primaria – che precede anche da un punto di vista logico nell’attività tipica del legislatore – di tutelare un determinato bene. Un bene di così eminente rilevanza da indurre l’autorità costituita a reagire con lo strumento più temibile di cui dispone: la sanzione penale.
Precisamente per questo motivo, uno degli aspetti salienti del moderno dibattito intorno alle questioni di bioetica (2) riguarda il ruolo che il concetto di reato deve giocare di fronte alle più drammatiche e laceranti provocazioni che questo medesimo dibattito suggerisce. Pensiamo, per esempio, ad alcune classiche questioni di bioetica che sono storicamente questioni giuridiche altrettanto classiche, e più precisamente penalistiche, non meno che filosofìco-giuridiche: l’aborto procurato; l’omicidio del consenziente; la cosiddetta uccisione per motivi pietosi, nota anche come eutanasia; l’infanticidio; la selezione eugenetica nelle sue multiformi, inquietanti, applicazioni.
Le strategie del dibattito in bioetica
Restando per il momento sul piano meramente descrittivo, e dunque a prescindere da qualsiasi giudizio di merito, non occorre andare troppo indietro nel tempo per riconoscere che, nella quasi totalità degli ordinamenti positivi, fino a qualche decennio fa le condotte appena citate erano considerate senza esitazioni come reati. L’aborto procurato era per esempio inserito nel catalogo dei reati, all’interno di una lunga tradizione giuridica che, pur in ambiti culturali, religiosi e politici anche assai diversi, si ritrovava sostanzialmente concorde nella determinazione dei fatti di rilevanza penale.
Giova ricordare che nella nostra penisola il reato d’aborto era contemplato nella totalità dei codici penali dei piccoli Stati e dei Ducati preunitari, quasi sempre all’interno dei titoli dedicati alla tutela del bene della vita. Sarebbe difficile, per non dire impossibile, ravvisare in questo dato storico una indebita confusione di piani, una anacronistica «confessionalizzazione» del diritto penale, che avrebbe impedito di giudicare il problema con occhi laicamente disincantati. Anche nella tradizione giuridica statunitense dello stesso periodo, infatti, è ampiamente diffusa la valutazione della soppressione intenzionale del concepito come fatto penalmente rilevante, in considerazione della violazione del bene giuridico fondamentale della vita e, per giunta, di una vita intrinsecamente innocente.
Giova altresì ricordare che lo storico Codice penale Zanardelli, espressione dell’Italia sabauda e liberale, alternativa (quando non ostile) alla Chiesa cattolica, considera senza esitazioni la condotta abortiva come penalmente rilevante. Il Codice – promulgato il 30 giugno 1889 -prende il nome dal ministro della Giustizia dell’epoca, il parlamentare della Sinistra storica Giuseppe Zanardelli, e considera l’aborto procurato un delitto contro la persona umana.
Soltanto in seguito, con la promulgazione del Codice Rocco durante il regime fascista, il reato d’aborto verrà mantenuto ma trasferito nella categoria dei delitti «contro l’integrità e la sanità della stirpe». Ciò non toglie che il bene principale protetto dalle disposizioni che vietavano l’aborto è sempre stato considerato – dalla dottrina e dalla giurisprudenza — il bene della vita, a dispetto dalla erronea e ideologica collocazione adottata dal Codice Rocco (3).
È a tutti noto quali radicali trasformazioni si siano verificate a partire dagli anni Sessanta nella civiltà occidentale, cambiamenti che hanno prodotto significativi mutamenti negli ordinamenti giuridici: l’aborto procurato è stato legalizzato nella quasi totalità degli Stati contemporanei. Talvolta, con un atto della massima autorità giurisdizionale: come nel caso degli Stati Uniti, con la celebre sentenza della Corte suprema Roe vs Wade del 1973; o, come nel caso dell’Italia, con la sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975. Altrove, più spesso era l’autorità legislativa a stabilire la cancellazione dei reati d’aborto, come avverrà anche nella situazione italiana, con l’approvazione della legge 194 del 22 maggio 1978.
