Colloquio con Gaetano Quagliarello
a cura di Nicola Guiso
Alcuni dei temi di maggiore spessore religioso e culturale trattati da Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti al convegno ecclesiale di Verona dello scorso ottobre sono stati commentati dal prof. Gaetano Quagliariello nel corso di una conversazione con Nicola Guiso. Gaetano Quagliariello – eletto nell’aprile 2006 senatore per FI – ha insegnato storia contemporanea all’Università Luiss Guido Carli di Roma dove ha diretto il dipartimento di scienze storiche e sociopolitiche; dal 2001 al 2006 è stato assistente culturale del presidente del senato Marcello Pera. E’ presidente della Fondazione Magna Carta. Fra i suoi libri La legge elettorale del 1953 (Il Mulino 2003), De Gaulle e il gollismo (Il Mulino 2003) e Cattolici, Pacifisti, Teocon (Mondadori 2006)
Al fine di rafforzare quelle radici il papa ha, pertanto, invitato i cattolici italiani ad “aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia”. Si sente coinvolto in quei giudizi e in quell’auspicio del papa nelle sue vesti di storico e di presidente della fondazione Magna Carta?
Sì, mi sento coinvolto, come mi sentivo coinvolto dagli scritti che su questo stesso tema aveva prodotto l’allora cardinale Ratzinger, quando ha fatto un appello ai non credenti a vivere come se Dio esistesse. Ed è per questo, tra l’altro, che la fondazione Magna Carta ha promosso una pubblica discussione sul discorso di Verona chiedendo a trenta intellettuali, credenti e non credenti, o credenti in altro – penso che su questo punto sia necessario aggiornare la terminologia, e non usare più la vecchia contrapposizione tra laici e cattolici, là dove laico non equivale a non credente – di commentare quel discorso.
Abbiamo preso l’iniziativa proprio perché io credo che quel discorso ha qualcosa di emblematico; ed è per l’appunto lo sforzo della chiesa di mettere in rilievo quanto del patrimonio cristiano sia patrimonio di una civiltà, ed abbia quindi un valore che prescinde dall’ambito più ristretto del gregge dei fedeli. E penso che questo – il cardinale Ratzinger lo spiegò benissimo – sia eventualmente anche uno strumento per ingrandire quel gregge, senza però che questa prospettiva abbia nulla di scontato o di obbligatorio.
Ha aperto il suo saggio “Cattolici, Pacifisti, Teocon” con una riflessione di Salvemini sul valore del suggerimento, che prima ha ricordato, di Pascal anche a chi non crede in Dio di vivere come se esistesse, più volte richiamato positivamente da Joseph Ratzinger. Nel saggio inoltre ha ricordato le radici cattoliche e liberali della sua famiglia. Quanto deve a quelle radici e quanto alla suggestione del suggerimento di Pascal il suo interesse di storico per la dottrina e la tradizione cattolica attualizzate da Benedetto XVI?
Per quanto concerne le radici sia cattoliche che liberali della mia famiglia credo di dovere ad esse molto, ed anche qualcosa che prescinde il punto in oggetto; si tratta di un patrimonio che ciascuno di noi si porta dentro di se, e del quale ha una consapevolezza limitata. Vi sono poi nella vita di ognuno degli eventi particolari, che credo obbligati, che portano questo patrimonio alla luce, e ti chiamano a delle scelte, e comunque a quella di riconoscerlo o meno o di riconoscerlo parzialmente. E’ questo un percorso esistenziale che io ho fatto con il massimo di onestà intellettuale che mi era consentito.
Posso chiederle quale sia stato l’evento particolare che l’ha spinto alle scelte di cui parliamo?
Per quel che mi concerne è stata la morte di mio padre. Per quanto riguarda invece Pascal e quanti ne hanno seguito le tracce, non vi è dubbio che quelle letture erano in me presenti da tempo ed ora si sono attualizzate. Pascal l’ho conosciuto direttamente ed anche filtrato attraverso Salvemini. Quello di Salvemini è un percorso particolare, tipico di una certa intellettualità italiana a cavallo tra l’ottocento e il novecento i cui membri hanno avuto una formazione di tipo cristiano e cattolico che poi hanno rigettato a contatto col positivismo imperante: Salvemini questo l’aveva incontrato nell’università di Firenze dove aveva studiato.
