Chi ha paura della terapia riparativa?

terapia_riparativaStudi Cattolici n. 581-82 luglio/agosto 2009

 di Roberto Marchesini

La terapia riparativa è, per sé, dannosa? È quello che sostengono le associazioni gay (1), ripetendolo come se fosse un fatto, una verità assodata e incontrovertibile, al punto da non ritenere necessario fornire elementi che possano fornire un sostegno o una verifica di tale affermazione.

Dovrebbe essere semplicissimo trovare testimonianze o studi scientifici che dimostrino, senza lasciare spiragli al dubbio, che la terapia cosiddetta riparativa provoca per sé, direttamente, dei danni a chi liberamente vi si sottopone. Purtroppo non è così facile trovare materiale e riferimenti per vagliare questa tesi. Tanto che. quando su You Tube (2) è comparso un filmato (3) nel quale un ex paziente del dottor Joseph Nicolosi (4) racconta la sua esperienza di fallimento della terapia riparativa. ha suscitato notevole clamore. Se questa è la norma, perché tanto entusiasmo?

Un filmato su You Tube

II filmato è stato realizzato in collaborazione con due bloggers gay italiani (5), e l’ex paziente è Daniel Gonzales, tra i coautori del sito Ex-Gay Watch (6), nato con lo scopo di smascherare le sempre più numerose testimonianze di persone che hanno cambialo orientamento sessuale. Pur essendo una unica testimonianza -e non uno studio a tappeto sui pazienti del dottor Nicolosi -, per di più da parte di un attivista gay, questo filmato è stato considerato la «prova» che la terapia riparativa non funziona.

Ovviamente, è assurdo, dal punto di vista logico, affermare che un tipo di terapia «non funziona» basandosi su un solo insuccesso (7): a nessun tipo di trattamento clinico medico o psicoterapeutico è chiesta una efficacia del cento per cento; anche l’aspirina a volte non funziona. Inoltre, lo stesso Nicolosi afferma che «questa terapia non è adatta a tutti gli omosessuali» (8) e, in un suo libro di casi clinici, riporta – atteggiamento tanto encomiabile quanto poco diffuso – un caso di fallimento terapeutico (9).

Cura & fede

Gonzales racconta, con toni accorati, del fallimento della sua terapia, e conclude la sua testimonianza con il danno che la terapia riparativa gli avrebbe causato: «Ma la cosa più tragica è stata la perdita della fede». Pur non avendo in sé alcuna rilevanza clinica, la perdita della propria fede religiosa è senz’altro un dramma ma, anche se non chiarisce il nesso Ira la perdita della fede e il fallimento della terapia riparativa, sul punto Gonzales è chiaro: è stato l’esito negativo del trattamento a causargli la perdita della fede, non è stata la terapia riparativa in sé.

Se dovessimo negare ai pazienti un trattamento psicoterapeutico perché, in caso di eventuale fallimento, si troverebbero ad affrontare il senso di delusione, avremmo decretato la fine della psicoterapia, e di qualsiasi altra attività di cura. La cosa paradossale è che Gonzales, con la sua testimonianza, sembra confermare una di quelle che lui chiama le «grandi bugie che portano le persone verso la terapia ex-gay», ossia «che non si può essere gay e cristiani».

Un raro – se non unico – esempio di pubblicazione clinica nella quale è possibile trovare qualche riferimento in seguito all’affermazione della pericolosità della terapia riparativa è costituito da un capitolo (10) – a dire la verità piuttosto imbarazzante per virulenza ideologica, ai limiti del delirio persecutorio – dedicato alla terapia cosiddetta «riparativa» scritto dallo psichiatra gay Paolo Rigliano.

L’autore fa riferimento, in una nota, a sei lavori che dovrebbero dimostrare le sue affermazioni; eppure, passando in rassegna gli articoli citati, si viene colti da un senso di delusione.

Pubblicazioni & attivisti Gay

1. Lee Beekstead, psicoterapeuta gay, riporta (11) gli esiti di due ricerche da lui condotte nel corso delle quali ha intervistato 50 persone (45 uomini e 5 donne), appartenenti alla comunità mormone dello Utah, i quali si erano sottoposti a terapie riparative. Secondo quanto rilevato da Beekstead, 20 di queste persone riferivano un cambiamento di orientamento sessuale da omosessuale a eterosessuale. Beckslead, alla fine del suo articolo, fa un breve accenno, senza citare alcun dato, ad «aumento di odio di sé, perdita della speranza, e paura, la quale ha indotto alcuni partecipanti a tentare il suicidio» (12) attribuendo queste sensazioni negative non tanto alla terapia riparati va in sé, quanto al suo fallimento.