Rispetto a un altro tema attualissimo in ambito bioetico, come quello della c.d. eutanasia, si coglie con analoga evidenza la centralità degli elementi cui sin qui abbiamo fatto riferimento: di fronte a un reato contemplato dal codice che sanziona seriamente, se non severamente, la condotta in discussione, si fa strada un’azione giuridico-politica volta a depenalizzare l’uccisione per motivi pietosi, di solito nei casi in cui vi sia una richiesta del paziente. Ma non mancano le istanze di depenalizzazione anche per la soppressione di pazienti che siano totalmente incapaci di esprimere una qualsiasi decisione, in base al criterio ambiguo e metagiuridico di «qualità della vita».
In ogni caso, si può osservare con una certa chiarezza che il dibattito bioetico tocca in genere queste tappe fondamentali:
a) esiste un reato che ha per oggetto una determinata condotta;
b) la condotta è giudicata severamente dall’ordinamento (e dalla società), in quanto violazione di un bene giuridico tutelato, e tutelato proprio perché reputato di notevole rilevanza;
c) si fa progressivamente largo un movimento d’opinione che contesta la normativa esistente, di solito appoggiandosi su motivazioni di carattere statistico-sociologico. Per esempio la reale o presunta ampia diffusione della c.d. clandestinità del fenomeno; l’elevato dark number dei delitti contestati; il mutamento della sensibilità sociale e dei costumi; e così via (4).
d) In questa fase iniziale, la critica del reato fa appello soprattutto a una serie di situazioni estreme – i cosiddetti casi pietosi – che costituiscono eccezioni alle quali la norma penale non offrirebbe una risposta umanamente accettabile, perché colpirebbe senza clemenza condotte maturate in contesti assai penosi, apparendo manifestamente iniqua secondo criteri morali e metagiuridici di giustizia. Si pensi, per esempio, all’ipotesi della violenza carnale, per l’aborto procurato; e al caso di «Stato Vegetativo Persistente» per quanto riguarda il fronte dell’eutanasia.
e) L’azione di contestazione alla normativa, ritenuta superata e anacronistica, si accompagna quasi sempre all’implicita o esplicita erosione della fondatezza del bene giuridico tutelato dalla figura di reato che si vorrebbe eliminare: nel caso dell’aborto procurato, si mette in discussione che il nascituro possa godere di una qualche forma di diritto alla vita; nel caso dell’eutanasia, si contesta l’esistenza del principio di indisponibilità della vita umana, affermando invece la validità di un presunto «diritto alla propria morte», speculare al diritto alla vita.
f) Si enfatizza con particolare insistenza la negatività dello strumento penalistico, descritto come illiberale, oppressivo e moralistico. Il reato è qui assunto in quella chiave esclusivamente sanzionatoria, che tende a disconoscere la dimensione di tutela e di garanzia dei diritti. In questa operazione, viene privilegiato il punto di vista di uno dei soggetti in gioco – la madre, nel caso dell’aborto; il malato, o i parenti più stretti, nel caso dell’eutanasia – che quindi denunciano il divieto originato dal reato come insopportabile limitazione dei propri «diritti civili». E viene al contempo occultato il punto di vista di altri soggetti in gioco — il nascituro, nell’aborto procurato; il medico o il giurista contrari alla «dolce morte» nel caso dell’eutanasia – con l’effetto di far evaporare completamente il contenuto del bene giuridico tutelato. Che è, appunto, la vita umana innocente.
g) Questa fase del dibattito incontra spesso ampi consensi, perché si avvantaggia della «cattiva letteratura» che da decenni colpisce la categoria del reato. Per cui, anche intellettuali, giuristi, politici che in linea di principio non sono favorevoli al «viraggio permissivo» – cioè a dichiarare lecita una pratica tradizionalmente considerata inaccettabile – si lasciano ammaliare dall’idea che, in fondo, non sia poi così grave eliminare la fattispecie criminosa. Prevale un fattore psicologico per il quale, umanamente, non è mai piacevole mandare qualcuno in prigione; e, dunque, tanto meglio se chi commette un fatto anche grave, come la soppressione di una vita innocente, ma all’interno di una situazione complessa e valutata con indulgenza dalla società, non è più colpito dalla sanzione tipica dei reati.