Nel suo patrimonio morale però quel sottofondo originario non è venuto meno, è rimasto presente, ha comportato certamente il distacco dalla “chiesa istituzione” ma non da una cultura di riferimento , la quale ha avuto poi altre occasioni e modi di manifestarsi. E per quanto concerne Salvemini questo è avvenuto negli ultimi anni della sua vita.
Credo che in lui questo percorso abbia anche interagito con la sua esperienza anglosassone, che aveva compiuto soprattutto in Gran Bretagna, nella quale aveva conosciuto quel cristianesimo di stampo vittoriano che non aveva bisogno di riferimenti istituzionali forti, ma che nondimeno era una delle componenti, impossibili a non considerare, per comprendere la storia stessa dell’Inghilterra.
Non è un caso che Salvemini fosse molto amico di Elie Halèvy che aveva scritto una storia dell’Inghilterra mettendo in evidenza come questa componente di cristianità non istituzionale fosse essenziale per comprendere il liberalismo di quel paese. Tutti questi elementi si sono per me attualizzati alla luce di una analisi storica per la quale si può concludere che agli inizi del terzo millennio le sfide nel mondo sono fondamentalmente mutate; e che impongano la riscoperta del contenuto di libertà che vi è all’interno della nostra identità Occidentale.
I giudizi più duri contro le convergenze in atto tra cattolici e uomini di cultura, non di sinistra e non credenti, in difesa delle componenti cristiane della civiltà occidentale vengono da intellettuali cattolici come Pietro Scoppola, che accusano quegli uomini di cultura di essere null’altro che epigoni della Action Française per scopi rozzamente politici; e negano che in Europa sia in atto una offensiva anticattolica. Quali sono le origini di queste posizioni? Come le giudica?
Le origini di queste posizioni secondo me si rintracciano nel clima post-conciliare, dove il tentativo dei cattolici in politica di allargare i propri orizzonti ha guardato in maniera naturale e prevalentemente a sinistra, nell’idea che l’elemento “sociale” potesse essere un elemento di congiunzione con i mondi che in qualche modo avevano sposato la dottrina marxista…
Il marxismo inteso come eresia cristiana…
Certamente in alcuni momenti vi fu persino chi giunse a teorizzare il marxismo come eresia cristiana. Naturalmente vi sono stati anche tentativi di correlazione più consapevoli e più controllati, ed altri che invece sono giunti sino alla Teologia della Liberazione; cioè sino a sfumare l’elemento religioso in una sorta di sociologismo . Quindi è difficile per chi ha questo scenario e questo orizzonte comprendere che oggi sia possibile un dialogo ed un incontro del cattolicesimo con culture differenti; e in particolare con la cultura liberale che ingiustamente – per una considerazione secondo me un pò “limitata” del liberalismo – è stata vista come una ideologia antireligiosa, o quantomeno contraria a qualsiasi estensione della religione all’interno della sfera pubblica.
Si è così perso di vista il fatto che il liberalismo è una ideologia plurale e che di liberalismi ve ne sono diversi, sia da un punto di vista dottrinario sia da un punto di vista storico, ed alcuni di questi non sono affatto antireligiosi. Ma anzi hanno avuto una attenzione particolare al fatto che la religione sia uno dei presupposti per raggiungere una concezione della libertà più ampia. Queste credo che siano le origini delle posizioni di cui parliamo. Lei poi mi chiede come le giudico…
Soprattutto in riferimento alla violenza con cui alcuni intellettuali e ambienti cattolici si esprimono su certi temi.
Giudico tali posizioni alla stregua di chiusure preconcette, che bisognerebbe cercare di superare. Rischiano infatti di accreditare dei parallelismi che invece di spingere alla comprensione di un fenomeno l’allontanano. Esemplare il riferimento a Charles Maurras. In lui c’era l’uso strumentale della religione, e in particolare del cattolicesimo, assunto da una persona che si era “convertita” all’ateismo, ma che riteneva il cattolicesimo necessario per sostenere una posizione di parte, e quindi per nutrire una contrapposizione politica.
Invece nel discorso che è stato fatto da intellettuali liberali – non solo in Italia ma innanzitutto negli Stati Uniti e poi in Europa – vi è un percorso del tutto speculare, e si dice: oggi le società politiche occidentali dovrebbero riconoscersi in una identità comune indipendentemente dal fatto che si sia credenti o meno. Cioè dovrebbero riconoscere anche quanto il cristianesimo e la tradizione culturale che da esso è discesa abbiano offerto a una civiltà, e riconoscere il significato di libertà che è insito in essi.