2, Martin Duberman è professore di storia presso la City University of New York e attivista gay. Nel 1992 ha pubblicato, con il titolo Cures: a gav man’s odyssey (13), il diario che ha tenuto fin da quando aveva diciassette anni. Nel 2001, la rivista Journal of Gay and Lesbian Psychotherapy ha pubblicalo alcuni stralci (14) del suo libro di memorie. In questi brani Duberman narra di due tentativi di terapia riparativa, di diverse relazioni omosessuali e di vari problemi clinici, come depressione, ansia, epatite, herpes, non direttamente imputabili (soprattutto gli ultimi due) alla terapia riparativa.

3 Douglas Haldeman, psicologo, è un attivista gay. Nel suo articolo (15), Haldeman sostiene – senza sentire il bisogno di dare riferimenti che permettano di verificare le sue tesi – che il fallimento della terapia riparativa (e non la terapia in sé), «può essere denso» (16) di conseguenze emotive, per esempio «depressione, disfunzioni sessuali e turbamenti religiosi e spirituali» (17). Nello stesso articolo, tuttavia, l’autore aggiunge: «Non tutti i soggetti sembrano essere stati danneggiati dalla terapia riparativa. Non è infrequente, infatti, che alcuni riportino che un tentativo riparativo fallito ha avuto un particolare, indiretto effetto benefico» (18); e più avanti aggiunge che ciò che ha scritto «…non è per sostenere che tutte le terapie riparati ve siano pericolose, o che le professioni della salute mentale debbano tentare di fermarle» (19).

4. Lawrence Hartmann sostiene, in un breve articolo (20), che «molti professionisti della salute mentale che conosco considerano che la semi-autorizzata esistenza della “terapia riparativa” probabilmente danneggia milioni di persone gay non sottoposte a trattamento» (21) e aggiunge: «Persino se la “terapia riparativa” aiuta qualcuno in qualche modo, quasi certamente danneggia un numero di persone molto maggiore» (22) Escludendo che Hartmann intenda auspicare che un numero molto maggiore di persone con tendenze omosessuali si sottoponga alla terapia riparativa di quanti lo abbiano fatto finora, evidentemente l’autore desidera fare riferimento a un non meglio definito «danno politico», «probabiImente» (23) arrecato dall’esistenza della terapia riparativa alle battaglie degli attivisti gay. Questo, tuttavia, ha poco a che fare con eventuali danni direttamente infimi a persone che si sono sottoposte alla terapia riparativa.

5. Quello di Richard Isay, psicoanalista gay tra i principali riferimenti della Gay Affirmative Therapy (Gat) – che porta ad accettare le tendenze omosessuali indesiderate come innate, «naturali» e immodificabili – e il secondo racconto di esperienza personale citato da Rigliano. dopo quello di Duberman, il suo racconto (24) non è particolarmente illuminante a proposito di eventuali possibili danni causati direttamente dalla terapia riparativa. ma è molto interessante per capire le dinamiche soggiacenti le pulsioni omosessuali: distacco dal padre, senso dì inferiorità nei confronti di altri ragazzi, bassa autostìma…

6. Michael Schroeder e Ariel Shidlo hanno intervistato 150 persone che si erano sottoposte a una terapia riparativa, utilizzando il metodo del self-report retrospettivo. Il titolo originale della ricerca era «Terapie omofobiche: documentando il danno» (25); l’obiettivo iniziale dei due autori era quello – certamente non neutrale – di «…documentare effetti negativi o danni delle terapie riparative» (26). Lo studio era finanziato da una associazione di professionisti della salute mentale gay, la National Lesbian and Gay Health Association, e da una associazione che si batte per la promozione di diritti gay e lesbici, la National Gay and Lesbian Task Farce (27), inoltre, non si può dire che il campione fosse certamente rappresentativo: i ricercatori reclutarono i soggetti con un annuncio -pubblicato su siti e riviste gay -, che recitava: «Aiutateci a documentare i danni delle terapie omofobiche!» (28).