h) II percorso di demolizione della fattispecie penale avviene in genere secondo questa progressione: la riduzione della pena edittale; la disapplicazione della norma da parte degli organi giurisdizionali; la riduzione delle ipotesi che rientrano fra i reati; la eliminazione della fattispecie nel suo complesso dai fatti considerati reato; la legalizzazione della stessa pratica con una nuova normativa che mira a proclamarne la piena liceità, eventualmente a certe condizioni (c.d. regolarizzazione).
i) Alla fine di questo percorso sociale — che può durare pochi mesi ma più spesso alcuni anni, e perfino decenni – ciò che era considerato reato contro la persona umana, e dunque un delitto grave, è completamente rimosso dai fatti censurati dall’ordinamento giuridico. Nella società si osserva anche una significativa trasformazione nella percezione morale della condotta un tempo incriminata. Ciò che è divenuto legale tende a essere assunto sempre di più come morale. Confermandosi in questo modo la dimensione inevitabilmente educativa (o diseducativa) della norma giuridica, in particolare penalistica.
Nell’ambito delle questioni di bioetica, il reato opera come presidio alla tutela di un determinato bene giuridico. Una volta eliminato il reato, viene meno anche la percezione del bene fondamentale che la norma tentava di difendere. L’individuazione del bene giuridico tutelato nell’ambito della interpretazione della norma penale è così rilevante che, a nostro parere, non è possibile procedere a un’autentica interpretazione della norma medesima se non vi è adeguata chiarezza circa il bene che il legislatore ha inteso proteggere.
Il diritto penale «gendarme del sistema»
Questo fondamentale aspetto del reato – cioè l’esistenza di un bene giuridicamente tutelato, in ragione della sua particolare rilevanza civile, sociale e spesso anche morale — è stato spesso sottovalutato, per non dire dimenticato. Vi è stato un lungo periodo storico nel quale al diritto penale si è guardato come a una sorta di gendarme spietato e occhiuto che avrebbe esclusivamente il compito di comprimere la libertà individuale, sulla base di premesse autoritarie per nulla fondate su argomenti ragionevoli, e men che meno orientate alla tutela dei beni e degli interessi della singola persona umana. Il carattere meramente sanzionatorio del diritto penale è stato sostenuto da Thomas Hobbes, da Jeremy Bentham, da Jean Jacques Rousseau a Karl Binding (5). Ma si tratta di una indebita riduzione del diritto penale, che genera il fraintendimento del significato di reato.
Occorre riconoscere che non poche vicende storiche hanno contribuito a consolidare questa immagine esclusivamente negativa del reato, soprattutto in tutte quelle circostanze nelle quali i diritti fondamentali della persona – diritti che sono preesistenti allo stesso ordinamento statuale, intrinseci alla medesima natura della persona umana e come tali intangibili da qualsiasi autorità — sono stati sistematicamente calpestati proprio in ambito penalistico.
Basti pensare alla violazione dei diritti di difesa dell’imputato, in quella fase di accertamento della sussistenza del reato alla quale dovrebbe accompagnarsi la presunzione di innocenza e l’uso assolutamente eccezionale e parsimonioso degli strumenti di restrizione cautelare della libertà individuale.
Ma si pensi soprattutto alle condizioni disumane in cui per secoli hanno dovuto vivere i detenuti, sperimentando l’abbrutimento fisico e morale che la condizione carceraria spesso imponeva in base a una male intesa idea di afflittività della sanzione. Si tratta di palesi ingiustizie che purtroppo non appartengono soltanto alle pagine della nostra storia, ma che continuano ad arricchire anche la cronaca contemporanea.
Nessuno può negare che, purtroppo, il concetto di reato sia stato talvolta usato non per dare attuazione alla umanissima esigenza di vietare gli atti di aggressione alla persona umana o ai beni di sua pertinenza, quanto piuttosto per dare veste giuridica all’arbitrio dell’autorità costituita. Il reato come strumento di potere e non come garanzia dei diritti della persona.
