L’Osservatore Romano, 31 marzo 1 aprile 2008
A colloquio con il vescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense
di Monica Mondo
Parliamo con lui di educazione, rileggendo la Lettera del Papa ai fedeli di Roma “sul compito urgente della formazione delle nuove generazioni”, ricordando i suoi maestri, e una pagina di biografia che le quarte di copertina dei numerosi suoi libri non raccontano. “I valori fondamentali li ho imparati in famiglia. Il papà, la zia, la mamma, da cui ho attinto la capacità di mettermi in preghiera, in silenzio.
Se si sfoglia il dizionario di teologia fondamentale, la voce sul silenzio è scritta da me. Ho recuperato il suo valore teologico, ma il primo insegnamento viene da mia madre, che ogni giorno si ritirava in un cantuccio, col suo libro di preghiere”.
La scuola è un professore di filosofia, padre Antonio Gentili, che gliel’ha fatta amare. E soprattutto il maestro scelto, von Balthasar, “la mia grande guida, anche se non è mai stato mio insegnante. La mia tesi di laurea e poi quella di dottorato, sono state su di lui. Ho letto tutto, tutto quello che lui ha scritto, ho le sue lettere…”.
Affrontiamo innanzitutto il tema della tradizione in cui deve fondarsi ogni educazione e in cui si radica la missione di questa università: “Realizzare una sintesi intelligente di studio e vita, tra ricerca della verità ed esperienza esistenziale”. Ci parli dell’importanza della tradizione. Da lì parte la riflessione del Papa.
Senza tradizione non c’è storia, perché il progresso cui l’uomo di oggi tende è realizzabile se si valorizza il frutto delle ricerche, della vita delle generazioni precedenti. C’è uno sviluppo, nella storia del pensiero, c’è una lenta progressione dinamica: volutamente uso un termine prestato dalla fisica perché significa che c’è un moto iniziale, che deve andare avanti, proseguire. La tradizione è la condizione perché nello sviluppo dinamico non ci sia alterazione di concetti. Una civiltà coerente, una cultura degna di questo nome cresce nella misura in cui il passato è condizione delle possibilità del presente.
È tuttavia una parola che sa di antico, occorre renderla nuova, viva, rammenta il Papa. Come rafforzarla nei più giovani, attraverso l’esercizio di una critica non soltanto distruttiva?
La tradizione è la capacità di generare e di mantenere attiva la trasmissione da una generazione all’altra. È qualcosa di vivo, se non è viva non è tradizione. Ci troviamo in un periodo in cui sentiremo presto la nostalgia della tradizione, cioè quei valori fondamentali che costituiscono l’esistenza di una persona e danno senso alle domande sull’esistenza. È vero, c’è stato un momento in cui il concetto di tradizione è diventato spunto per una rottura con il passato. È un errore ripetuto in diverse epoche, che per mostrare l’originalità del presente si debbano rompere radici e legami. La natura non procede per salti, ma con regolarità. Se alteriamo lo sviluppo della natura non riusciamo più a governarla. Di un bambino non si può fare un uomo, di un adolescente neppure.
Nonostante la negazione del principio di autorità, frutto di un’idea di libertà stravolta, e pericolosa per la persona e per la società, “i giovani non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita”. Anche chi non crede, cerca di credere. E tutti cercano un’autorità.
A me piace sempre andare all’origine del significato delle parole. Autorità viene dal latino augere, cioè crescere. Quindi è ciò che consente alla singola persona di crescere, non di essere sottomessa. Altrimenti è autoritarismo. Ci vuole invece autorevolezza, per poter essere riconosciuti come autorità. Non solo i giovani non vogliono essere lasciati soli, ma la società nel suo insieme sente fortemente il problema della solitudine. Pensiamo proprio al tema dell’educazione: la solitudine è la prima nota che si manifesta, nella famiglia, nella scuola, nella comunità cristiana. Sono sacche di solitudine che si sommano e creano il disagio, la sfiducia che qualcosa possa cambiare. Per superare questo orizzonte c’è bisogno di una circolarità formativa: ricreare le condizioni per cui scuola, famiglia, società siano in grado di comunicare e di testimoniare una corresponsabilità.
Responsabilità quindi non come colpa, che mortifica e frena, ma come volontà di rispondere a una chiamata.
Io sono realista, e amante della positività. Dobbiamo chiederci: che risposte possiamo dare agli uomini del nostro tempo? Siamo alla chiusura della terza epoca della storia dell’umanità, dopo quella antica, medievale, moderna. E adesso? È inevitabile che nei momenti di passaggio epocale ci sia crisi. Ma il Signore ha messo noi, e non altri, a vivere questo momento. Non possiamo rifugiarci nel passato né fuggire dalle responsabilità che ci sono date, oggi, per il futuro.