Dopo le prime interviste, tuttavia, i due autori si accorsero di qualcosa di inaspettato: «…abbiamo scoperto che alcuni partecipanti che riportavano la sensazione di essere stati feriti, riportavano anche quella di essere stati aiutati» (29); inoltre «Siamo stati contattati da partecipanti che riportavano esclusivamente benefici positivi» (30). Fu così che decisero di cambiare il titolo della ricerca con un più neutro «Cambiare l’orientamento sessuale: funziona?», e decisero di approfondire gli aspetti deontologici sperimentati dai pazienti nel corso delle terapie riparative.

Prove apparenti

In definitiva, le referenze indicate dal dottor Rigliano – in parte aneddotiche — sono ben lontane dal dimostrare qualsiasi eventuale danno causato direttamente dalla terapia riparativa a coloro che vi si sottopongono. Viene spesso citato, a sostegno della tesi che afferma la pericolosità della terapia riparativa. il documento denominato Position Statement on Therapies Focused on Attempts to Change Sexual Orientation (31), dell‘American Psychiatric Association (Apa). In realtà, in questo documento, si legge: «Attualmente, non ci sono risultati scientifici scientificamente rigorosi che determinino sia l’attuale efficacia che la pericolosità dei trattamenti riparativi» (32). Il documento si chiude con queste parole: «L’Apa incoraggia e sostiene la ricerca da parte del National Institutue of Menthal Health (Nimh) e della comunità accademica che si occupa di ricerca per indagare ulteriormente sui rischi e i benefici della terapia riparativa» (33).

La possibilità di cambiare

Per rispondere a quest’appello, il dottor Roben Spitzer – celebre per aver deliberato, negli anni ’70, l’eliminazione dell’omosessualità dal manuale diagnostico dell’Apa – decise di intervistare 200 persone (143 uomini e 57 donne) che si erano sottoposte a terapia riparali va almeno cinque anni prima: la maggior parte degli intervistati, che prima del trattamento avevano un orientamento esclusivamente omosessuale, non riposavano più attrazione per lo stesso sesso (34).

Ovviamente, questo studio venne attaccato ferocemente dalla comunità gay, e Spitzer, che fino alla pubblicazione del suo lavoro, era considerato una icona da parte del movimento per i diritti omosessuali, venne additato come omofobo. Certo, il suo studio era retrospettivo anziché prospettivo, e non era longitudinale (come quelli di Beekstead, Schroeder e Shidlo): ha esaminato un campione autoselezionato (ancora una volta, come hanno fatto Schroeder e Shidlo): sono certamente difetti in una ricerca, ma, in assoluto, difficilmente aggirabili. Tuttavia è bene ricordare che Spitzer non aveva intenzione di condurre uno studio prospettivo sull’efficacia del trattamento, ma semplicemente rispondere alla domanda «II cambiamento è possibile?»; e anche un solo caso documentato di cambiamento confuta l’affermazione secondo la quale il cambiamento non è mai possibile (35)

Oltre a dimostrare la possibilità del cambiamento. Spitzer indagò anche possibili danni causati dalla terapia riparativa: «Per i partecipanti il nostro studio, non c’è evidenza di danno. Al contrario, essi riferiscono che [la terapia] è stata utile in molti modi oltre al cambiamento di orientamento in se» (36).

Oltre al già citato documento dell’American Psychiatric Association, viene spesso citato a sostegno della pericolosità della terapia riparativa anche il documento dll’ American Psychological Association, intitolato Appropriate Therapeutic Responses? To Sexual Orientation (37)

In questo documento si legge: «Considerato che l’elica, l’efficacia, i benefici e il potenziale danno delle terapie che cercano di ridurre o eliminare l’orientamento omosessuale sono oggetto di un dibattito in atto nella letteratura professionale e sui media popolari […]», locuzione che. di per sé, non è una presa di posizione a sostegno della tesi secondo la quale la terapia riparativa sarebbe pericolosa.

Spitzer, Jones & Yarhouse

Questa affermazione è corredata da una nota con tre riferimenti («Davixon. 1991; Haldeman, 1994: Wall Street Journal, 1997»): come notano Stanton Jones e Mare Yarhouse, «I riferimenti inseriti nella risoluzione [… ] rimandano ad articoli concettuali o d’opinione dove autori individuali esprimono il loro punto di vista per concludere che tali terapie causano danno, o riferiscono aneddoti circa persone che conoscono o che hanno sentito lamentarsi di essere stati danneggiati da tali interventi. In ogni modo, alcuna evidenza scientifica di qualsivoglia danno è prodotta per sostenere l’affermazione che questi interventi causano danno» (58)

Come Spitzer nei confronti dell’invito all’‘American Psychiatric Association, anche Jones e Yarhouse hanno voluto dare il loro contributo verificando le affermazioni dell’American Psychological Associatio (59). Hanno messo a punto uno studio che fosse in grado fornire le maggiori garanzie di scientifici là, attraverso un disegno sperimentale prospettivo, longitudinale, con un campione ampio e rappresentativo della popolazione studiata e che utilizzasse i migliori strumenti di misura multifattoriali.