E’ questo dunque un discorso di apertura, di ricerca di basi comuni e non di contrapposizione. E’, se vogliamo, un elemento di relativizzazione delle posizioni particolari che induce alla ricerca di ciò che unisce in una società e non di ciò che divide.
Da primate d’Italia, al convegno di Loreto del 1986,Giovanni Paolo II espresse apprezzamento per i vantaggi venuti alla nazione dall’unità politica dei cattolici. Da papa Ratzinger a Verona la questione non è stata toccata mentre ha ribadito l’attualità del documento sui doveri dei politici cattolici nelle società democratiche da lui indirizzato – nella veste di Prefetto della congregazione per la Dottrina della Fede nel gennaio del 2003 – ai vescovi e ai laici impegnati in politica. Crede possibile e auspicabile il successo dei tentativi di ricomporre, sia pure in forme diverse, una riedizione dell’unità politica dei cattolici?
Voglio fare una premessa. Ricordo perfettamente quell’apprezzamento espresso da Giovanni Paolo II. Credo che avesse un profondo significato storico la cui valenza può essere compresa ancor meglio a distanza di tempo, e che rispondesse anche ad un’etica della responsabilità. Perché in quel momento particolare il sistema politico italiano cominciava a dare i primi segnali di crisi ma erano ancora da venire gli eventi che avrebbero sconvolto la nostra politica tra gli anni ’80 e ’90.
Tuttavia, chi abbia la pazienza di leggersi la pubblicistica ecclesiale del periodo si renderà conto di come alcuni fenomeni fossero stati già da allora intuiti in alcuni settori della chiesa: faccio un esempio per tutti, il fatto che si profilava all’orizzonte una crisi “settentrionale”. Detto questo, ritengo che Giovanni Paolo II abbia però contribuito a superare quel modello di organizzazione politica dei cattolici nei fatti, perché essendo l’esponente di una “Chiesa del silenzio” – che doveva dunque esprimersi in prima persona per la mancanza, anche volendolo, di un canale politico privilegiato di collegamento con il potere – ha riproposto l’esperienza di quella chiesa.
L’ha riproposta con naturalezza, e credo che la scelta culturale che poi sarebbe stata fatta propria anche dai vescovi italiani, sia nata da quel retroterra; e certamente con il tempo questa opzione si è rafforzata. Mi pare evidente il motivo per il quale nel discorso di Benedetto XVI a Verona il tema dell’unità politica dei cattolici sia scomparso. Perché è maturata l’idea di una chiesa che non ha un interlocutore politico privilegiato, non da indicazioni di voto come accadeva in passato, anche perché tali indicazioni, se le desse, verrebbero disattese.
Pertanto si propone una chiesa che non rinunzia a intervenire in prima persona sul terreno pubblico laddove vi siano scelte che mettano in discussione il suo magistero e quelli che essa considera principi inderogabili. D’altra parte sarebbe difficile capire una astensione della chiesa di fronte a problemi di questo tipo. Dobbiamo piuttosto interrogarci sul perché questioni e principi che prima erano confinati nelle pagine più periferiche dell’agenda politica oggi, nello scenario che la cultura politica del terzo millennio ci presenta, sono diventati scelte fondamentali, sulle quali possono perfino nascere e morire alleanze politiche e di schieramento.
Ritiene che questo nuovo indirizzo della chiesa possa rappresentare un passo in avanti rispetto al passato anche per quanto riguarda l’evangelizzazione?
Non solo sotto il profilo dell’evangelizzazione, ma credo che possa esserlo anche sotto il profilo del rapporto tra chiesa e stato, in particolare per lo stato.
l quadro politico italiano è caratterizzato dall’estrema frammentazione in partiti e in movimenti, e dal continuo tentativo di ridurla unificando in nuovi soggetti politici quelli che si richiamano a ideali comuni, Quali sono le cause della frammentazione e dei fallimenti a superarla?
