Chi era il commissario Calabresi?

calabresiTratto da Mio marito il commissario Calabresi  ed. Paoline, Milano 1990

di Gemma Capra

«So che in qualche posto vive»

Dopo l’assassinio di Gigi, il settimanale Epoca pubblicò un documento che definì «il testamento di Calabresi». Era il testo registrato di un intervento da lui fatto nel novembre 1966, due anni prima che ci conoscessimo, mentre frequentava a Roma il quarantaseiesimo corso di formazione per commissari di pubblica sicurezza, a una tavola rotonda organizzata dal periodico tra un gruppo di giovani «che contestavano la contestazione nascente».

«Per piacere», si era raccomandato Gigi «non pubblicate la mia foto, né il mio nome. Non ci tengo. Non mi piace mettermi in mostra. E poi, in fondo, sono già un poliziotto e i poliziotti sono pagati per lavorare, non per discutere».

Cosi precisava Epoca, che tuttavia, avendo per cosi dire in archivio lo «scoop», pubblicò per intero quella registrazione, riassunta, sei anni prima, «in una scarna sintesi».

Ai giovani che avevano partecipato al dibattito, era stato chiesto di dire la loro opinione su tre argomenti: il sesso e Ì rapporti di coppia, la sincerità, l’impegno sociale della gioventù.

Sul primo punto, Gigi aveva risposto cosi:

Ancora qualche settimana, e sarò commissario di pubblica sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuoi vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane. Ma riandando indietro con la memoria, per aver letto o sentito dire, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posi­zione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece quello che conta è il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e sull’altra il sesso.

Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente. Noi sentiamo forse più degli altri lo sfasamento, lo squilibrio, il turbamento, perché in ogni istante della giornata vediamo noi e vediamo gli altri, mettiamo noi stessi a confronto con gli altri; apparteniamo a due mondi che si scontrano, e perciò ci sentiamo in imbarazzo noi e si sentono in imbarazzo gli altri; in questo mondo neopagano il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che da alla sua vita non coincide con quello dei più. Ecco il turbamento di cui parlavo: sentiamo di vivere, tutto sommato, in un mondo non nostro, che tende ad escluderci, a sopprimerci.

Non c’è presunzione in quello che dico. Infatti noi non siamo una categoria di eletti: ci vuol altro Solo Dio sa chi sono i veri eletti. Però il mondo, così com’è, lo sentiamo ostile: i valori in cui crediamo non riflettono i valori che governano la vita degli altri.

Sentiamo però di avere un gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più completo, nella disillusione più amara. Il giovane cattolico, veramente cattolico, avrà le sue crisi passeggere, che però si risolveranno, perché c’è un aiuto di ordine superiore che s’innesta nella sua realtà e nella sua umanità. Dico di più: so bene che il laico e il pagano possono anche avere una rettitudine di fondo, una morale severa che addita loro obiettivi non edonistici; però se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi, quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la delusione. Io, per quanto posso, cerco di mettere in guardia i giovani su questo punto.

E non mi riferisco alle minoranze colte: per esempio, ai giovani comunisti, che vivono per una loro fede, rispettabilissima se è praticata sinceramente. No, mi riferisco a tutti gli altri giovani di cui si può parlare e che costituiscono la maggioranza amorfa.

Nella mia professione chissà quanti ne avvicinerò, e saranno probabilmente i portatori delle crisi più laceranti e più gravi; ciò dipende dal fatto che non si pongono problemi quando è il momento, seguono la filosofia del non-pensiero, e questo è un vero dramma, perché non si sa mai da che lato affrontarli, come prenderli.

Ho pratica di questi miei fratelli. Vedo la loro infelicità sopratutto in quel passaggio obbligato che è il rapporto fra i sessi. La sfera psichica che entra per prima in funzione non è quella dell’intelligenza (cioè capirsi, conoscersi), ma quella dell’affettività, che sta un pochino più in basso: vale a dire io piaccio a lei e lei piace a me, non ci poniamo molti problemi, stiamo insieme e basta, facciamo un po’ di strada e poi si vedrà.

Poi si vedrà? Non intavolano un discorso perché non gli fa comodo intavolarlo; il ragazzo e la ragazza tipo, oggi, hanno paura di discutere. Ma quando il momento arriva, quando i problemi inevitabilmente sorgono, è troppo tardi, non si sono mai conosciuti, non si sono mai intesi.

Per quanto mi riguarda, darò a mia moglie (io non so chi è, come si chiama, dove vive, ma so che in qualche posto vive) un amore cristiano; e avremo subito figli, e saranno molti, e li cresceremo.