Hanno così selezionato 98 soggetti (72 uomini e 26 donne) prima che si sottoponessero al trattamento, per intervistarli tre volte, dopo il trattamento, dal 2000 al 2003, e utilizzando una serie di strumenti in grado di valutare l’identificazione di sé (come etero-sessuale, bisessuale o eterosessuale), l’orientamento sessuale e il comportamento sessuale.

Il benessere confermato

I soggetti hanno riportato un cambiamento favorevole nel 38% dei casi, un cambiamento in process per il 29% e nessun cambiamento per il 33%. Jones e Yarhouse hanno anche studiato eventuali danni provocati dalla terapia riparativa, partendo dall’ipotesi sperimentale che questo tipo di lavoro clinico sia dannoso.

Per rilevare i danni attesi. gli autori della ricerca si sono affidati a uno strumento standardizzato in grado di rilevare il disagio psicologico (il Sympton Check List-90-Revised); hanno verificato eventuali «danni spirituali» (come quello riportato da Gonzales) attraverso la Spiritual Well-Being Scale e la Faith Maturìty Scale; infine, hanno voluto analizzare i dati secondo la peggiore condizione sperimentale connessa all’ipotesi: se la terapia riparativa è dannosa, il livello di benessere del campione dovrebbe risultare più basso eliminando dall’analisi dei dati i soggetti che hanno abbandonato la terapia.

I risultati della ricerca hanno disconfermato completamente l’ipotesi sperimentale: non solo gli autori non hanno riscontrato alcun danno, ma al contrario la terapia riparativa risulta correlata positivamente con un incremento del benessere generale, sia psicologico che spirituale (in sintonia con gli esiti riscontrati da Spitzer).

Allarme nel mondo dei gay

Come si evince dal materiale analizzato, non esiste alcuna evidenza scientifica della pericolosità della terapia riparativa. I riferimenti che dovrebbero dimostrare tale pericolosità riguardano aneddoti riportati da delusi della terapia riparativa (40), oppure allarmi provenienti dall’ambiente gay. È bene ricordare che il termine gay, sebbene usato impropriamente per indicare tutte le persone con tendenze omosessuali, in realtà riguarda una minoranza di queste, ideologizzata (41) e identificata con una cultura e uno stile di vita (42).

Soprattutto queste fonti sembrano intendere il presunto danno provocato dalla terapia riparativa come «pericolosità sociale», confermando così la loro natura ideologica: «Commetteremmo un grave errore se sottovalutassimo l’estremo pericolo rappresentato dalla diffusione delle terapie riparative. Esse rispondono a esigenze, strategie, forze e strutture diffuse refrattarie al cambiamento e, soprattutto, portatrici di valori, certezze, ordine, rassicurazioni, valorizzazioni di sé. Tutt’altro che sprovveduti e inermi, i terapeuti che vogliono convenire gli omosessuali esprimono l’opposizione formidabile alla modernità e alla democrazia affettiva [sic] di ampi settori della popolazione, soprattutto statunitense, ispirati dai valori fondamentali della fede, del sacro e della giustezza di una natura concepita sempre secondo particolari schemi trasmessi da una determinata interpretazione della tradizione. [..,] I difensori della conversione non si limitano a presentare nella nuova forma di una ricerca scientifica sbagliata il pensiero persecutorio di sempre, ma rispondono a un disegno lucido e lungimirante. Essi vogliono lanciare una sfida fondamentalista al pluralismo, alla diversità, al processo di liberazione dalla morale monolitica, imponendo alla sfera politico-legislativa di restaurare l’Ordine sacro e naturale. Il fine è impedire che si esprima, anche in sede legislativa, la democrazia affettiva [sic] che oggi rappresenta il vero, nuovo fronte della liberazione gay e lesbica – cioè, semplicemente umana» (43).