Illuminanti in tal senso risultano le considerazioni che Niccolo Machiavelli affida alle pagine della sua opera più famosa, quel De principatibus dedicato a Lorenzo il Magnifico, vero manifesto programmatico dello Stato moderno. Nel capitolo XVII, significativamente intitolato De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra, Machiavelli si interroga se per il principe sia preferibile essere ritenuto pietoso oppure crudele. La risposta è gelidamente cinica: sarebbe bene essere sia amati sia temuti, ma poiché è assai difficile possedere entrambe queste qualità, dovendo scegliere è meglio esser temuti che amati.
«Il timore», scrive il Segretario fiorentino, «è tenuto da una paura di pena, e non ti abbandona mai» (6). A nessuno può sfuggire a quali deteriori strumentalizzazioni possa essere piegato il diritto penale, una volta accolta l’idea che l’autorità possa servirsene per suscitare il timore e la paura dei consociati. Troviamo in Machiavelli, in nuce e al di là del contesto storico e delle effettive intenzioni dell’autore, le premesse di quel positivismo giuridico che nel ‘900 avrebbe teorizzato il totale affrancamento del diritto dalle categorie della morale e della giustizia, gettando così le basi per le più svariate forme di totalitarismo ideologico.
Vi è un’altra deriva che ha accompagnato il fraintendimento del concetto di reato. Ci riferiamo alla pretesa tipica della filosofia idealista di ricondurre ogni aspetto della realtà al mondo del diritto, nel tentativo di operare la ben nota «divinizzazione» dello Stato tanto cara a Hegel e a tutti i suoi eredi. Se tutto è nello Stato e nulla al di fuori di esso, se ne ricava come effetto perverso una eutrofizzazione dello strumento penalistico, e quindi una moltiplicazione ingiustificata delle condotte qualificate come reato.
Per cui, invece che ricorrere allo strumento del reato con morigeratezza, consapevoli che si sta maneggiando un’arma potentissima, i Codici penali si sono sovente arricchiti di una pletora interminabile di fattispecie che meglio avrebbero potuto essere trattate con strumento sanzionatorio diverso dalla detenzione carceraria.
In questo senso, siamo totalmente d’accordo con quanti auspicano la tendenziale delimitazione della categoria del reato ai delitti contro la persona, e a una serie limitata di delitti contro il patrimonio che siano accompagnati da un legame particolarmente stretto con la persona stessa (7).
Ma questo alleggerimento del catalogo dei reati non ha nulla a che vedere con il fenomeno della depenalizzazione delle condotte attinenti le questioni di bioetica. Condotte nelle quali il bene giuridico tutelato non è, di solito, un bene patrimoniale, né una pur rispettabile istanza etica o religiosa, ma è soprattutto la dignità della persona umana e il fondamentale bene giuridico della vita. Bene della vita da intendersi non in una sua generica e astratta definizione, ma «incarnato» in una specifica, insostituibile, individualità personale.
Il delitto contro la vita umana – il reato per eccellenza, per antonomasia — trae la sua gravita dal fatto che la vita spezzata non è l’anonima e indifferenziata manifestazione di un processo biologico indistinto, reiterabile con la stessa facilità con cui si può riprodurre una coltura batterica. L’essere umano che viene tolto di mezzo con l’omicidio – e con ogni altra azione intenzionale che costituisce solo una variante della condotta omicida – è un valore in sé.
È, come direbbe Antonio Rosmini, «il diritto sussistente» (8). Infatti, proprio come ricorda il grande filosofo roveretano, non è che l’uomo abbia il diritto alla propria personalità, perché in questo caso l’uomo si distinguerebbe in due persone, l’una avente il diritto, l’altra costituente il soggetto del diritto medesimo.
Ed ecco anche perché – come scrive lucidamente Mario Alessandro Cattaneo — il tema del rispetto della dignità della persona umana è il problema fondamentale della filosofia del diritto penale (9). Precisamente a questo livello dovrebbe collocarsi quel terreno di fertile confronto, quel denominatore comune su cui costruire una bioetica condivisa e, di conseguenza, un sistema normativo laicamente autentico, in quanto pienamente umano. «Non vi è libertà», scrive Cesare Beccaria in una celebre pagina di Dei delitti e delle pene, «ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa».