Devo ancora una risposta alla domanda precedente. Lei mi chiedeva se sia ancora possibile e auspicabile ricomporre l’unità politica dei cattolici. Non lo credo, perchè la Democrazia Cristiana è stata prima che un partito un mondo, che si è formato nelle sue caratteristiche genetiche nel periodo che va dal 1945 al 1954. I tratti essenziali di formazione di quel mondo li si legge nel passaggio dall’Italia degasperiana alla Democrazia Cristiana delle correnti, alla Democrazia Cristiana di Fanfani.
Poi questo mondo è variato, ma i suoi tratti genetici sono rimasti immutati. Essi erano frutto di una condizione storica peculiare ed irripetibile, per dirla molto sinteticamente legata alla “guerra fredda”. Non è un caso che nel momento in cui la “guerra fredda” è venuta meno sia finito prima il sistema politico italiano così come si era configurato, e poco dopo la stessa unità politica dei cattolici. Per rispondere all’altra domanda: credo che i motivi della frammentazione e del “bipartitismo impossibile” siano molti.
Vi sono certamente fattori di tipo culturale che affondano nella storia dell’Italia e dell’Italia repubblicana in particolare; che è stata caratterizzata da un proliferare di partiti, e nella quale il “partito ideologico” ha avuto una vita più lunga che in tutti gli altri grandi paesi europei. Va poi considerata la circostanza che il passaggio da questo modello al nuovo è stato un passaggio improvviso, fondato anche sull’improvvisazione; si è compiuto nel 1994, e sulla scia di quel fenomeno politico-giuridico che aveva liquidato una intera classe politica e il quadro bipartitico Dc-Pci.
Ora è evidente che tale situazione ha reso anche il nuovo quadro precario e, per questo, sono ancora in molti a ritenere che esso sia “reversibile”. E dunque, visto che si conta su tale reversibilità si creano delle piccole oasi nelle quali svernare, nell’attesa, appunto, che giunga quella che viene considerata una nuova primavera. Vi è poi il dato che l’attuale sistema politico è molto legato all’epifania di un personaggio e non ha ancora superato la prova del consolidamento. Cioè continuare ad esistere come sistema anche a prescindere da quella figura politica eccezionale che è Berlusconi.
Tutti questi sono evidentemente fattori di precarietà e di frammentazione. A queste ragioni – di natura storico-culturale da una parte e di ragioni contingenti dall’altra – bisogna poi aggiungerne una di tipo istituzionale. E cioè: questo sistema è stato il frutto di alcune contingenze, ma non si è fatto uno sforzo adeguato per rapportare ad esse il sistema istituzionale. Le istituzioni, infatti, sono ancora quelle modellate da una concezione politica che riteneva la frammentazione partitica una risorsa, laddove invece la pratica è andata in altra direzione.
Sappiamo che tentativi sono stati fatti dalla commissione Bozzi in poi, passando per una bicamerale e per un referendum fallito, senza, dunque, che tali tentativi siano andati in porto. E questa sfasatura è un ulteriore elemento di debolezza dell’attuale bipolarismo.
E’ possibile che al determinarsi della frammentazione di cui abbiamo parlato possa aver contribuito il progressivo affermarsi del relativismo nei quadri di riferimento filosofici, culturali e comportamentali dei partiti tradizionali della seconda metà del secolo scorso – e in particolare di quelli di matrice marxista e cattolica – per l’aumento del peso nella società, nelle istituzioni e tra le forze politiche delle idee radicali, che hanno nel relativismo etico il fondamento e il fattore propulsivo?
Non so se il relativismo abbia facilitato la frammentazione, perché alcune tendenze di costume erano già presenti anche al tempo delle ideologie forti. Io credo che il relativismo abbia provocato uno smottamento nelle culture politiche tradizionali e nelle alleanze tra schieramenti politici, e che questo sia un processo ancora in corso. Penso soprattutto che, ad esempio, abbia portato una forte trasformazione all’interno della sinistra, laddove un tempo l’ideologia di riferimento era una ideologia forte; e proprio il fatto di essere una ideologia forte aiutava quella sinistra a cercare un rapporto con i cattolici.
Oggi invece la sua scomparsa ha creato un vuoto che in qualche modo si tenta di riempire con battaglie che abbiano un valore progettuale altrettanto evidente. Laddove infatti esisteva una progettualità che comprendeva la società , oggi assistiamo alla ricerca di una progettualità sempre di più indirizzata all’individuo. Questo fa capire perché a sinistra stanno avendo sempre più spazio battaglie come quelle sui temi bioetici, sui temi relativi alla morte e su tutti quelli che esaltano la cultura dei diritti individuali.