Chi volesse lasciare alle sedi appropriate il dibattito politico-ideologico sulla «democrazia affettiva» e occuparsi del benessere delle persone, non mancherà di porsi gli stessi preoccupati interrogativi ai quali abbiamo voluto rispondere a proposito della terapia riparativa in merito a un altro tipo di terapia che riguarda le persone con tendenze omosessuali: la Gay Affìrmative Therapy.

Identità & norma

La Gay Affìrmative Therapy (Gat) è guidata «dalla convinzione che l’omosessualità è una condizione assolutamente normale e naturale. Il suo obiettivo clinico essenziale deve essere quello di aiutare la paziente [o il paziente] a liberarsi il più possibile dai conflitti che interferiscono con la sua capacità di vivere una vita gratificante in conciliazione con la propria identità» (44). Contrariamente a ciò che succede nei confronti della terapia riparativa, nessuno denuncia il fatto che la Gat incoraggia le persone con tendenze omosessuali ad assumere una identità e uno stile di vita che è ampiamente dimostrato essere pericoloso.

Rispetto agli eterosessuali, le persone con tendenze omosessuali sono più facilmente soggetti a depressione maggiore (45), ideazione suicidarla (46), disturbo d’ansia generalizzato, abuso di sostanze, disordine bordeline di personalità (47), schizofrenia (48), disturbo narcisistico di personalità (49). La ricerca più conosciuta circa la suicidalità omosessuale è quella di Remafredi. che ha dimostrato come i tentativi di suicidio nella popolazione giovanile siano più frequenti tra soggetti omosessuali che tra eterosessuali: tra gli uomini ha tentato di togliersi la vita il 28% dei soggetti omosessuali rispetto al 4% dei soggetti eterosessuali, e tra le donne il 20% contro il 15% (50).

Una maggior incidenza di pensieri suicidari e tentativi di suicidio sono sfati riscontrati anche tra la popolazione gay e lesbica in Italia: «…un terzo dei gay e un quarto delle lesbiche italiane hanno pensato qualche volta a [sic] togliersi la vita e che il 6% ha provato a farlo […]. Mancano dati che permettano un confronto rigoroso fra la popolazione omosessuale e quella eterosessuale. Ma quelli disponibili fanno pensare che, come avviene negli Stati Uniti, i tentativi di suicidio siano più frequenti fra gli omosessuali che fra gli eterosessuali e che le differenze siano più forti nel caso dei gay che in quello delle lesbiche» (51).

Omosessualità & suicidio

La lettura assiomatica che gli attivisti gay fanno di questi inconfutabili dati è univoca: è colpa dell’emofobia (52). La ricerca scientifica sembra, però, dimostrare altro. Un importante studio (53) ha confermato il malessere psichico della popolazione omosessuale: «I disturbi psichiatrici sono risultati prevalenti tra la popolazione omosessualmente attiva piuttosto che in quella eterosessualmente attiva. Gli uomini omosessuali hanno avuto, nell’ultimo anno, una prevalenza maggiore di disturbi dell’umore e di disturbi ansiosi rispetto agli uomini etero-sessuali.

Gli indici di prevalenza

Le donne omosessuali hanno avuto, nell’ultimo anno, una maggior prevalenza di disturbi da utilizzo di sostanze rispetto alle donne eterosessuali. Nel corso della vita gli indici di prevalenza riflettono identiche differenze, con l’eccezione dei disturbi dell’umore, che sono stati osservati più frequentemente nelle donne omosessuali piuttosto che in quelle eterosessuali. […] I risultati supportano l’ipotesi che le persone con comportamenti sessuali omosessuali corrono rischi maggiori per disturbi psichiatrici».

Questo studio è particolarmente significativo perché è stato condotto su un enorme numero di soggetti: oltre settemila (7.076), trai 18 e i 64 anni. Presenta inoltre una particolarità che lo rende decisamente interessante: è stato condotto in Olanda, Paese nel quale, per ammissione degli stessi autori, «il clima sociale nei confronti dell’omosessualità è da tempo e rimane considerevolmente più tollerante» rispetto a quello di altri Stati. In altri termini, persino in un Paese dove la cosiddetta «omofobia» è inesistente, le persone con tendenze omosessuali presentano un livello di benessere considerevolmente inferiore agli eterosessuali.

La ricerca è stata replicata qualche anno più tardi (54), e ha (nuovamente) evidenziato che l’omosessualità è significativamente correlata con suicidalità e disturbi mentali; nuovamente, gli autori sottolineano che «persino in un paese con un clima relativamente tollerante nei confronti dell’omosessualità, gli uomini omosessuali sono esposti ad un rischio suicidario molto più elevato rispetto agli uomini eterosessuali» (53).

