La pretesa neutralità dei diffusi laicismi, la diffidenza verso tutte le istituzioni che travolge le religioni, il fanatismo terrorista che genera altro fanatismo antireligioso. E figure come Dawkins e Hitchens che cavalcano le paure del “dopo 11 settembre”.
di Alister McGrath
Non ho intenzione di parlare molto della postmodernità, anche se farò riferimento ad alcune delle sue implicazioni e dei suoi esiti; dopotutto, la postmodernità ci fa compagnia da un po’ di tempo e non è sufficientemente “nuova” da meritare una discussione in quanto tale.
Ciò che è nuovo, tuttavia, è il modo in cui vari altri fattori sono entrati in gioco nel contesto culturale postmoderno: questi li prenderò in considerazione, specialmente la tendenza verso spiritualità private ed eclettiche. Non parlerò nemmeno delle conseguenze della presenza crescente di altre religioni in Europa, anche perché non mi sento competente circa le questioni sollevate da questo fenomeno.
I principali argomenti ai quali voglio rivolgere la mia attenzione sono i seguenti: la presunzione che la posizione laica o “atea” sia “neutrale” o normativa; la religione trattata come un fatto privato, che non deve avere alcun impatto sull’opinione pubblica; la diffidenza verso le istituzioni, comprese quelle religiose; il parlare di spiritualità piuttosto che di religione; la paura di ogni forma di estremismo, specialmente del fanatismo religioso; la crescita del “nuovo ateismo” come effetto di queste preoccupazioni.
Sotto molti punti di vista questi argomenti non sono “nuovi”, in quanto tendenze le cui radici possono essere seguite per un certo lasso di tempo. Nondimeno, penso sia importante sottolineare che è nuovo il modo complessivo in cui interagiscono. In ciò che segue intendo riflettere su ciascuno di essi e presentare alcune riflessioni su come potremmo offrire una risposta credibile e realistica.Una delle tendenze più ovvie nelle moderne scienze sociali è il privilegiare una posizione laicista o atea come se fosse, per definizione, “neutrale” o “equilibrata”.
Questo è particolarmente evidente, ad esempio, nella letteratura specializzata concernente la metodologia educativa, dove generalmente (ma non da parte di tutti, per fortuna) si assume che il coinvolgimento religioso sia un ostacolo al progresso pedagogico. Tuttavia, gli esempi più chiari si rintracciano nel campo delle scienze sociali, nelle quali è facile scorgere il privilegio argomentativo – stranamente incontrastato – accordato all’ateismo da molti studiosi.
La spiegazione più ovvia di questo fenomeno altrimenti incomprensibile è che l’ateismo sia riuscito a presentarsi come la “categoria razionale predefinita”, rispetto alla quale tutte le altre credenze devono essere giudicate. Si ritiene che l’ateismo fornisca un punto di vista neutrale, una posizione di “neutralità rispetto ai valori”, che permette alle credenze e ai comportamenti religiosi di essere esaminati e valutati senza l’influenza fuorviante dei coinvolgimenti di fede. L’ateismo è diventato la posizione predefinita, sia che venga implementato a un livello puramente metodologico, sia a un livello ontologico più profondo.
Questo si riflette nelle credenze fondative (anche se spesso implicite) dell’Unione europea, che ha dato vita – più per caso che di proposito – alla mentalità organizzativa più laica che si trovi oggi al mondo, con la possibile eccezione della Corea del Nord. La credenza e il coinvolgimento religioso vengono spesso presentati come un allontanamento dalle norme sociali prevalenti, come l’incomprensibile persistenza di idee e pratiche del passato, oppure come qualcosa che rivela abitudini mentali inquietanti e irrazionali.
La fede come fatto privato
L’Unione europea difende la libertà di religione, considerando la “religione” come un insieme di idee, pratiche o valori privati. Gli individui sono liberi di credere; i problemi iniziano quando i credenti intendono esprimere tali idee, pratiche o valori all’interno della sfera pubblica. La richiesta laicista di “libertà dalla religione” viene spesso espressa in termini di esclusione dalla sfera pubblica di qualsiasi espressione visibile o tangibile di convinzioni religiose. La portata della richiesta varia da una nazione all’altra, ma penso che si riconosca il problema: la pubblica piazza deve essere neutrale.
