Da Il segreto del viandante (Mondadori, 2003)
di Marcello Veneziani
Quante volte abbiamo sentito dire: ai giovani mancano i valori. E se fosse vero il contrario, che stanno annegando in un oceano di valori, in un mare soffocante di moralismo? E se il male venisse proprio dalla retorica sui valori? Spesso quei valori espressi in fiera, ai congressi, a scuola e in tv sono dei palloncini gonfiati, pieni d’aria, cioè di nulla. Sono la decorazione superflua di una realtà cinica che è la pura volontà di dominio. Sono la flatulenza del mercato, che non a caso impone i suoi valori che poi sono i prezzi. O l’ornamento di un nuovo, petulante moralismo, permissivo e intollerante.
Ma ai ragazzi funzionano più gli esempi che le lezioni. Esempi noti. Se si volesse sintetizzare in un’immagine il codice genetico dei Valori come sono oggi presentati ai ragazzi, non pensate a un libro, a una teoria, a un pensatore. Pensate a un cantante, a una canzone di portata planetaria. Per esempi Imagine di John Lennon, oggetto di culto riverito nel mondo e perfino nella politica, canzone di pace e di valori. Frughiamo dentro quell’inno oltre lo splendore della sua musica. Il messaggio dice: “Immagina che non ci sia il paradiso…e nessun inferno sotto di noi…Immagina la gente vivere per l’oggi…Immagina che non ci siano più patrie…Nessun motivo per cui morire o uccidere, nessuna religione…”.
Che splendida vacuità. Se si vive solo per l’oggi, senza più motivi per vivere e per morire, se non ci sono paradisi e inferni, anime e percorsi dopo la vita, se non c’è più dio, né patria, né radice, che farsene di quel guscio vuoto di valori, variamente battezzato per negazione (no alla violenza, no al razzismo, no alla guerra). Non restano che valori gonfiabili per poi viversi addosso come peggio si crede.
Negando la naturale vocazione a legarsi ad un’origine, ad un luogo, ad un senso, ad una religione, dove finirà quel potenziale umano se non alla ricerca di selvatiche parodie dell’origine, del senso e della religione? È quel che succede con la naturale esuberanza e aggressività, la naturale predisposizione al rischio; una volta negata, rimossa e non incanalata e incivilita in forme rituali e condivise, esplode nelle forme peggiori e gratuite.
Se negate ogni trascendenza alla vita, al presente, all’io, di che lagnarsi se poi un ragazzo resetta il mondo, perde il senso della realtà e lo confonde con il virtuale, e va ad abitare in un mondo a una piazza? Il loro egoismo nasce da quei “valori”, o perlomeno si nutre anche di quelli.
“Schiavi di ogni capriccio, legati ad ogni istante, vittime di ogni padrone, sitibondi nel fluire dell’acqua, affamati nella sovrabbondanza”; così scrisse un ragazzo, che si uccise a ventitré anni. Si chiamava Carlo Michelstaedter. Vuoi dire che i giovani di oggi sono peggiori dei giovani di ieri? No, è uno stupido luogo comune di ogni generazione imprecare contro la generazione successiva. Suppergiù sono come gli altri, non più scemi, non più cattivi, semmai un po’ più fragili e introversi. Ma le loro forme di espressione, i loro modi di essere, le loro valvole di sfogo, il loro patrimonio di conoscenze sono in quell’orizzonte sconfinato e chiuso.
Non ha senso cercare di chi è la colpa: essere innocentista o colpevolista, due modi d’essere cretini con giudizi a priori. È causa loro, della famiglia e della scuola, infine del mondo che li circonda, media in testa. Ma la cosa peggiore non è la scomparsa dei giovani come categoria sociale, come risorsa pubblica, e il loro diventare quasi invisibili; ma il loro appartarsi, il loro sconnettersi da ogni rete, da ogni legame, da ogni storia, da ogni linguaggio comune.
Terminali spenti. La cosa più terribile che si può dire di loro è questa, parafrasando Karl Kraus: vedendo un giovane oggi non mi viene in mente niente.