Un dogma in pericolo

In conclusione, si ribadisce che non esiste, al momento, alcuna evidenza scientifica della pericolosità della terapia riparativa, anzi: questo tipo di terapia sembra associata a un certo aumento di benessere nei soggetti che vi si sottopongono.

L’avversione nei suoi confronti dimostrata da parte del movimento gav. sembra giustificata non tanto dal tentativo di proteggere la popolazione omosessuale da eventuali rischi (la Gat, che incoraggia ad abbracciare uno stile di vita evidentemente pericoloso, viene da essi sostenuta e diffusa), bensì da quello di togliere di mezzo la più evidente dimostrazione della falsità di uno dei dogmi gay: l’immutabilità (e quindi la «naturalità») dell’omosessualità.

La denuncia della pericolosità della terapia riparativa può quindi essere rubricata come terrorismo psicologico ideologicamente fondato, del quale le prime vittime sono le persone con tendenze omosessuali.

Note

1) Le parole «omosessuale» e gay non sono sinonimi. Mentre la prima indica una persona attratta in modo prevalente e stabile dalle persone del proprio sesso, la parola gay indica una persona che ha fatto della sua inclinazione una identità socio-politica, fonte di particolari diritti. I gay rappresentano una minoranza, seppur evidente e chiassosa, delle persone con tendenze omosessuali.

2) Sito che permette la condivisione di filmati: http://www.youtube.com/, consultato il 25/06/08.

3) http://www.youtube.com/watch?v=fOf HtCaubd8, consultato il 25/06/08.

4) Joseph Nicolosi, psicoterapeuta statunitense, tra i fondatori del Narth (National Association for Research and Therapy of Homosexuality. cfr http://www.narth.com/index.html, consultato il 13 luglio 2008.

5) http://unvotogay.blogspot.com/2007/03 /paziente-di-nicolosi-la-terapia-per.html;

http://daw.ilcannocchiale.it/?id_blog-doc=1413240 , consultati il 13 luglio 2008.

6) http://www.exgaywatch.com/wp/ , consultato il 13 luglio 2008.

7) In rete esistono anche testimonianze di persone che hanno cambiato orientamento sessuale; per esempio http://www.you-tube.com/watch?v=6G-nB4-XBGY, consultato il 13 luglio 2008.

8) Joseph Nicolosi, Oltre l’omosessualità. Ascolto terapeutico e trasformazione, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, p. 15.

9) Cfr ivi, pp. 151-168.

10) Paolo Rigliano, Le terapie riparative tra presunzioni curative e persecuzione, in P. Rigliano, Margherita Graglia (a cura di), Gay e lesbiche in psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, pp. 143-207.

11) A. Lee Beckstead, Understanding the Self-Reports of Reparatìve Therapy «successes», in «Archives of Sexual Behavior», vol. 32, n. 5, pp. 421-423; in Jack Drescher, Kenneth J. Zucker, Ex-gay Research. Analyzing the Spitzer Study and Its Relation to Science, Religion, Politics, and Culture, Harrington Park Press, New York (Ny) 2006, pp. 75-81.

12) Ivi, p. 79.

13) Martin Duberman, Cures: a gay man’s odyssey, Plume, New York (Ny) 1992.

14) M. Duberman, Excerpts from Cures: a gay man’s odyssey, in «Journal of Gay and Lesbian Psychotherapy», vol. 5, n. 3-4, 2001, pp. 37-50; in Ariel Shidlo, Michael Schroeder, Jack Drescher, Sexual conversion therapy. Ethical, clinical and research perspectives, The Haworth Medical Press, Binghamton (Ny) 2001, pp. 37-50.

15) Douglas C. Haldeman, Therapeutic Antidotes: Helping Gay and Bisexual Men Recover from Conversion Therapy; in «Journal of Gay and Lesbian Psychotherapy», vol. 5, n. 3-4, 2001, pp. 117-130; in A. Shidlo, M. Schroeder, J. Drescher, Sexual conversion therapy. Ethical, clinical and research perspectives, op. cit, pp. 117-130.

16) Ivi, p. 120.

17) Ivi.

18) Ivi, p. 120.

19) Ivi, p. 128.

20) Lawrence Hartmann, Too Flawed: Don ‘t Publish, in «Archives of Sexual Behavior», vol. 32, n. 5, pp. 436-438; in J. Drescher, K. J. Zucker, Ex-gay Research. Analyzing the Spitzer Study and Its Relation to Science, Religion, Politics, and Culture, op. cit., pp. 125-129.