Tuttavia qui ci sono ovvie difficoltà. In primo luogo, i laicismi – uso intenzionalmente il plurale – sono chiaramente dei sistemi di credenze. Non sono distaccati e neutrali; sono schierati e mossi da un’ideologia. Ciò che viene presentato come la creazione di uno spazio pubblico neutrale consiste semplicemente nell’invasione di questo spazio pubblico da parte di un’ideologia, che può avere impegni diversi da quelli dei cristiani, ma che sono comunque impegni.
Nei suoi scritti penetranti e largamente apprezzati sulla natura della giustizia, Michael Sandel sostiene che qualunque nozione di giustizia dipende da concezioni concorrenziali di che cosa sia una vita buona, vale a dire da insiemi di credenze sulla natura umana, sui valori e sugli scopi. Sandel argomenta che, laddove il razionalismo ha ritenuto che la ragione potesse rispondere a queste domande, la dura realtà ha mostrato che a esse non si può rispondere in maniera significativa a prescindere da credenze che in ultima analisi non possono essere dimostrate. Il sogno dell’illuminismo di basare la giustizia sulla pura ragione è naufragato.
Dobbiamo assolutamente mettere in chiaro che la ragione pubblica non è neutrale; è una teoria del bene che le da forma. Questo è il punto che Sandel sottolinea ripetutamente, e che dovrebbe essere ascoltato dai nostri opinionisti. Il razionalismo laico non fornisce un fondamento adeguato alla giustizia. Sandel nota che il liberalismo laico rappresenta una visione del mondo vuota e superficiale, che finisce semplicemente per difendere il diritto dei cittadini di fare ciò che a loro pare e piace, purché non ledano qualcun altro. Ma la giustizia reale riguarda i valori e gli ideali.
Il laicismo spesso si presenta come un approccio “neutrale” all’etica e alle questioni sociali, che permette a tutti di prendere parte al dibattito pubblico a prescindere dai propri impegni di fede. Sandel ritiene che questo sia insostenibile: il laicismo nega, esclude e sopprime gli ideali e i valori morali altrui, difendendo al contempo il mito della propria neutralità.
L’analisi di Sandel mette in rilievo l’importanza delle teorie sul significato della vita che conferiscono valore e dignità agli attori sociali e alle azioni. Non possiamo fare finta che esista una sfera pubblica “neutrale”; quelle teorie, inclusa la fede cristiana, conferiscono forma a tutti gli ambiti della vita. Il cristianesimo fa di più che dare semplicemente senso alle cose, da loro significato e valore.
Le istituzioni senza consenso
C’è poi una crescente diffidenza verso le istituzioni – prime fra tutte governi, banche, società d’affari – a causa del loro potere, della mancanza di trasparenza, degli interessi personali e della loro imprudenza finanziaria. L’avversione nei confronti di un “governo forte” è sempre stata presente nella cultura occidentale ed è tornata in auge recentemente negli Stati Uniti (si noti a proposito l’influenza del “Tea Party”). Tuttavia, non c’è dubbio che la recente crisi finanziaria nell’Eurozona abbia contribuito a consolidare questo senso di disagio istituzionale.
Le Chiese sono istituzioni e sono risucchiate in questo tsunami di scetticismo e di cinismo. Questo clima di preoccupazione, naturalmente, è reso peggiore da ulteriori complicazioni, come la campagna anti-cattolica di Dan Brown, volta a confondere le idee, come è evidente in Angeli e demoni e soprattutto ne // Codice da Vinci. Agli occhi dell’opinione pubblica fa poca differenza il fatto che si tratti di opere di fantasia, con un approccio storico assai fazioso e approssimativo. In argomenti simili, le percezioni diventano subito realtà.