Beccaria pensava agli orrori di una macchina giudiziaria troppe volte disumana. Ma dettava anche una linea profetica per le sfide della tecnoscienza contemporanea. Al di là di ogni intento polemico e di qualsiasi tentazione ideologica, come non vedere una eco della raccomandazione di Beccaria nelle legislazioni che hanno abdicato alla tutela dell’essere umano concepito?
E come non pensare, in particolare, alla autentica ecatombe di embrioni umani che è intenzionalmente, colpevolmente, determinata dalle tecniche di fecondazione artificiale extracorporea? Proprio esse presuppongono che il concepito, giovanissimo essere umano, cessi di esser persona e diventi cosa, nelle mani del tecnico di laboratorio. Ecco perché il reato contro la persona è il più grave, e da corpo alla condotta che contraddice alla sua radice il sistema giuridico.
Una cosa è la valutazione compassionevole degli elementi soggettivi e delle circostanze attenuanti della condotta. Valutazione che spesso, in materie come l’aborto procurato o l’eutanasia, è assai opportuna, per non dire doverosa. Ma tutto questo non dovrebbe — come invece purtroppo avviene – portare alla progressiva rimozione della figura stessa del reato, alla sua trasformazione in fatto non punibile e, addirittura, in diritto riconosciuto alla persona. Pietà per chi uccide per un malinteso concetto di pietà non significa trasformazione di quella condotta in atto non punibile quando non addirittura lecito, o perfino doveroso.
Mondo cattolico, reato & diritto alla vita
In ogni caso, tutte le storture che si sono accumulate nella storia del diritto penale, la cui denuncia non può che trovarci assolutamente concordi, non possono autorizzare la svalutazione del significato altamente umano della categoria giuridica del reato, intesa come strumento di libertà e di difesa ordinata dei beni più importanti per una società organizzata.
Il primo effetto distorto di questo equivoco circa il significato e lo scopo del reato si è materializzato nel tentativo di ridurre il diritto penale a una materia esclusivamente tecnico-sanzionatoria, nella quale l’esperto giurista avesse il compito esclusivo di garantire la coerenza interna del sistema sanzionatone, si preoccupasse di dirimere per quanto possibile i problemi interpretativi, e si facesse garante di approntare un meccanismo adeguato in termini di efficacia della norma, rispetto alla condotta sociale.
Si tratta di una visione mortificante del diritto penale, che tende a marginalizzarne la rilevanza. La qualificazione di un fatto come reato viene, in questa prospettiva, affidata ad altre branche della scienza giuridica, come il diritto costituzionale. In questo modo, però, è come se si affermasse l’impossibilità per il diritto penale di operare una valutazione circa il contenuto della norma, limitandosi a un giudizio meramente formale della sua validità e coerenza al sistema.
È esattamente il punto di vista di Hans Kelsen e della sua Dottrina pura del diritto, che tanto successo ha incontrato nel ‘900 (10), ma che tante domande irrisolte ha lasciato sul tappeto, prima ancora che la bioetica risvegliasse in ogni uomo le grandi domande sul senso della norma giuridica e sul valore della persona umana nell’ordinamento giuridico democratico.
Se infatti la norma giuridica è valida a prescindere dal suo contenuto, chi o che cosa potrà impedire a uno Stato di legiferare in maniera oggettivamente ingiusta, calpestando i diritti fondamentali della persona? Con quali strumenti si potrà affermare che le norme razziali della Germania nazista sono – secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino — non più leggi ma corruptio legis?
Un fenomeno certamente deleterio che si è materializzato negli ultimi decenni è la prevalenza di un atteggiamento «buonista» e «perdonista» all’interno dello stesso mondo cattolico, nel quale si è fatta strada l’idea che punire e incarcerare sia di per sé anti-evangelico. Questa tendenza ha portato alcuni teologi e giuristi a negare il carattere retributivo della pena umana e soprannaturale: gli ideali di certi penalisti e di certi biblisti sono diventati un carcere e un inferno vuoti.
