L’innovazione controproducente delle “ministranti femmine”, ministri straordinari dell’Eucaristia fuori controllo, I sacerdoti “attori”: Monsignor Malcolm Ranjith, segretario della Congregazione del Culto Divino, fotografa alcune diffuse derive liturgiche.
di Andrea Galli
Eccellenza, qual è la posizione della Chiesa riguardo alle ministranti femmine, alle chierichette, che nel giro di pochi anni si sono diffuse a macchia d’olio in tutte le 14 diocesi italiane?
«Si tratta di una prassi diffusasi in diversi Paesi, nata nell’atmosfera di una rivendicazione di pari diritti tra uomo e donna, un movimento di opinione che accanto a punti condivisibili ne presenta altri che possono essere problematici. La Congregazione ha pubblicato nella sua rivista Notitiae, nel numero di gennaio-febbraio 2002, una lettera inviata ad un vescovo in cui non si opponeva a tale prassi, ma ne parlava con toni cauti. Voleva che il vescovo, esercitando il suo ruolo di moderatore della liturgia nella sua diocesi, giudicasse bene la situazione locale, la sensibilità dei fedeli e le ragioni per introdurre le chierichette.
Nei Paesi in cui questa abitudine si è radicata si è infatti notato negli anni un aumento delle femmine fra i ministranti e una corrispondente diminuzione dei maschi. Questo probabilmente perché durante l’infanzia e la prima adolescenza molti maschi non si sentono a loro agio nello svolgere il servizio all’altare insieme alle coetanee femmine. Ma se si pensa che il servizio all’altare è sempre stato un momento molto importante per la nascita di vocazioni – è lì che un bambino percepisce, spesso in modo molto profondo, l’importanza dell’Eucaristia e il mistero della liturgia – si può capire quale sia l’effetto negativo di questo allontanamento dei maschi dall’altare.
Difatti nella lettera sopra citata la Congregazione, alludendo ad una sua precedente lettera circolare sull’argomento, ricordava «l’obbligo di promuovere gruppi di fanciulli ministranti, non da ultimo, per il ben noto aiuto che, da tempo immemorabile, tali iniziative hanno assicurato nell’incoraggiamento di future vocazioni sacerdotali» (Litterae Congregationis, Prot. N. 2451/00/L del 27 luglio 2001, in Notitiae 38 [2002] 48).
Essa raccomandava di consultare la Conferenza Episcopale, anche se il parere di quest’ultima non doveva togliere «la necessaria libertà di azione del singolo vescovo diocesano» (Ibid. p. 47). Inoltre, non si può dire che il maggior protagonismo delle bambine incrementi le vocazioni femminili alla vita consacrata: al contrario, l’esperienza insegna che dove si è diffusa questa pratica le vocazioni femminili sono calate ancor più della norma. In sostanza, anche solo per una ragione di prudenza o lungimiranza pastorale, direi che questa prassi è da scoraggiare».
Accanto alla “novità” delle chierichette, si nota sempre più spesso una sciatteria nel servizio all’altare dei chierichetti in generale.
«Questo è un riflesso della crisi del senso della liturgia fra il clero, che è il vero problema. Non sono ovviamente i ministranti a decidere come devono vestirsi, come devono atteggiarsi, cosa devono fare. Il servizio del ministrante, quando io ero un ministrante, era curato con grande scrupolo dai sacerdoti. Si organizzavano dei ritiri appositi, c’erano prove rigorose prima delle cerimonie, ecc. Se un sacerdote ama il proprio sacerdozio si impegnerà nel curare la liturgia in tutti i suoi aspetti, compresa la formazione dei ministranti. Se non ama il proprio sacerdozio, che è incentrato sull’evento eucaristico, avrà un atteggiamento superficiale e approssimativo per quanto riguarda la liturgia. E ciò è una vera disgrazia per la Chiesa».
Un’abitudine che si è diffusa tra i sacerdoti che celebrano con il Novus Ordo è quella di intercalare con propri commenti o battute qualsiasi momento della Messa.
«Qui c’è un problema che va al di là del protagonismo o del carattere estroso del singolo sacerdote: l’essere rivolto verso il popolo fa sì che il sacerdote si senta e sia percepito come il protagonista principale della Messa. È un po’ come se salisse su un palcoscenico e si mettesse di fronte al pubblico: l’esigenza di soddisfare la platea diventa spontanea, è una dinamica psicologica. A questo punto, però, l’assemblea rischia di trasformarsi in un raduno puramente umano, dove l’elemento divino passa in secondo o terzo piano.