Dobbiamo inoltre essere consapevoli del fatto che qualsiasi fallimento istituzionale da parte delle Chiese sarò visto come un rinforzo di simili percezioni. Le irregolarità finanziarie, i tentativi di occultare i misfatti del clero, l’arroganza o l’intolleranza da parte di esponenti ecclesiastici contribuiscono a solidificare questa impressione. Ci sono probabilmente solo due modi di far fronte a questo problema, entrambi importanti: 1) prendere tutte le misure appropriate per assicurarsi che le istituzioni non diventino fonti di discredito; 2) assicurarsi che i significativi contributi delle Chiese al benessere della società vengano apprezzati e compresi.
Tuttavia è importante tenere presente che le preoccupazioni riguardo alle istituzioni cristiane non sono limitate alla società laica. Molti cristiani condividono queste preoccupazioni e avvertono una distanza di fondo tra la propria fede personale e i propri valori da un lato, e le istituzioni deputate a incarnare e a salvaguardare questi valori dall’altro.
Vale la pena osservare che sta guadagnando importanza l’idea di “cristianesimo puro e semplice” sviluppata dallo studioso di letteratura e scrittore C. S. Lewis (II cristianesimo così com’è, 1997). La visione che Lewis ha del cristianesimo toglie importanza ai programmi delle varie confessioni e al ruolo delle istituzioni religiose, concentrandosi in primo luogo sulla fede personale degli individui. Le conversazioni a cui ho preso parte suggeriscono che ci sia una tendenza crescente, specie da parte dei giovani, a configurare la propria fede cristiana in termini che minimizzano l’importanza delle istituzioni religiose.
Spiritualità o religione
Nella società in generale il termine “spiritualità” viene largamente usato per designare un insieme di credenze e pratiche che danno agli individui una visione della realtà più ampia rispetto a quella offerta dal vecchio materialismo. Credo che ben si comprenda che l’affermarsi della postmodernità gioca una parte rilevante nello sviluppo di questa visione
Questa “spiritualità” non è necessariamente teistica, e nemmeno necessariamente istituzionale. Sotto molti aspetti il termine “spiritualità” è diventato lo slogan di una società che vuole riscoprire l’importanza della vita spirituale, ma che non sente di volerla associare alle istituzioni religiose e a coloro che le rappresentano. In effetti, la spiritualità è vista come qualcosa di personale e individuale, non come qualcosa che è di necessità collegato con l’appartenenza a un’istituzione.
Per di più queste spiritualità sono spesso eclettiche e raccattano idee, valori e pratiche da fonti disparate, senza curarsi troppo di origini storiche e culturali variegate. Ciò significa che queste forme di spiritualità privata si risolvono in un collage, un patchwork di idee senza un filo logico, prive di qualunque coerenza.
Tuttavia, nella nostra cultura postmoderna questo non è affatto visto come un problema. Infatti, tramite uno sconcertante capovolgimento delle norme tradizionali, questo fenomeno ha persine finito per rappresentare una virtù, una protesta nei confronti della ristrettezza di vedute e della rigidità eccessiva dei sistemi religiosi “moderni”.
Questo nuovo interesse nei confronti delle cose spirituali è dilagato nella cultura occidentale in quest’ultimo decennio. Nelle librerie i fiorenti reparti dedicati a “corpo, mente e spirito” sono un indicatore eloquente dell’allontanamento del pensiero occidentale dal mondo dell’illuminismo.
Per il cristianesimo in Europa, tuttavia, le implicazioni di questo nuovo interesse nei confronti della spiritualità sono lungi dall’essere chiare. La religione istituzionale mantiene un rapporto non facile con le nuove spiritualità personali del nostro tempo.
L’interesse nei confronti di molti mistici cristiani è aumentato vorticosamente; Ildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich e Meister Eckhart sono letti oggi più diffusamente e con maggiore interesse di quanto non si sia mai veri-ficato finora nella storia. Le incisioni dei canti gregoriani si vendono come mai accaduto in precedenza.