Questa idea però non trova alcuna conferma nel Magistero, che anzi stabilisce senza soluzione di continuità il carattere retributivo delle pene. Basti citare, a tale proposito, quanto scritto da Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae: «In effetti la pena che la società infligge ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l’imposizione al reo di un’adeguata espiazione del crimine, quale condizione per esser riammesso all’esercizio della propria libertà» (11).
È difficile comprendere come, di fronte a una simile chiarezza dottrinale, si possa mettere in discussione il carattere retributivo della pena, e la sua necessità come strumento di tutela del bene comune. La necessità di punire non può certamente essere negata quando un delitto comporta, come nel caso dell’aborto, l’uccisione deliberata di un innocente. Infatti, rinunciare a punire l’aborto significa legittimarlo e renderlo lecito, come è effettivamente avvenuto nella gran parte dei Paesi contemporanei. Ma non risulta da alcun passaggio della Evangelium Vitae che ciò sia giusto o condivisibile.
Un conto è discutere e negoziare l’entità e le caratteristiche della pena per il caso di aborto; e un altro conto è stabilire che la pena sia eliminata (12). Sostenere che l’aborto non debba più essere oggetto di una punizione in sede penale significa inevitabilmente divergere dalla chiara e inequivocabile dottrina contenuta nel Magistero della Chiesa, che infatti anche nell’ordinamento canonico tratta il delitto di aborto con particolare severità, prescrivendo la scomunica latae sententiae.
Quali fatti costituiscono reato?
Il dibattito bioetico, e il suo incrocio con la dimensione penalistica, ha il merito di obbligarci a riscoprire una domanda fondamentale per il giurista. Anzi, una domanda fondamentale per l’uomo in quanto tale: quali fatti costituiscono reato? Si tratta di una questione densa di implicazioni non soltanto tecnico-giuridiche, ma anche morali, filo-sofiche, antropologiche. Osserviamo che alla domanda in esame è possibile rispondere in uno dei seguenti modi:
a) Costituiscono reato i fatti che sono contemplati dalla legge come tali.
b) Costituiscono reato i fatti che, secondo l’opinione dei più e in base alla sensibilità del momento, sono percepiti come delitti.
c) Costituiscono reato i fatti che provocano una danno rilevante al benessere della maggior parte dei consociati.
d) Costituiscono reato i fatti che violano un bene fondamentale connaturale alla persona umana: la vita, la libertà e in generale i beni strumentali alla realizzazione completa dell’individuo.
a) Se si prende per buona la risposta del punto «a», si ottiene il risultato di circoscrivere la nostra riflessione al diritto così come esso è. È un’ottima risposta per l’operatore del diritto, che deve misurarsi con il diritto vigente. Ma se sposto il problema sul terreno dell’attività legislativa, mi accorgo dell’inadeguatezza di questa risposta. Infatti, potrei riformulare la domanda: se fossi il legislatore, intento a scrivere un nuovo Codice penale, con quali criteri sceglierei le fattispecie da inserire tra i reati? La dimensione positivistica non mi è di alcun aiuto. Genera, anzi, un cortocircuito logico che non soddisfa la ragione umana. In sostanza, sarebbe come dire: quella condotta è delitto perché la legge ha deciso che è un delitto.
b) Se si accetta la risposta del punto «b», si opera la sostituzione della recta ratio con le categorie del consenso popolare, dell’indagine demoscopica, della sensibilità mutevole e capricciosa dei più. Si tratta di una tendenza diffusissima nelle democrazie contemporanee, che decreta il trionfo dei filodossi. Ma essa orienta il sistema delle leggi, e quindi il catalogo dei reati, verso una pericolosa deriva emozionale, nella quale la capacità di manipolazione mediatica delle masse, l’assenza di punti di riferimento sicuri, la potenza delle lobby e dei potentati economici diventano le leve capaci di manipolare e incanalare i gusti della gente. Plasmando così a piacimento il diritto. La deportazione di un popolo, la tortura di un indagato, l’uso di un embrione come cavia di laboratorio diventano fatti in sé stessi insignificanti moralmente e giuridicamente: sarà l’opinione pubblica di quel luogo e di quel momento storico a rivestire di un senso – positivo o negativo: dipende dalla sensibilità e dalle circostanze – quel gesto.
