Dice il vangelo di Giovanni (15, 18): «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me». E’ Cristo che parla. Profeticamente
di Rino Cammilleri
Il frate stigmatizzato del Gargano -è stato calcolato- versò dalle sue piaghe prodigiose, in ottant’anni di vita, il sangue di dieci uomini. E molti dei suoi biografi hanno sottolineato la singolare coincidenza: il governo eliminava i crocifissi dalle pubbliche pareti, e il Padreterno li rimpiazzava, a modo suo, con un crocifisso in carne e ossa la cui fama avrebbe abbondantemente coperto -e anche superato- la mancata «pubblicità» (o, per dirla in termini modernissimi, «perdita d’immagine») costituita dall’ablazione d’autorità del più venerato simbolo della civiltà occidentale.
L’accostamento di Padre Pio al crocifisso fu sempre chiaro a tutti i suoi devoti, tant’è che uno dei più illustri tra essi, lo scultore Francesco Messina, nella monumentale Via Crucis realizzata nei pressi del convento dove il Beato visse, diede al Cireneo proprio la faccia di Padre Pio, colui che portava la croce per quelli che non volevano o non riuscivano a portarla.
Oggi, a distanza di centotredici anni, la questione dei crocifissi nelle aule scolastiche è tornata a impensierire la cosa pubblica, e la Corte di Cassazione ha recentemente ammesso che, se a qualcuno dà fastidio, il crocifisso deve essere rimosso. Motivazione: «La libertà di coscienza è un bene costituzionalmente rilevante, e quindi deve essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuti nella scala di valori espressa dalla Costituzione italiana».
La sentenza dà ragione a un cittadino che si batte giudizialmente fin dal 1984, e il motivo del suo contendere è politico: le aule scolastiche finiscono per essere, a ogni tornata, sempre seggi elettorali. Magari, nell’entrare in cabina, all’elettore potrebbe cadere lo sguardo su quel crocifisso appeso al muro. Il che potrebbe fargli venire in mente lo slogan guareschiano «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no». Così, la paura dell’inferno cattolico potrebbe forzargli la mano e indurlo a votare per i «partiti d’ispirazione cristiana».
Certo, in tempi di bipolarismo, tale voto così «influenzato» non scalfirebbe la par condicio , visto che i partiti “cristiani” sono in ambedue i poli. Ma la questione è un’altra. Vanamente il Consiglio di Stato nel 1988 ha sentenziato che il crocifisso «rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana nella sua radice storica, come valore universale indipendente da una specifica confessione religiosa».
Avrebbe dovuto dirlo a Crispi, e a tutti quelli che, dopo di lui (e sono, come dice il vangelo, legione), hanno adito le vie legali perchè quel simbolo venisse bandito per sempre. Ci sono state persone che hanno affrontato processi su processi, spendendo tempo e denaro che forse sarebbero stati degni di miglior causa.
La cosa deve far riflettere. Capisco che si possa odiare il simbolo nazista o quello comunista: troppa gente ha sofferto per causa di essi. Ma il crocifisso? E’ sempre stato considerato, anche da chi non ci credeva, un segno di speranza e di conforto. Come spiegare, dunque, un’insistenza che, periodicamente, costringe lo Stato a prendere posizione anche quando non ne ha voglia? Forse bisogna ricorrere allo psicologo.
Magari all’esorcista. Comunque, c’è qualcosa di inquietante in tutta questa vicenda di insofferenza per un simbolo di sofferenza. La vista di quel cadavere appeso ha dato forza (e continua a darne) a generazioni di credenti. A qualcuno, però, è insopportabile. Perchè? Già, bella domanda. Da girare ai teologi.
Lo Stato moderno, con la sua proclamata aconfessionalità, si è condannato a due sole, paradossali, alternative: l’ateismo di legge, come nei regimi comunisti, o il riconoscimento di tutti i culti. Quest’ultima posizione complica le cose, perchè ci sono religioni che contemplano pratiche ripugnanti alla nostra mentalità. Sarebbe stato più sensato dire: signori, questo è un Paese culturalmente, storicamente e a schiacciante maggioranza cattolico; se non vi va bene, andate altrove. In ogni casa ordinata e pacifica, si cena tutti insieme quando torna il papà dal lavoro; se ognuno pretendesse di mangiare all’ora che gli pare sarebbe una trattoria, non una famiglia.
Ora, il governo dalemiano ha fatto in tempo a stipulare intese anche con una religione che religione non è (perchè è una filosofia), il buddhismo, e con un culto minoritarissimo come i Testimoni di Geova, qualificati ufficialmente come «culto cristiano» quando Cristo per i geovisti ha la stessa importanza che ha per gli islamici: è un profeta e basta. Le intese implicano accesso all’otto per mille fiscale, riconoscimento dei matrimoni celebrati con rito proprio, “cappellani” nelle carceri, sotto le armi e negli ospedali; eccetera.
Qualcuno, come la Norvegia, ha dovuto, per coerenza “laica”, spingersi anche più in là: avendo la municipalità di Oslo riconosciuto ai muezzin il diritto di far uso di altoparlanti per chiamare i musulmani alle preghiere quotidiane, ha dovuto operare analoga concessione nei confronti degli atei norvegesi, i quali hanno, adesso, tutto il diritto di proclamare ai quattro venti per via di megafono che Dio non esiste.
Cosa succederà nelle carceri, negli ospedali e nelle caserme? «Cappellani atei» ricorderanno ai malati, ai galeotti e alle reclute che farebbero meglio a godersi la vita, tanto nell’aldilà non c’è nulla? Al capezzale dei moribondi (oggi si dice «terminali», più asettico, più scientifico) arriverà un distinto signore che farà loro, praticamente, marameo? Dice il vangelo di Giovanni (15, 18): «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me». E’ Cristo che parla. Profeticamente.