Dalla questione di bancopoli sembra uscire rafforzato un atteggiamento sempre più diffuso: i valori debbono essere separati dagli interessi e dalle appartenenze. Anzi, gli interessi neppure debbono esistere; la loro sussistenza è giustificata solo se sono a favore degli altri, non di sé…
di Giancarlo Cesana
Dalla questione di bancopoli sembra uscire rafforzato un atteggiamento sempre più diffuso: i valori debbono essere separati dagli interessi e dalle appartenenze. Anzi, gli interessi neppure debbono esistere; la loro sussistenza è giustificata solo se sono a favore degli altri, non di sé. I valori, secondo l’opinione corrente, sembra debbano essere disinteressati, purificati dalla contaminazione dei desideri personali, pure idee, che stanno in un mondo loro, dislaccalo da quello degli uomini.
In effetti, apprendiamo dai giornali che: al presidente del partito “più popolare” piacciono le barche suo malgrado; se il segretario dello stesso partito ha fatto il tifo per la Unipol, si pente; il premier non ha mai coltivato i suoi interessi in politica; il nuovo capo della Banca d’Italia è il migliore perché nella sua alta funzione non appare attaccato a nulla.
Non parliamo poi dei soldi, i quali si manifestano sotto una luce assai ambigua; sono sì un valore, ma pericolosissimo. Per trattarli, bisogna essere dotati dì una superiore verginità, altrimenti è meglio stame lontano e, se possibile, non conoscerli. Le coop non possono trattare i soldi perché evidentemente legate a un interesse collettivo, di parte, che ora negano. I grandi finanzieri e industriali, invece, possono operare sui soldi, perché loro di interessi di parte non ne hanno; hanno cura per l’economia e il progresso, che sono notoriamente interesse di tutti: anche gli operai piangevano quando è morto Agnelli. Eccetera.
Secondo il pensiero comune i valori sono di tutti, non appartengono cioè a nessuno. Non si sta insieme a qualcuno perché porta un valore, perché senza di lui il valore sarebbe incomprensibile, ma perché è d’accordo con noi, perché il valore “nuovo” che, eventualmente ci comunica, era già nostro di diritto. Se l’amico – il compagno di strada – sbaglia, viene abbandonato. Non si era insieme a lui, ma ai suoi valori che, una volta traditi, rendono la sua presenza inutile e dannosa.
Come è lontana la figura di Giovanni Paolo II, che chiedeva perdono a tutti, non per gli sbagli di oggi o di ieri, ma per gli sbagli dei cristiani in 2000 anni. Il discorso che fece Craxi in Parlamento su tangentopoli nemmeno sfiora la sensibilità di molti politici di oggi. Loro si definiscono persone “perbene”; sono attaccati alle idee, mica agli interessi o alle persone.
Infatti, la nostra è una società delle idee. Dire ideologica sarebbe troppo perché bisognerebbe attribuire alle idee una forza di verità, che nessuno ha il coraggio di affermare. Si sta insieme, si fa società, per le idee, quelle cangianti ma riconosciute, approvate da tutti e che nessuno può osare di smentire.
Si fa società non per il sangue e la pelle degli uomini, ma per qualcosa di impalpabile e astratto, che si impone come minimo comune denominatore costitutivo dell’unica religione civile possibile: quella che non scomoda il comodo della maggioranza. In questo senso, la nostra è proprio una società moralistica, ovvero una società in cui la morale è conformazione al costume prevalente, o meglio, alle idee prevalenti (poiché poi, magari, i costumi vanno dove vogliono).
Come è lontano il cristianesimo, il cui Dio, il valore sommo, si è fatto uomo e si è attaccato agli uomini. Una volta un ragazzo disse a don Giussani: “Io sto insieme alla mia morosa per Cristo”. E lui di rimando: “E a lei cosa gliene frega?”. Non si può amare un valore senza amare chi lo porta.
Non si può amare la vita senza amare gli uomini. Non si può sostenere o difendere l’ideale, senza sostenere e difendere la – compagnia in cui è vissuto, cosi come è, con i suoi pregi e anche i suoi errori. Non si tratta di sentirsi colpevoli di sbagli di nostri amici, ma consapevoli sì. Bisogna essere responsabili, ovvero dare risposte che non aboliscano l’errore e chi lo commette, ma che correggano, ovvero reggano insieme il nuovo cammino da intraprendere.
Invece, la tentazione, che è ormai una caratteristica socialmente condivisa, è di cancellare il peso degli errori, esorcizzare la fragilità umana, elevandola a diritto quando appare imbattibile (dall’aborto ai condoni fiscali); nascondendola, come la polvere sotto il tappeto, quando è inaccettabile alle idee che per lo più si professano.
Perché, appunto, sono le idee quelle che valgono, che indicano al mondo come dovrebbe essere, a prescindere da quello che è. Che ogni tanto arrivi qualche tsunami, che le cose in fondo vadano come sono sempre andale, senza tenere gran conto delle nostre opinioni, è secondario. Siamo insieme per le idee, solo per quelle!
Ma in fondo sappiamo che non è cosi, che una società solo di idee è una società di pazzi. E’ una società che non tiene conto della realtà: in positivo, degli interessi e degli affetti; in negativo, delle connivenze e delle complicità, che agitano la vita degli uomini. Da dove ricaviamo questa convinzione contro tutto quello che viene esplicitamente detto?
Dal buon senso, dalla esperienza elementare di tutti giorni II problema però è che così, stante il suono tanto falso dei discorsi pubblici, siamo inclini a prestare più attenzione alle intercettazioni telefoniche, che rivelano le uniche società vere, di interessi e appartenenze, quelle segrete. Così non va, non va proprio.
E’ troppo e troppo giustificalo lo spazio per gli inquisitori, agenti segreti, detective e simili. La realtà non può essere lasciata al di là del buco di una serratura; deve essere portata al di qua, in campo aperto. E’ proprio vero che “Se ci fosse un’educazione, il popolo starebbe meglio”. Diamocela.