c) Questa risposta è una possibile traduzione della visione utilitarista. Essa gode di crescente approvazione nell’opinione pubblica moderna, anche se spesso in maniera inconsapevole. E contraddittoria: la stessa persona è portata a ritenere delittuoso un sistema sanitario che, per risparmiare risorse scarse, taglia i fondi per categorie marginali e costose, per esempio vecchi «inutili»; ma nello stesso tempo quella persona giudica perfettamente lecito — e dunque non un reato – che un parente sopprima un congiunto «per il suo bene e per il bene di tutta la famiglia e la società, che hanno finito di soffrire».
d) Questa risposta ci pare ragionevole e adeguata alla delicatezza del problema. Dovrebbero costituire reato tutte e soltanto quelle condotte che costituiscono l’effettiva lesione di un diritto soggettivo individuale altrui, e non quelle che urtano contro la volontà – eventualmente arbitraria – del legislatore. Per usare le espressioni di Francesco Carrara, devono essere mala in se, e non semplicemente mala quia proibita (13). Questa idea presuppone il riconoscimento della legge naturale, cioè di un insieme di verità metagiuridiche che trascendono il sistema positivo, e che sono patrimonio di ogni uomo. È evidente che questa risposta è destinata a non lasciare tranquillo il giurista, né tanto meno l’uomo della strada. Perché obbliga a mettersi talvolta in conflitto con il diritto vigente, quando esso omette di qualificare come reati, atti umani che sono oggettivamente dei mala in se.
Diritto, verità & giustizia
Dunque: se i reati devono essere tutte e soltanto quelle azioni umane che sono male in sé, e ledono un diritto altrui, allora viene da chiedersi, specularmente: che cosa rende buona un’azione (14)? In genere, tutti coloro che agiscono hanno una buona intenzione. Nessuno vuole il male perché è male. Ma il punto è precisamente questo, anche da un punto di vista penalistico: benché rilevante, e in alcuni casi determinante, la buona intenzione non cambia in nulla l’eventuale ingiustizia di un’azione. Inoltre, chi potrebbe accertare la sussistenza di una buona intenzione?
Spesso è l’uomo stesso a rimuovere il male insito in una propria azione, e a convincere sé stesso che in fondo sta agendo solo per il bene di sé o di altri. Chi fa il male non sa quello che fa. O, meglio: nemmeno vuole saperlo (15). In bioetica, e nei reati di tale ambito, questa valutazione è assai spesso adeguata.
Di fronte a un dilemma morale tragico come l’aborto procurato, in genere quasi tutti concordano in un’astratta e generica presa di distanza da tale condotta. Ma il punto è che poi, nella circostanza concreta, si teorizza l’opportunità di far passare il bene morale in secondo piano, rispetto ad altre ragioni che possono essere o apparire anche fondate. Ma «il bene è proprio ciò che non può mai passare in secondo piano, mentre ogni singolo valore o contenuto deve poter passare in secondo piano in determinate circostanze» (16).
Il bene altro non è che l’ordine giusto, cioè adeguato alla realtà. Come scrive mirabilmente Robert Spaemann, l’azione buona è quella che tratta la realtà così come essa deve essere trattata. Nella maggior parte dei casi, infatti, ciò che dobbiamo fare, se vogliamo agire bene, risulta chiaramente dalla natura della cosa. È nella natura di una promessa che la si debba mantenere; è nella natura di un bambino – nato o non ancora nato – che lo si debba amare e rispettare; è nella natura della cosa che un paziente, ancorché sofferente e disperato, sia curato dal medico ma non venga ucciso per pietà.
A questi ragionamenti – ne siamo consapevoli – se ne possono opporre di ben diversi, che mirano a seppellire tutto sotto una coltre di relativismo polveroso. Identificando la verità con la soggettività. È una strada assai battuta, oggi. Ma terribilmente pericolosa. Come ricorda Albert Camus, quando nulla è vero o falso, buono o cattivo, si impone una regola: quella dell’efficacia. Cioè, la legge del più forte. Il mondo non si dividerà più in giusti e ingiusti (posto che tutti si appartenga poco o tanto a entrambe le categorie) ma in padroni e schiavi (17).