Ma questo rinnovato interesse nei confronti della spiritualità cristiana viene visto come qualcosa che non ha alcuna connessione o appartenenza necessaria alle istituzioni cristiane. La religione privatizzata della postmodernità sembra avere poco spazio per le Chiese istituzionali.
Devo d’altro canto sottolineare il fatto che questo nuovo interesse verso la spiritualità mette in difficoltà anche l’ateismo. Forse questo si può cogliere più chiaramente nella posizione incoerente di uno dei principali “nuovi atei”, Sam Harris. Harris, che va su tutte le furie nei confronti delle religioni che credono in Dio, è profondamente interessato alle religioni orientali (e alle loro varianti occidentali).
Harris ritiene che la religione è cattiva e la spiritualità è buona. Ciò ha generato notevole preoccupazione nella comunità dei nuovi atei, tra i quali alcuni alludono in modo oscuro e minaccioso alla sua “erroneità”. Harris è un vero credente? O si è mescolato agli indigeni ed è diventato un molle razionalista?
In un articolo del 2006 sul «New Humanist», la studiosa indiana Meera Nanda – una induista, prima di abbandonare la propria religione – sottolinea che Harris esemplifica una preoccupante tendenza del nuovo ateismo: la tendenza alla credulità. Ella sostiene che alcuni atei cominciano a credere in qualsiasi cosa, una volta che smettono di credere in Dio.
Meera Nanda nota che Harris «tira in ballo l’idea largamente condivisa che le fedi abramitiche incoraggiano la violenza nei confronti dell’uomo e della natura, mentre la spiritualità orientale promuove la pace e l’armonia fra le creature». Per Meera Nanda, Harris sotto sotto è un credente che si nasconde dietro a una cortina fumogena di razionalismo e scienza: «Le credenze misticheggianti che Harris difende sono in ogni loro parte tanto non scientifiche, non sperimentabili e non verificabili quanto la credenza religiosa che egli attacca con tanta veemenza».
L’estremismo e il “nuovo ateismo”.
Non è un caso che le origini del “nuovo ateismo” siano da rintracciare in quello che oggi chiamiamo “l’11 settembre”. L’11 settembre 2001 venne lanciata una serie di attacchi suicidi coordinati contro vari bersagli negli Stati Uniti. Tre dei quattro voli civili dirottati dai terroristi islamici vennero fatti schiantare contro obiettivi di forte portata simbolica a Washington e a New York, causando perdite considerevoli di vite umane.
L’impatto di questi attacchi è stato molto potente, segno della consapevolezza diffusa che il mondo era cambiato in maniera irreversibile. L’indice Dow Jones crollò del 7% alla riapertura di Wall Street; la “guerra contro il terrore” divenne un tema dominante della presidenza di George W. Bush, gli Stati Uniti e i loro alleati si ritrovarono invischiati nei conflitti in Iraq e in Afghanistan. L’ansia dell’opinione pubblica riguardo alle conseguenze letali del fanatismo religioso raggiunse nuovi vertici.
Nella visione di molti quest’ultimo punto è cruciale per capire l’improvviso emergere – nel primo decennio del XXI secolo – del movimento oggi noto come “nuovo ateismo”. Alcuni scrittori atei come Richard Dawkins sostenevano da anni, senza guadagnare troppi consensi, che la religione era irrazionale e pericolosa.
Di colpo queste argomentazioni atee sono apparse interessanti e culturalmente plausibili. Si doveva dare la colpa a qualcuno o a qualcosa per l’11 settembre e il fanatismo religioso islamico era un candidato ovvio. Nel calor bianco della rabbia contro questo oltraggio il “fanatismo religioso islamico” venne semplificato e ridotto prima a “fanatismo religioso” e poi semplicemente a “religione”.
Dawkins avrebbe giocato un ruolo di primo piano in questo cambiamento dell’atteggiamento culturale dei circoli liberali dell’Occidente. L’11 settembre confermava quanto aveva sempre creduto: la religione è pericolosa proprio perché è irrazionale e quando non riesce a vincere una discussione ricorre al terrore.
