di Flavio Felice (*)
Con l’articolo di Massimo Franco sul “Corriere della Sera” del 5 settembre è stata riproposta ad un vasto pubblico una delle vulgate più logore della storia del pensiero economico e politico: «Protestanti “rigorosi” del Nord, contro cattolici “lassisti” del Sud». Sia chiaro, al notista del “Corriere della Sera” andrebbe riconosciuto l’indubbio merito di aver registrato il sorgere di una polemica e di averla raccontata con stile e competenza.
Un miope opportunismo politico e la superficialità di analisi possono condurre ad argomentazioni quali quella del direttore del “Globalist”, Staphan Richter, secondo il quale, se Martin Lutero fosse stato presente a Maastricht nel 1992 avrebbe detto: «Leggete le mie labbra: nessun paese cattolico che non ha vissuto la Riforma protestante deve entrare nell’Euro».
Di fatto, le radici protestanti (anti-cattoliche) dello spirito del capitalismo, oltre a non essere dimostrate, c’entrano ben poco con il differenziale tra i titoli del debito pubblico tedesco e italiano, piuttosto che spagnolo. La Germania è un Paese ricco e operoso, dove la cattolica Baviera gioco il ruolo di locomotiva rispetto a Länder spiccatamente protestanti.
Per di più, nel processo di costituzione dell’Unione Europea, il cattolico Adenauer non provava alcun complesso d’inferiorità nei confronti del protestante Erhard ed entrambi collaborarono con economisti del calibro di Wilhelm Röpke e di Alfred Müller-Armack per dar vita alle prime istituzioni economiche comunitarie, evidenziando i caratteri della libertà (dinamismo dei mercati), della solidarietà (prendersi cura l’uno dell’altro) e della sussidiarietà (responsabilità) come cifra comune alla tradizione della dottrina sociale cattolica e alla teoria sociale evangelica.
A questo punto, credo sia più interessante capire i caratteri che stanno alla base di una simile vulgata e coglierne i punti deboli. Sotto il profilo storico, la disputa conosce un momento decisivo con la pubblicazione della celebre opera di Max Weber: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905).
Secondo Weber ci sarebbe una sostanziale corrispondenza tra lo spirito del capitalismo e lo spirito del protestantesimo calvinista. Esisterebbe per il sociologo tedesco una corrispondenza tra gli atteggiamenti tipici del protestante calvinista e quelli altrettanto tipici del capitalista. Si tratterebbe evidentemente di corrispondenze tra tipi ideali e non tra fenomeni empirici.
È lo stesso Weber a scrivere che «è pazzamente dottrinaria» la tesi secondo la quale «”lo spirito capitalistico” sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma».
Il nocciolo della teoria weberiana consiste nell’aver compreso la differenza sostanziale fra un tipo di “capitalismo patrimoniale”, caratterizzato dalla dipendenza da un’autorità morale o politica, e un tipo di “capitalismo razionale”, legato a procedure logiche e concrete, autonomo, aperto alle varie possibilità e regolato da leggi che premiano il merito.
La tesi di Weber giudica il sorgere dello spirito del capitalismo un segnale eloquente del passaggio definitivo dall’era tradizionale a quella moderna, rappresentato dall’ingresso nella storia di una nuova mentalità, una prospettiva calcolatrice e razionale, in forza della quale le azioni razionali appaiono come l’esito ponderato di un attento calcolo costi-benefici. Sicché, lo spirito razionale che identifica tale inedita fase dalla storia dell’umanità sarebbe caratterizzata dal divorzio definitivo tra eticità e razionalità.
Il dibattito aperto da Weber ha finito per coinvolgere sociologi, economisti, storici e teologi. Tra i profondi critici della vulgata weberiana, vorrei ricordare il compianto Oscar Nuccio, il quale nel suo volume Epistemologia dell’azione umana e razionalità economica nel duecento italiano: il caso Albertano da Brescia (Effatà, 2005) affronta il dibattito sul sorgere dello spirito del capitalismo e sul ruolo svolto dai giuristi civili dell’Italia basso medioevale al costituirsi delle moderne scienze sociali.
L’analisi del Nuccio si propone di cogliere i prodromi di alcune categorie economiche tipiche della moderna epistemologia economica, così da rendere ragione delle dinamiche dei processi di mercato. Ad esempio, un autore come Albertano da Brescia (giureconsulto che visse nel XIII secolo), riconosce Nuccio, pur essendo un uomo del Medioevo adotta un’analisi tutta moderna dell’“azione umana”, della “doppia legittimazione del lavoro e del profitto” e della “consacrazione etica dell’utile”.
A questo punto, possiamo chiederci provocatoriamente: se tutto ciò fosse fondato, che fine farebbe la consolidata vulgata weberiana, che tali meriti riconosce prioritariamente a Calvino ed ai Protestanti? A sostegno della tesi di Nuccio, in passato sono intervenuti il sociologo Luciano Pellicani, per il quale nessun medioevalista sarebbe disposto oggi ad accreditare la tesi che nel corso del Basso Medioevo non fosse già iniziato il processo di formazione di un autentico spirito capitalistico, ed il teologo cattolico Michael Novak, per il quale persino le abbazie benedettine finiscono per sconfessare la suddetta vulgata.
L’analisi di Pellicani tende ad individuare le cause che concorsero al sorgere della modernità nella forma di dominio che assunse la società europea durante il Medioevo, sintetizzabile nello “smembramento del potere pubblico” e nella “polverizzazione delle dominazioni locali sostituitesi alla Stato centralizzatore”: è interessante notare come per vie autonome anche Friedrich August von Hayek e Luigi Sturzo giunsero ad una simile analisi.
L’opera di autori apparentemente così distanti dalla modernità evidenzia la continua tensione a conciliare la vita contemplativa con la vita operativa, un uomo a tutto tondo che concilia la vir sapiens con l’homo faber.
È questa la prospettiva dalla quale è possibile muovere per comprendere criticamente l’analisi di Weber, il cui merito è indubbio: la tesi weberiana ha rappresentato uno stimolo a riflettere sul rapporto tra valori, cultura e modernità, superando la distinzione marxiana tra “struttura” e “sovrastruttura”. Tuttavia, la vulgata che ne è sorta si è rivelata fuorviante ai fini della spiegazione di come sia realmente emerso lo spirito del capitalismo e si presta ad essere utilizzata come una clava per far valere interessi nazionali tanto legittimi quanto parziali.
Cosa ancor più grave, dobbiamo riconoscere con mestizia, che essa è divenuta un alibi al quale intellettuali e politici nostrani spesso hanno fatto ricorso e continuano a ricorrere per pigrizia intellettuale ovvero per opportunismo politico.
Sembra che non vogliano o non sappiano aggredire i problemi sul fronte della qualità e del merito della nostra classe dirigente e della forma e della tenuta delle nostre istituzioni, nonché del ricambio della prima e della continua e necessaria riforma delle seconde: la risposta che uomini saggi e intellettualmente onesti danno, una volta preso atto della loro ignoranza e della loro fallibilità. Esattamente ciò che seppero fare insieme cattolici e protestanti in Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con buona pace di Martin Lutero.
(*) Flavio Felice è Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton e Adjunct Scholar all’American Enterprise Institute di Washington D.C.