Secondo l’insegnamento di Callide, è preferibile commettere un’ingiustizia piuttosto che subirla. Dunque, il migliore è colui che domina sugli altri, il successo diventa criterio di verità, e allora il vero è ciò che è utile e che trionfa. Non è difficile ravvisare, in alcune derive del dibattito bioetico contemporaneo, una simile impoverente prospettiva. Dimenticando ciò che Aristotele già scriveva con lucido ragionamento 2500 anni fa: «È da stupidi dare lo stesso credito a opinioni e giudizi discordanti. È chiaro, di fatto, che o gli uni o gli altri sono necessariamente sbagliati».
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Dal Catechismo
«Corrisponde ad un ‘esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravita del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole». Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2266
Note
1) Per un’ampia trattazione tecnico-giuridica dell’argomento «reato» si rinvia a F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Giuffrè, Milano 1989, pp. 145-189.
2) Esistono numerose definizioni di bioetica. In generale, con questa espressione intendiamo riferirci a quella disciplina che si interroga sulla liceità delle condotte umane applicate alla scienza, alla biologia, alla medicina. La bioetica si domanda se una certa pratica – tecnicamente realizzabile – sia giusta; se cioè sia rispettosa della dignità della persona umana, con riferimento alla sua autentica natura. E la stessa bioetica ha fiducia nel fatto che la ragione umana possa trovare risposte vere a queste domande fondamentali, nel rispetto della realtà e dei criteri oggettivi indispensabili per esprimere giudizi di valore. Pensiamo per esempio al principio di non contraddizione; all’esistenza di una legge e di un ordine naturale; alla difficoltà ma anche alla necessità per ogni uomo di trovare una risposta autentica al suo desiderio di bene. Dunque, l’approccio bioetico riconosce come verità preliminare e indiscutibile che non tutto ciò che è tecnicamente realizzabile è per ciò stesso da realizzare. E che non tutte le affermazioni e le scelte sono legittime né si equivalgono. Tutte le persone sono rispettabili, ma non tutte le opinioni lo sono. Le opinioni degli alti ufficiali della Gestapo, per esempio, non erano degne di rispetto. Si tratta dunque di ragionare e di capire quali opinioni nel dibattito bioetico siano, appunto, rispettabili. E quali no.
3) Cfr M. Palmaro, Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, Edizioni San Paolo, Milano 20043, p. 72.
4) Si veda in proposito l’interessante Grafico di Wilkins, riportato da G. Losano, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai sistemi europei ed extraeuropei, Einaudi, Torino 1988, p. 86. Utile anche il grafico rielaborato sulla base dello studio di W. Evan, Il diritto come strumento del mutamento sociale, pubblicato in M. Palmaro, Ma questo è un uomo, cit, p. 71.
5) Si veda in proposito l’ottima analisi condotta da M.A. Cattaneo, Pena diritto e dignità umana. Saggio sulla filosofìa del diritto penale, Giappichelli, Torino 1990, pp. 34-40.
6) N. Machiavelli, Il Prìncipe, Commento di Raffaele Chiantera, Società Editrice Dante Alighieri, Firenze 1980.
7) Cfr M.A. Cattaneo, Persona e stato di diritto, Giappichelli, Torino 1990.
8) «La persona ha nella sua natura stessa tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Così Antonio Rosmini-Serbati, Filosofia del diritto, vol. I, cap. II, §§ 48-52, Padova 1969.
9) M.A. Cattaneo, Pena diritto e dignità umana, cit, p. 275.
10) H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1956.
11) Giovanni Paolo II, Evangelium Vìtae, n. 56. Si veda anche Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2266.
12) M. Palmaro, Ma questo è un uomo, cit, pp. 125-139.
13) M.A. Cattaneo, Francesco Carrara e la filosofia del diritto penale, Giappichelli, Tornio, 1988.
14) Prendiamo questa domanda, e gli spunti che seguono, da R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale Monferrato2001, pp. 101-113.
15) Ibidem.
16) Ibidem.
17) Hervé Pasqua, Opinione & verità. Sapienza, tecnologia, umanesimo da Pilato a Frankenstein, Ares, Milano 1994, p. 43.