Quattro giorni dopo l’attacco, Dawkins scrisse sul «Guardian»: «Riempire il mondo con la religione, o con religioni di tipo abramitico, è come riempire le strade di fucili carichi. Non siate sorpresi se vengono usati».
Molti considerarono questi commenti ridicolmente semplicistici. Altri, invece, videro Dawkins come un pensatore audace che voleva dire la verità. La religione è pericolosa. Non deve essere rispettata, ma temuta e, laddove possibile, neutralizzata. È una bomba a orologeria che aspetta solo di esplodere; un fucile carico che aspetta solo di uccidere qualcuno.
Come scrisse su questo punto pochi anni dopo Christopher Hitchens, lo scomparso “nuovo ateo” compagno di Dawkins, con un’intensità emotiva che riusciva quasi a nascondere la sua inesattezza rispetto ai fatti: «la religione uccide». L’11 settembre si trasformò così nel trampolino di lancio intellettuale e morale di quello che oggi è generalmente conosciuto come “nuovo ateismo”.
È importante rendersi conto del fatto che si tratta di una preoccupazione politica, non semplicemente intellettuale. I governi europei sono preoccupati riguardo all’estremismo religioso, e alle sue potenziali conseguenze. L’opinione pubblica è turbata dal fatto che l’indottrinamento religioso possa trasformare persone comuni in terroristi suicidi.
Sono del parere che la ricca e complessa eredità delle Chiese cristiane nell’Europa occidentale le metta in una posizione assai forte per agire. Le Chiese dell’Europa hanno molto da dire in proposito e devono sincerarsi di essere ascoltate. Devono essere viste come voci di moderazione sia storiche sia contemporanee, in grado di creare capitale sociale, di promuovere la tolleranza e soprattutto di incoraggiare modi di pensare che evitino il fanatismo.
Infine, dobbiamo considerare il “nuovo ateismo” come qualcosa che riflette i cambiamenti degli anni recenti. Questo movimento sostiene che la religione è irrazionale e illusoria, ed è pertanto costretta a ricorrere alla violenza e alla repressione per sostenere idee indifendibili.
Ciò che conferisce plausibilità culturale alle idee del “nuovo ateismo” non è il loro fondamento intellettuale (che è spesso molto debole), ma il fatto che esse sono l’eco di alcune importanti preoccupazioni culturali contemporanee. Se non teniamo conto delle questioni secondarie presenti nei principali manifesti ideologici dei “nuovi atei”, tre temi di maggiore importanza emergono con assoluta chiarezza: la religione è irrazionale e perciò per sostenersi è obbligata a fare uso della forza piuttosto che dell’argomentazione o delle prove; la religione possiede una propensione innata alla violenza, che la rende una forza negativa e reazionaria nell’Europa contemporanea; la religione si oppone alla scienza, per la minaccia che essa rappresenta per la sua egemonia intellettuale e culturale.
Ciascuno di questi punti richiederebbe una riflessione apposita. Voglio semplicemente dire che ciascuno di questi punti è indifendibile alla luce delle prove storiche e dell’argomentazione razionale. Ma a molti piacerebbe che queste cose fossero vere. E nella nostra cultura postmoderna le persone si sentono libere di creare mondi e credenze a proprio piacimento. Le percezioni diventano realtà. Il nostro compito è sfidare tali percezioni e fornire una visione alternativa, in grado di catturare l’immaginazione delle nostre culture.
(Traduzione di Lorenzo Fazzini, Serena Spelta e Roberto Presilla)
Alister McGrath dirige il Centre for Theology, Religion and Culture presso il King’s College di Londra ed è senior research fellow presso l’Harris Manchester College di Oxford. Presiede l’Oxford Centre for Christian Apologetics. Fra i suoi ultimi libri ricordiamo: A Fine-Tuned Universe?The Quest far God in Science and Theology (2009) e Darwinism and the Divine: Evolutionary Thought and Natural Theology (2011).