Un medico mi diceva; si impara ad essere vecchi quando si è giovani, lo aggiungerei che si impara ad essere dei buoni coniugi quando ancora non si è sposati. È un problema che non si può affrontare e risolvere solo quando si presenta; presuppone uno sforzo, un allenamento, una preparazione che non si improvvisa.

Alla seconda domanda, quella sul nuovo spirito dei giovani e la loro sincerità, Gigi aveva risposto:

C ‘è chi dice: tra i giovani la sincerità è in aumento e prende il posto di antiche ipocrisie. Io non so, lo spero, può darsi; ma guardando intorno ciò che accade direi di no. Prendete i capelloni. Il capellone è un ragazzo che non sa come distinguersi e si distingue soltanto così, con le chiome e il vestito stravagante, perché non sa come altro fare e allora si fa vincere dalla moda, che è il conformismo dell’anticonformismo. Confrontiamolo, che so, con il clochard parigino.

In fondo si tratta nell’uno e nell’altro caso di una scelta. Però quella del barbone, del clochard, è talvolta una scelta meditata e ponderata, un rifiuto a integrarsi che arriva al termine di un processo di maturazione. La seconda, quella del capellone diciottenne o ventenne, che viene magari dalla miseria delle borgate, è una scelta non autonoma e non responsabile. È un fare così soltanto perché lo fanno gli altri, è un seguire la corrente; quindi, tra i due, è il clochard il più sincero.

È lui, semmai, che merita rispetto. Il capellone è soltanto il sintomo di un disagio collettivo, di una protesta confusa. Da poliziotto dovrò naturalmente servire lo Stato, far rispettare le leggi, difendere la società; però non è che questa società dove tutto è programmato, pianificato, mi piaccia. Perché ad esempio viene meno l’impegno individuale, e quindi la personalità ne esce diminuita. La personalità è rapportata all’impegno che uno si assume nella vita. Non assumendosi l’impegno, logicamente viene meno un adeguato sviluppo della personalità.

Infine, questa era l’opinione di Gìgi sul tema della partecipazione, allora tanto di moda:

Fra i popoli nordici, che vengono additati a modello di civiltà e dì democrazia, la situazione sociale dell’individuo è disastrosa, come dimostrano le statistiche dei suicidi, e quelle belle case bianche e sterilizzate dove vengono chiusi i vecchi. Non ci sono più affetti, il nucleo familiare è disgregato, è lo Stato che pensa a tutto, all’assistenza, ai disoccupati, ai malati, ai figli delle ragazze madri. Forse pensa troppo. E così viene meno l’impegno individuale, e la gente fa fallimento, perché poi non sa risolvere da sola il problema imprevisto.

Ma anche da noi, quanti ragazzi hanno modo di «sentire» davvero la famiglia? Questo sentimento si dissolve. E la colpa è qualche volta dei genitori, che vogliono sembrare giovani e moderni, ma certo è che fanno a gara coi figli, nell’uscire di casa, magari anche a Natale, e sono ridicoli, oltretutto. Il genitore deve fare il padre o la madre; quando vuole fare troppo l’amico o il fratello maggiore, sbaglia. Il figlio vuole avere un padre, cioè ben più di un amico. Vuole avere una guida che sappia pronunciare anche i suoi «no», quando sono motivati.

Per quanto mi riguarda prenderò esempio dalla natura. Osserviamo che cosa accade sull’orlo di un nido quando l’uccellino sta per spiccare il primo volo. Il genitore sa che il piccolo è ormai in grado di volare. Ha fiducia in lui e lo incoraggia. L’uccellino a sua volta ha fiducia nel genitore e segue il suo invito a prendere coscienza dei propri mezzi. Nella famiglia dell’uomo dovrebbe accadere la stessa cosa: amore, fiducia.

E i genitori dovrebbero prendere coscienza della tremenda responsabilità che si sono assunti procreando, cioè collaborando con Dio nella creazione, e tener presente questo in ogni istante della vita. Non è vero che si educa e ci si educa nello stesso momento, come sostiene una certa pedagogia che io rifiuto. L’uccello sa già volare quando insegna ai suoi piccoli come si dispiegano le ali. Cosi vorrò essere io con i miei figli, se la fortuna mi aiuterà.

Questo era Gigi, queste erano le sue idee. Devo dire che il ritratto che di lui usciva da quella lontana registrazione pubblicata da Epoca dopo la sua morte, corrispondeva bene all’uomo che avevo incontrato e che stava per diventare mio marito. Perciò ho voluto riproporlo ai lettori di questo libro.

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