D’altronde quella di celebrare rivolti verso il popolo non è stata un’indicazione del Concilio e si può dire, dopo ormai molti anni, che ha causato diversi problemi per la liturgia. Penso che bisognerà fare qualcosa a questo riguardo. Ci possono essere certamente delle parti della Messa in cui il sacerdote si rivolge al popolo, come le letture o l’omelia, ma bisogna recuperare quell’orientamento al Signore che il Santo Padre ci sta indicando con la reintroduzione del crocifisso sopra l’altare. Nell’essere rivolto al Signore insieme all’assemblea, il sacerdote smette di essere l’attore principale sul palcoscenico e diventa un umile servo di fronte a Dio.
Se non si fa questo cambiamento, il problema del celebrante che cerca di accattivarsi la simpatia dei fedeli e che improvvisa, insomma il problema di una liturgia “do it yourself” (fai da te) continuerà. Allo stesso tempo, mi permetta una sottolineatura, è necessario tornare ad insegnare anche ai fedeli cos’è la liturgia, è necessario spiegare loro perché il sacerdote attore o presentatore, che va di qua e di là durante la Messa con la chitarra al collo o il microfono in mano, e che magari a loro piace, è una figura che non ha nulla a che fare con la liturgia cattolica. Il protagonista principale di ogni atto liturgico non è nessun altro che Cristo, perché, come definisce la Sacrosanctum Concilium, la costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, la liturgia è “Actio Christi Sacerdotis” (SC 7)».
Può dirci qualcosa sugli avvisi dopo la Messa, che sembrano diventati a tutti gli effetti una parte della liturgia romana?
«Qui va seguito il buon senso. Direi che la cosa migliore è verificare se questi avvisi possono essere fatti appena prima dell’inizio della Messa, magari da un laico, oppure attraverso l’uso di notiziari o bollettini parrocchiali. Se non si possono adottare queste soluzioni, nel leggere gli avvisi dopo la comunione bisognerà usare sobrietà e poche parole».
In molte parrocchie si nota un uso regolare dei ministri straordinari dell’Eucaristia nel distribuire la comunione durante la Messa. Non si tratta di un abuso?
«Le norme emanate dalla Congregazione nel gennaio 1973, Immensae Caritatis, sono chiarissime: il ministro ordinario della comunione è il vescovo, a seguire il sacerdote e il diacono, (C/C 910 §1). Ministro straordinario può essere un accolito o un lettore, un seminarista, un religioso o una religiosa. Il catechista o un fedele, uomo o donna, lo possono diventare solo dopo un’apposita formazione e uno speciale permesso/mandato del vescovo. Ma, una volta che lo sono diventati, devono attenersi al loro ruolo, che è appunto straordinario.
Intanto devono presentarsi all’altare vestiti in modo decoroso, ma soprattutto non devono distribuire la Comunione là dove non ce ne sia strettamente bisogno. Come dice il documento sopra citato, tale ministero viene esercitato solo se manchino il presbitero, il diacono o l’accolito, se non possono distribuire la Santa Comunione perché impediti da un altro ministero pastorale, o perché vecchi o malati, e se i fedeli desiderosi di comunicarsi sono talmente tanti da far prolungare in modo eccessivo la Messa.
Devo dire che a questo riguardo spesso non si vede molta serietà. Capita di assistere a Messe con 50 parrocchiani e 4 o 5 ministri straordinari dell’Eucaristia che corrono all’altare al momento della distribuzione della Comunione, con il sacerdote che magari delega a loro il compito: una prassi completamente erronea. I ministri straordinari, lo dice il nome, devono essere impiegati in occasioni davvero eccezionali. E non tutti insieme».
Ci può ricordare quali sono i modi opportuni per comunicarsi?
«Quando ci si comunica stando in piedi, le norme stabiliscono che prima di ricevere il sacramento si faccia un atto di reverenza (Institutio Generate Missalis Romani, 160), per esempio un inchino o una genuflessione: perché non si sta andando a prendere un pezzo di pane, ma a ricevere Cristo in persona. La prassi più opportuna resta comunque quella di ricevere la comunione in bocca e preferibilmente in ginocchio, come il Santo Padre ci sta mostrando nelle liturgie che presiede.
Quando un thailandese va dal suo re deve andarci in ginocchio, anche se è il primo ministro del Paese. Così se un giapponese viene ricevuto dall’imperatore, gli si avvicina con un alto senso di riverenza, dopo aver fatto inchini su inchini. Gesù Cristo è il Re dei re, il Signore Onnipotente. Ci si domanda: non si merita lui più di tutti un gesto di amore e riverenza?».