Queste battaglie rappresentano un surrogato della ideologia costruttivista, che utilizza il relativismo per infilarsi laddove prima il costruttivismo aveva uno sfondo prevalentemente sociale. Questo mi porta anche a dire che quando usiamo il termine radicale bisogna stare attenti, perché l’odierno radicalismo di massa è una cosa molto diversa dal radicalismo a sfondo personalistico di un tempo.
Il radicalismo a sfondo individuale era fondato su una cultura che chiedeva il rispetto per diversità e minoranze, e quindi non smentiva quelli che erano i tratti costitutivi di una società e di una tradizione: anzi, proprio in nome degli aspetti di libertà che vi erano in quella società e in quella tradizione chiedeva rispetto per il diverso e per una minoranza, e di conseguenza faceva riferimento molto più al costume che al diritto.
Oggi invece il radicalismo di massa cerca di scardinare i pilastri propri di una società e di una tradizione, e di affermare una visione relativistica attraverso la ricerca di diritti sempre più ampi, diritti che producono altri diritti.
Quali priorità dovrebbero proporsi i cattolici e gli uomini di cultura ai quali si è riferito il papa a Verona per rendere più efficace il loro impegno comune al fine di rafforzare e di riqualificare le basi della civiltà occidentale?
La domanda è importante perché propone il passaggio da una ricerca, da un dialogo sul terreno dei principi a un terreno operativo comune. Io vedo in questo momento tre temi di particolare valore per un impegno solidale. Il primo è il tema legato in Occidente e in Italia alla cittadinanza, al fine di evidenziare come vi possa essere un modello di cittadinanza diverso da quello di origine multiculturalista o assimilazionista – modello inglese e modello francese – perché entrambi sono falliti.
Dovrebbe dunque esservi uno sforzo per individuare una nuova soluzione che consideri l’immigrazione non solamente un problema ma anche una risorsa, e che d’altra parte sconti il fatto che perché questo sia possibile sono necessarie alcune determinazioni, che portino l’immigrato a considerare la tradizione e la storia all’interno delle quali egli deve integrarsi.
E’ un tema che se sviluppato potrebbe portare il problema dell’integrazione ad essere visto non solo nei suoi tratti quantitativi, ovvero quello del numero o degli anni necessari a concedere la cittadinanza, ma anche nei suoi aspetti qualitativi, cioè che cosa sia necessario perché si produca nel profondo un processo d’integrazione. Il secondo tema sul quale è possibile secondo me sviluppare una collaborazione è quello della educazione. Si tratta di trovare un modello di scuola differente da quello della vecchia scuola unica, superando la contrapposizione tra scuola privata e scuola pubblica.
E’ un tema difficile ma che è necessario affrontare. Perchè pensando ad uno stato che non sia più gestore ma ordinatore della scuola, ovviamente si da la possibilità anche a soggetti culturalmente differenti rispetto alla tradizione fondante della comunità di promuovere le loro scuole, e questo nella attuale situazione italiana è un rischio. Ma se consideriamo le cose sul lungo periodo questo rischio è necessario affrontarlo, ricercando nello stesso tempo strumenti per controllarlo; ponendosi quale obiettivo che attraverso l’educazione il processo d’integrazione non sia costrizione, né tanto meno conversione, ma che nello stesso tempo resti rispettoso dei valori fondanti della nostra società e del modo in cui essa si è costituita. Infine credo che un altro tema per il quale l’accordo e l’incontro è obbligato – e questo lo è soprattutto per pressione esterna più che per scelta – sia quello dell’eutanasia, della fine della vita.
Di liberale, io penso sia necessario ribadire su questo tema posizioni che portino a non cedere a tentazioni di tipo costruttivistico per controllare anche questo momento. E bisogna farlo in nome della laicità e del dubbio, investendo sulla responsabilità della persona, e sul rapporto unico e non ripetibile, quindi non codificabile, che in quei momenti vi può essere tra la persona e il proprio medico. Non solamente, dunque, come portato di una scelta di fede.
E’ evidente che per tanti è questo il riferimento preminente. Ma al buon fine di un impegno comune si può giungere ad opporsi all’eutanasia anche per altra strada, per quella di una retta laicità