Benedetto XVI individua nel relativismo la crisi del nostro tempo. È una tentazione per tutti, anche per la Chiesa.
Ma dev’essere anche una provocazione a recuperare profondamente la nostra identità, a vivere più intensamente il senso di appartenenza. Queste due realtà devono camminare insieme. Se si vive solo l’identità c’è il rischio di rinchiudersi. Se si vive solo l’appartenenza c’è il rischio di non riconoscersi per quel che realmente si è: ci sono delle appartenenze puramente sociologiche, non sostenute dall’identità. Mentre l’esigenza di non sentirsi soli, quindi di appartenere, ci deve richiamare a un’identità di vita, di fede per i credenti. Questa non annulla l’identità personale, anzi, il Cristianesimo esalta l’identità dell’uomo. Per questo noi non abbiamo problema ad immetterci nelle diverse culture, con rispetto, trasformandole, orientandole, ma sempre assumendole tutte. Io sono profondamente italiano, per nascita, l’essere cristiano mi appartiene per scelta. L’una e l’altra cosa non sono in contraddizione.
E il rispetto, il valore del dialogo, non sono in contraddizione col riconoscimento della verità.
Chiunque di noi presto o tardi ha bisogno di certezze. Non possiamo fondare la nostra vita sulle ipotesi. “Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano”, scrive Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio. Presto o tardi dobbiamo fare i conti con la verità.
Torniamo al concetto di autorità, che non esclude il riconoscere gli errori, riprenderli, non “condividerli, come fossero le frontiere del progresso dell’umanità”. La disciplina è necessaria.
Non la chiamerei disciplina, perché rischiamo di utilizzare un apparato linguistico non più comunicabile, che non lascia recepire il contenuto. Parliamo di stile di vita. Dare un metodo alla propria vita è espressione di libertà. La libertà è la condizione per dover scegliere. Scegliere significa prendere una cosa e lasciarne un’altra. La mia espressione di libertà si manifesta quindi nel saper rinunciare. Solo così costruisco la mia identità, mi rendo consapevole di esercitare la libertà. Si tratta quindi di una rinuncia non fine a se stessa, ma per crescere, per non restare in un’infanzia perenne, senza possibilità di decisione per la vita. Così come non sarò mai libero se non vedrò la libertà finalizzata alla verità su me stesso.
Queste parole, che educano, sono una proposta se fondate su una speranza affidabile, dice Benedetto XVI, e lo sperimentiamo nella vita. Come comunicare questa speranza attraverso degli incontri che segnino la traccia della nostra vita, come avvenne per Giovanni e Andrea sulle rive del Giordano?
Questo è il culmine del cristianesimo. Penso sempre che noi cattolici non abbiamo grandi network mediatici, grandi testate giornalistiche per comunicare. La nostra forza è nell’incontro interpersonale. Nell’ambito della trasmissione della fede sono due persone che si incontrano, e l’una risulta credibile nel momento dell’annuncio. Nessun sistema mediatico può convertirmi: da Gesù Cristo ai giorni nostri, la fede si è trasmessa attraverso un incontro di libertà, se manca questo, manca la spina dorsale del cristianesimo.
Alla radice della crisi dell’educazione c’è una crisi di fiducia nella vita, spiega il Pontefice. Ma la speranza potrebbe essere utopia, o consolazione, nei tanti momenti di bisogno.
No, è la certezza che la promessa di Dio viene mantenuta. Dobbiamo saper parlare della fede rivestendola con gli abiti della speranza. Le persone non credenti che ho incontrato erano piene di speranza, volevano da me un segnale di speranza. Non è un caso che san Paolo nella Lettera ai Romani parli del Dio della speranza. È Dio, che spera per noi. Dopo che ha dato tutto, che ha dato suo Figlio, inchiodato sulla Croce, questo Dio spera che il dono di sé non sia vano. Spera che gli uomini accettino la sua parola, che questa creazione, pur sotto la caducità del peccato, possa essere riportata al suo splendore. Cosa c’è di più bello?
Se Dio spera, questa è la nostra missione, dare segni di speranza. Fin dall’inizio la Chiesa ha annunciato Cristo risorto, ma l’ha reso visibile attraverso l’Eucaristia. C’è il momento dell’annuncio, ma corroborato, fortificato dal segno concreto posto in atto. Si annuncia il senso del dolore, l’amore, ma ci vuole anche una Madre Teresa che per le vie di Calcutta prende quelli che si trovano per strada e dona loro il biglietto, come diceva, da presentare a san Pietro per entrare in Paradiso. Se c’è solo il segno, certamente quel segno rimane ambiguo. Può essere un segno di solidarietà, non di carità. Ma se c’è solo l’annuncio senza il segno, non andiamo incontro alla concretezza della vita.
(A.C. Valdera)