21) Ivi, p. 127.

22) Ivi.

23) Ivi.

24) Richard A. Isay, Becoming Gay: A Personal Odyssey, in «Journal of Gay and Lesbian Psychotherapy», vol. 5, n. 3-4, 2001, pp. 51-67; in A. Shidlo, M. Schroeder, J. Drescher, Sexual conversion therapy. Ethical, clinical and research perspectives, op. cit., pp. 51-67. 25 M. Schroeder, A. Shidlo, Ethical Issues in Sexual Orientation Conversion Therapies: An Empirical Study of Consumers, in «Journal of Gay and Lesbian Psychotherapy», vol. 5, n. 3-4, 2001, pp. 131-166; in A. Shidlo, M. Schroeder, J. Drescher, Sexual conversion therapy. Ethical, clinical and research perspectives, op. cit., p. 135.

26) Ivi.

27) Ivi.

28) http://www.narth.com/docs/PhelanRe-portSummaryFact.pdf, consultato il 25/06/08; cfr Stanton L. Jones, Mark A. Yarhouse, Ex-gays? A Longitudinal Study of Religiously Mediated Change in Sexual Orientation, InterVarsity Press, Downers Grove (II) 2007, p. 84.

29) Ivi.

30) Ivi.

31) Commission on Psychotherapy by Psychiatrists (Copp), American Psychiatric Association, Position Statement on Therapies Focused on Attempts to Change Sexual Orientation, in «American Journal of Psychiatry» n. 157, 2000, pp. 1719-1721.

32) Ivi.

33) Ivi.

34) Robert L. Spitzer, Can Some Gay Men and Lesbians Change Their Sexual Orientation? 200 Participants Reporting a Change from Homosexual to Heterosexual Orientation, in «Archives of Sexual Behavior», vol. 32, n. 5, pp. 403-417; in J. Drescher, K. J. Zucker, Ex-gay Research. Analyzing the Spitzer Study and Its Relation to Science, Religion, Politics, and Culture, op. cit., pp. 35-63.

35) Cfr S. L. Jones, M. A. Yarhouse, Ex-gays? A Longitudinal Study of Religiously Mediated Change in Sexual Orientation, op. cit.. p. 91.

36) R. L. Spitzer, Can Some Gay Men and Lesbians Chance Their Sexual Orientation 200 Participants Reporting a Change from Homosexual to Heterosexual Orientation, op. cit.; in J. Drcscher, K. J. Zucker, Ex-gay Research. Analyling the Spitzer Study and Its Relation to Science, Religion, Politici, and Culture, op. cit.. p. 57.

37) http: // www.apa.org/pi/lgbc/polici/appropriate.html consultato il 13 luglio 2008.

38) S. L. Jones, M. A. Yarhouse, Ex-guys? A Longitudinal Study of Religiously Mediated Change in Sexual Orientation, op. cit.,p. 101.

39) Ivi.

40) Le narrative degli ex hanno un loro posto nello studio di qualsiasi gruppo religioso o sociale: a patto però – come hanno chiarito fra gli altri gli studi di David Bromley e di Bryan R. Wilson – di considerarle come narrative socialmente costruite da apostati il cui genere letterario è normalmente la storia di atrocità. L’ex ha diritto al rispetto e a fare intendere la sua voce, ma un’opera che si pretende scientifica dovrà mettere a confronto la sua narrativa con quelle di altri (coloro che nella comunità sono rimasti e si trovano bene, le persone che intessono con la comunità a titolo diverso relazioni sociali, gli osservatori esterni) e non pretenderà di ricavare la verità dall’uso ossessivo di questo solo tipo di narrativa. Per sapere se le navi normalmente conducono in porto non è saggio chiedere la loro opinione soltanto ai naufraghi» (http://www.cesnur.org/testi/naufraghi.html . consultato il 18/07/2008).

41)  Cfr Marshall Kirk, Hunter Madsen. After the ball, How America will conquear its fear & hatred of Gays in the 90’s, Plume, New York 1990; cfr Roberto Marchesini, «After the ball: un progetto “.gay» dopo il baccanale, in «Cristianità», n. 327, gennaio-febbraio 2005, pp. 7-11.

42) Cfr S. L. Jones, M. A, Yarhouse, Ex-gays? A Longitudinal Study of Religiously Mediated Change in Sexual Onentation. op. cit.. p. 3S.

