Chi realmente detiene il potere in Iran (il rahabar Ayatollah Khamenei) e il valore da dare alle elezioni presidenzial. Il viaggio del segretario di Stato americano Rice inaugurato dalla diffida agli ayatollah. Prossime tappe Arabia, Egitto e Israele
Per anni, la realtà costituzionale iraniana (“Allah è il detentore del potere e, in ragione dell’occultamento dell’Imam Al Mahdi, il suo vero rappresentante è il rahabar, che esercita la tutela di giureconsulto e di pastore dei musulmani”) è stata ignorata o mal compresa dalle amministrazioni americane e europee e ha favorito illusioni sulla svolta “riformista” di Khatami.
Ma dopo l’11 settembre, con pragmatismo, George W. Bush ha preso atto che Khatami si limitava a parlare soltanto, e che la ragione di questa impotenza non era soltanto nell’uomo, ma nel sistema. In Iran ogni riforma del governo, anche se votata dal Parlamento, può essere annullata da chi ha più potere del governo e del Parlamento: il rahabar Khamenei, che può dimissionare in ogni momento il presidente della repubblica, sciogliere il Parlamento e controlla tutto il potere reale (dirige l’apparato giudiziario, le forze armate, i pasdaran e la televisione).
Condoleezza Rice ha dunque chiaro che tutte le recenti profferte di trattativa con gli Stati Uniti di Hashemi Rafsanjani sono pur sempre prive del “potere di firma”, perché il presidente della Repubblica iraniana non è titolare di alcun potere, se non amministrativo. Sa bene che, una volta eletto presidente, Rafsanjani può trattare sull’atomica, anche firmare un accordo, ma che la sua firma non ha alcun valore, se non è controfirmata da Khamenei.
Per questo Rice giovedì ha presentato all’Iran una piattaforma preliminare a ogni eventuale normalizzazione dei rapporti: “Il sistema politico in Iran diventi più aperto e trasparente; il governo rispetti gli obblighi a non cercare di dotarsi di armi nucleari; l’Iran diventi un buon vicino delle nuove democrazie in Iraq e Afghanistan e infine cessi di appoggiare i gruppi terroristici e “rigettisti” contrari alla realizzazione di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi”. Tutti punti su cui Rafsanjani può tentare una mediazione, ma su cui Khamenei e l’apparato rivoluzionario, asse portante del regime, non possono transigere.
Basta guardare ai “gruppi rigettisti” filoiraniani che operano in Libano e Palestina: essi ruotano attorno ad Hezbollah, sono strettamente legati ad Hamas e alla Siria baathista e costituiscono il nucleo di resistenza a qualsiasi tentativo di pacificazione con Israele, in primis a quelli tentati dal loro concorrente diretto: Abu Mazen.
Sono dunque finite le illusioni “riformiste”, chiusi gli spazi per condurre un gioco levantino, puntato solo a tenere aperta l’opzione della “rivoluzione islamica permanente” (motivazione che ha spinto 10 mesi fa Rafsanjani ha esaltare l’insurrezione di Moqtada Sadr in Iraq, poi miseramente fallita). Ora i “4 punti sull’Iran” di Rice danno anche una chiara indicazione degli obiettivi della sua missione in Arabia Saudita, Israele, Egitto e Giordania, in cui tratterà molti dossier economici, vincolati però all’avvio di serie riforme democratiche; come è previsto dalla Strategia per il Grande medio oriente che affianca l’impegno militare americano in Iraq e Afghanistan.