Chiese e religioni nella Costituzione d’Europa

europa_costituzioneLettura critica della carta costituzionale europea

di Pietro De Marco

Si è aperta in questi giorni un’utile discussione su alcuni contenuti dell’art. 51 della parte I del progetto di Costituzione europea: l’articolo che ha per titolo “Statuto delle chiese e delle organizzazioni non confessionali”.Già la sua collocazione può far comprendere l’intenzione dei costituenti.

Posto, infatti, dopo l’art. 49 (trasparenza dei lavori della Ue) e l’art. 50 (protezione dei dati a carattere personale), sembra voler collocare le Chiese accanto alle “organizzazioni filosofiche” (come Scientology o altre lobby ideologiche o ideocratiche) che attirano l’interesse di magistrati e legislatori di volta in volta per ragioni opposte: o perché richiedono la tutela delle proprie attività e dei propri membri (costante rivendicazione di sette e movimenti), o perché a loro volta sono richieste di rapporti trasparenti con le persone e le istituzioni.

Di fatto, l’art. 51 fa gravare su Chiese e religioni, sul loro essere parte nella sfera pubblica, i problemi di controllo e di tutela da parte dello Stato posti dalle lobby in qualche misura segrete o esoteriche. Da qui la denuncia, in alcuni commentatori, di un’assimilazione delle Chiese alla massoneria.

Rispetto a questo quadro, la materia del comma 1 dell’art. 51 risulta sostanzialmente estranea: “L’Unione rispetta e non pregiudica [ne préjuge pas du] lo statuto di cui beneficiano, per effetto del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose negli Stati membri”. In tutta evidenza si tratta qui di rassicurare gli Stati membri, le Chiese e le comunità religiose in ordine alla validità di patti, concordati, intese, stabiliti o in via di definizione.

La rassicurazione è certo importante. Ma è anche indicativa di una latente considerazione di altre e opposte eventualità, restrittive o eversive di quei patti, da parte dell’Unione; indicativa, cioè, della presenza di propensioni o pregiudiziali separatistiche, più ostili che amiche, in una parte della cultura giuridica e politica europea.

Ed è appunto l’improprio inserimento nell’art. 51 del comma 2 che conferma questa lettura. Esso assimila esplicitamente le Chiese e le comunità religiose alle organizzazioni filosofiche e non confessionali, ovvero ad associazioni puramente di diritto privato. E in questo modo accentua una caratterizzazione privatistica delle prime, deprimendone ‘a priori’ la rilevanza pubblica, quella stessa rilevanza pubblica che leggi e ordinamenti di molti Stati membri invece riconoscono. È da pensare che questo risultato sia stato deliberatamente cercato. Ma il riconoscimento dell’identità e contributo della Chiesa luterana è davvero dello stesso ordine di quello che può concernere la massoneria o Scientology o il Rotary?

Quanto al comma 3 dell’art. 51, nel quale pur compare l’atteso riconoscimento dell’identità e del contributo specifico delle Chiese, esso risulta ridotto nella sua portata sia dalla precedente assimilazione tra Chiese e organizzazioni filosofiche, sia da quella dizione di “dialogo aperto, trasparente e regolare” che la Ue dovrebbe intrattenere con questi soggetti. Francamente, questo “dialogo” appare per la Ue un onere sproporzionato, per eccesso con le organizzazioni filosofiche e per difetto con le Chiese e con le religioni non cristiane, in particolare l’islam.

Con le Chiese e le religioni dentro e attorno all’Europa, infatti, un rapporto “aperto, trasparente e regolare” è molto più che una concessione, è comunque imposto dalla storia e dal presente del mondo, dunque dalla forza delle cose. È un rapporto necessario, dialogico o non dialogico che sia (meglio se dialogico), cui la decisione politica dovrebbe dare forma giuridica peculiare.

Pensando all’impalcatura attuale del progetto della prima parte della carta europea, la sede più conforme alla rilevanza costituzionale della materia appare piuttosto quella del titolo II, “I diritti fondamentali e la cittadinanza dell’Unione”.

È davvero necessario ricordare che ogni appartenenza religiosa è una cittadinanza peculiare che non può riconoscersi realizzata, e neppure espressa adeguatamente, dalla cittadinanza politica statuale moderna? Tanto più dopo la laicizzazione della sfera pubblica europea. In Europa il credente negozia sempre, di regola, la propria cittadinanza politica con gli imperativi che gli derivano dalla appartenenza religiosa. Così il cristiano. Così e a maggior ragione, costitutivamente, il musulmano.

Altamente creativo sarebbe inserire nell’art. 7 della parte I (diritti fondamentali) un comma 4, a seguito del 3 che conferma la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali secondo le “tradizioni costituzionali comuni”. In questo nuovo comma si dovrebbe avere l’intelligenza politico-giuridica di riconoscere e affermare che la cittadinanza religiosa (in quanto fatta di appartenenza presente a una comunità sacra e di incorporazione futura in una ‘civitas Dei’) è comunque parte costitutiva e non estranea della cittadinanza politica; e che non solo non è chiesto al credente cristiano e non cristiano europeo di neutralizzare la propria cittadinanza sacra, ma che l’Unione “riconosce” (più che concedere il “rispetto” e il “non pregiudizio” dell’attuale art. 51) come parte integrante degli istituti che la definiscono lo stato giuridico di Chiese e comunità religiose, già definito o da definire nei diversi diritti interni.

La Costituzione europea dovrebbe, in altri termini, impadronirsi del metodo e del valore di queste compenetrazioni tra cittadinanze e tra ordinamenti. Quanto alla Chiesa cattolica, sarebbe di rigore riportare nella nuova carta che essa sussiste nello spazio civilizzazionale europeo con una straordinaria personalità giuridica internazionale ‘iure proprio’.

Nella prospettiva socio-politico-religiosa dei nuovi rapporti tra civiltà una simile capacità di creazione giuridica nella Costituzione europea (consistente nell’accogliere e generalizzare, in orizzonte multireligioso, la portata politica della svolta concordataria del Novecento e l’integrazione tra ordinamenti statali e religiosi che ha implicato) sarebbe anche una precondizione della possibilità stessa di trasmettere ai paesi extraeuropei modelli costituzionali moderni, meno estranei che in passato alla ricchezza e problematicità della loro storia.

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(s.m.) Quanto al preambolo della futura carta d’Europa, il passaggio che più ha suscitato le proteste del Vaticano è quello che descrive i «retaggi culturali, religiosi e umanistici dell’Europa» come «nutriti dapprima dalle civiltà greca e romana» e poi «segnati dallo slancio spirituale che ha attraversato l’Europa […] e successivamente dalle correnti filosofiche dei Lumi».

Anche a giudizio di Pietro De Marco questo passaggio «è veramente un capolavoro di vecchio laicismo e di reticenza, ostile al cristianesino con il pretesto (ovvero con l’aggravante) del timore per l’islam. Lo ‘slancio spirituale’ che percorre l’Europa dopo la Grecia e Roma è ipocritamente senza nome, anche perché adottare la formula consueta della ‘tradizione ebraico-cristiana’ suonerebbe sgradito a orecchie islamiche.

Eppure il plesso della civiltà europea include l’islam, e sarebbe stato semplice, quanto ineccepibile, usare una formula come: ‘… lo slancio spirituale della civiltà ebraica e cristiana, non senza un fertile rapporto con la civiltà islamica…’».