5 Dicembre 2019
Un giovane americano che a 18 anni si è sottoposto a intervento chirurgico per diventare donna e dopo un anno si accorge del tremendo errore: «Mi sento di aver rovinato la mia vita, non è così che si risolvono i problemi psicologici». Il mondo devastante e tremendo delle cliniche di “riassegnazione di genere”.
di Benedetta Frigerio
I pentimenti per aver cambiato sesso in età adulta sono drammatici ma il rimorso degli adolescenti ingannati fin da piccoli è ancora più doloroso. Alla lista di quelli noti (che si allunga, vedi qui) si è aggiunto Nathaniel, 19 anni, che meno di un anno più tardi dall’operazione di rimozione dei genitali ha pianto amaramente: «Tutto questa storia è stata una terribile idea. Ho 19 anni e mi sento di aver rovinato la mia vita».
Nathaniel usa giustamente il singolare, ché nel mondo dei sogni individualista quella del giovane è stata una sua scelta. Peccato che la legge non gli abbia impedito di agire contro se stesso e che il mondo medico sia ormai tutto a favore di questi interventi autolesionisti.
A parlare di lui infatti non sono le cronache che dipingono il mondo transessuale come un sogno fatto di paillettes, lustrini e felicità, ma Walt Heyer (clicca qui) che, avendo provato sulla sua pelle l’inganno, oggi lotta per gridare la verità nonostante il rumore dominante sembri silenziare la sua voce.
Heyer ha recentemente scritto sul The Daily Signal che «mi si spezza il cuore ogni volta che ricevo una lettera da parte di qualcuno che si è sottoposto all’operazione chirurgica per il cambio di sesso (che mai avverrà, ndr) e che si pente, specialmente quando si tratta di qualcuno giovane come Nathaniel.
Con il permesso del ragazzo, Heyer ha voluto raccontare la sua storia sperando che la testimonianza possa portare chi crede di risolvere i suoi problemi psicologici nel medesimo modo a tornare sui suoi passi. Nathaniel «ha detto di essere stato bullizzato dai maschi alle scuole elementari perché era sensibile e preferiva fare i giochi delle bambine. Quando è cresciuto ha scoperto la pornografia su internet, ha sentito parlare del transgenderismo, e come ha detto lui, “mi sono convinto che si trattava di quello che ero”».
Così, a 14 anni, ha confessato alla mamma la sua convinzione portandola a prendere appuntamento con un dottore. Dopodiché, continua Heyer, ha «iniziato a vedere il dottore una settimana dopo il suo quindicesimo compleanno e da come descrive i successivi anni della sua adolescenza, direi che andare in clinica non ha migliorato la sua vita». Scrive infatti Nathaniel: «Da lì in poi mi sono lentamente distaccato da tutto fino a quando sono rimasto a casa, giocando ai videogiochi e andando su Internet tutto il giorno. Ho smesso di leggere, di disegnare, di andare in bicicletta».
Insomma, la clinica invece che aiutarlo ad abbracciare la propria identità maschile per aiutarlo a camminare sicuro nel
mondo, lo ha confermato nella sua confusione spingendolo a sentirsi diverso e quindi a fuggire da tutto. «Mi sono isolato – continua il ragazzo – in una cavità di eco che ha sostenuto e convalidato le mie decisioni sbagliate, perché anche loro, purtroppo, erano bloccati dentro quella buca».
Tanto che dopo aver compiuto 18 anni, il ragazzo è stato operato per dare ai suoi genitali una parvenza femminile e, in seguito a complicanze, ha dovuto operarsi nuovamente per poi sottoporsi ad un terzo intervento di chirurgia plastica che rendesse il suo volto più femminile. L’articolo prosegue facendo notare che per quanto l’uomo si ostini a pensare di poter mutare la realtà a suo piacimento, «un uomo non sarà mai una donna e non potrà mai diventarlo».
E sebbene sia proibito dirlo nel regime politicamente corretto, c’è poco da obiettare quando a rivelare la scomoda verità è la vittima principale di questa ideologia. Scrive infatti Nathaniel nove mesi dopo l’intervento: «Ora che sono guarito dagli interventi chirurgici, me ne pento.
Il risultato dell’intervento chirurgico sembra nella migliore delle ipotesi un lavoro di taglia e cuci alla Frankenstein, il che mi ha fatto pensare criticamente a me stesso. Mi sono trasformato in un facsimile chirurgico di una donna, ma sapevo di non esserlo. Sono diventato (e in parte, lo sono ancora) profondamente depresso».
E se tutti sono corsi ad “aiutare” il ragazzo quando diceva di sentirsi donna, fa notare Heyer, grazie al “consenso informato” la clinica ora «se ne è lavata le mani». Così come è accaduto con altri giovani a cui «è accaduto qualcosa che li ha portati a non voler essere chi sono e a tentare di diventare qualcun altro»; e quando hanno cercato aiuto per superare l’angoscia, «l’ideologia di genere, la clinica e i chirurghi hanno affermato il falso pensiero».
A dire la leggerezza e la noncuranza tipiche dell’ideologia a cui interessa solo raggiungere il suo obiettivo era stata un’atra giovane: «Sydney che “è passata” (come si dice per chi si sottopone a questi interventi, ndr) a 18 anni. Ora, a 21 anni, ha recentemente raccontato la sua storia» in cui si «articola chiaramente l’assenza di consulenza prima della prescrizione del potente ormone maschile, il testosterone, e gli effetti orribili che ha avuto anche se per un breve periodo sul suo corpo femminile».
L’articolo prosegue descrivendo il mondo devastante e tremendo delle cliniche di “riassegnazione di genere”, dei bambini trattati come femmine e delle bambine trattate come maschi. Spiegando, però, che anche questo disastro non è la fine se c’è chi si batte per la verità e per incontrare le fragili prede della bestia arcobaleno. Lo stesso Heyer ha vissuto quello che hanno vissuto questi ragazzi, finché la fede in Dio gli fece riabbracciare con forza la sua identità, regalandogli la pace che tanto cercava.
Per questo l’uomo parla con speranza anche di Nathaniel e Sydney, che ora «stanno ravvivando la loro fede in Gesù e, come ben noto dalla mia vita di esperienza transgender, la fede in Dio porta alla restaurazione, se noi lo permettiamo».