43) P. Rigliano, Le terapie riparative tra presunzioni curative e persecuzione, in P. Rigliano, M. Graglia (a cura di). Gay e lesbiche in psicoterapia, op. cit., p. 201.

44) Antonella Montano. Psicoterapia con clienti omosessuali. McGraw-Hill, Milano 2000. p. 137. Cfr Roberto Del Favero, Maurizio Palomba, Identità diverse. Psicologia delle omosessualità. Counselling e psicoterapia per gay e lesbiche. Edizioni Kappa, Roma 1996.

45) D. Fergusson, L. Horwood. A. Beautrais. Is sexual orientation related to mental health problems and suiciddality in young people?, in «Archieves of General Psychiatry», vol. 56, n. 10, 1999. pp. X76-888. Fergusson ha dimostrato che soggetti gay, lesbiche e bisessuali hanno tassi significativamente superiori, rispetto al campione eterosessuale, di ideazioni suicidarie (67,9% contro 29,0%], tentativi di suicidio (32.1% contro 7.1%) e tra i 14 e i 21 anni, di disordini psichiatrici (depressione maggiore 71.4% contro 38,2%, disturbo d’ansia generalizzata 28,5% contro 12,5%, disturbo della condotta 32,1% contro 11.0%, dipendenza da nicotina 64,3% contro 26.7%. abuso e dipendenza da altre sostante 60,7% contro 44,3%).

46) R. Herrell. J. Goldberg, W. True, V. Ramakrishan. M. Lyons. S. Eisen, M. Tsuang. A co-twin control study in adult men: sexual orientation and suicidality, in «Archieves of General Psychiatry», vol. 56, n. 10. 1999. pp, 867-874.

47) J. Parris, H. Zweig-Frank. J. Guzder. Psychological factor associated with homosexuality in males with bordeline personality disorder, in «Journal of Personality Disorder». voi. 9, n. Il, 1995. pp. 56-61 («È interessante notare che 3 pazienti borderline omosessuali su 10 riferiscono anche di incesti padre-figlio», p. 59); G. Zubenko. A. George. P. Soloff. P. Schub. Sexual practices among patients with with derline personality disorder, in «American Journal of Psychiatry», vol. 144, n. 6. 1987, pp. 748-752 («L’omosessualità era dieci volte più frequente tra gli uomini e sei volte tra le donne con disordine borderline di personalità piuttosto che nella popolazione generale o in un gruppo di controllo con soggetti depressi», p. 748).

48) John C. Gonsiorek. The use of diagnostic concepts in working with gay and lesbian populations, in Homosexuality and Psycotherapy, Haworth. New York (Ny) 1982, pp. 9-20.

49) Gustav Bychowsky, The structure of homosexual acting out. in «Psychoanalytic Quarterly». n. 23. 1954. pp, 48-61; E. Kaplan, Homosexuality. A search for the ego-ideal. in «Archieves of General Psychology». n. 16, 1967, pp. 355-358.

50) Gary Remafredi, Risk factors far attempted suicide in gay and bisexual youth. in «Pediatrics», 1991, pp. 869-875.

51) Marzio Barbagli. Asher Colombo. Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia. Il Mulino, Bologna 2007, pp. 61-62. Cfr Chiara Bertone. Alessandro Casiccia. Chiara Saraceno, Paola Torrioni, Diverbi da chi? Gay. lesbiche, transessuali in un’area metropolitana, Guerini e associati. Milano 2003, pp. 195-197.

52) Cfr R. Marchesini, // feticcio (omosessuale) dell’omofobia, in «Studi cattolici», n. 528, febbraio 2005, pp. 112-116.

53) Theo G M. Sandfort. Ron de Graaf, Rob V. Bijl. Paul Schnabel, Same Sex Sexual Behavìour and Psychiatric Disorders, «Archives of General Psychiatry», vol. 58, gennaio 2001. pp. 85-91.

54) Ron de Graaf. Theo G. M. Sandfort, Margreet ten Have, Suicidality and Sexual Orientation: Dìfferences Between Men and Women in a General Puputation Based Sample From The Netherland, «Archives of Sexual Behavior», vol. 35. n. 3, 1 giugno 2006. pp. 253-262.

55) La ricerca ha preso in considerazione anche l’effetto interattivo della «discriminazione percepita».

L’argomento prosegue su Studi cattolici n.583/2009

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