Ciclone in Bangladesh, quello che non ci hanno detto

ciclonesvipop.org, 29 novembre 2007

In un recente documento dell’organizzazione meteorologica mondiale si può leggere che i parziali dati a disposizione sembrano indicare che non vi sia alcun significativo incremento della frequenza di cicloni tropicali e che la comunità scientifica risulta essere profondamente divisa in merito all’incremento dell’intensità dei fenomeni.

di Francesco Ramella

Ancora una volta, la scorsa settimana, il Bangladesh è stato colpito da un ciclone che verosimilmente ha causato oltre diecimila decessi e costretto cinque milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni. Analoghe calamità hanno più volte colpito il paese nel passato. L’episodio più devastante risale al 1970, quando un’onda alta oltre sei metri sommerse Chittagong, uno dei maggiori centri urbani, provocando la morte di trecentomila persone ed oltre nove milioni di sfollati.

Per quanto grave, il bilancio della scorsa settimana è stato mitigato grazie alla costruzione lungo la baia del Bengala di rifugi, ove è riparata una parte della popolazione, e ad un sistema di allertamento, sebbene non tutti abbiano raccolto l’invito ad allontanarsi dalle zone a rischio pensando che si trattasse di un altro falso allarme dopo quello dello tsunami di due mesi or sono.

Come prevedibile, non sono mancate le voci di coloro che hanno posto in relazione la tragica calamità naturale con il riscaldamento globale cui andrebbe attribuita la responsabilità di un aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni naturali estremi.

Tali affermazioni sono in contrasto con quanto sostenuto in un recente documento dell’organizzazione meteorologica mondiale, nel quale si può leggere che i parziali dati a disposizione sembrano indicare che non vi sia alcun significativo incremento della frequenza di cicloni tropicali e che la comunità scientifica risulta essere profondamente divisa in merito all’incremento dell’intensità dei fenomeni. Si aggiunge inoltre che nessun singolo fenomeno può essere posto in diretta relazione con il riscaldamento globale.

Ma, ancora più importante della possibile correlazione fra cambiamenti climatici e gravità di eventi estremi, risulta essere la valutazione delle conseguenze per l’umanità di tali fenomeni. E, sotto questo punto di vista, è fuori di dubbio che nello scorso secolo il mondo sia diventato un posto assai più sicuro rispetto al passato, come testimoniano i dati contenuti nel database curato, a partire da 1988, dal centre for research on the epidemiology, che raccoglie i dati relativi ad oltre 12.800 disastri accaduti nel mondo a partire dal 1900.

Infatti, se si considerano tutti i fenomeni estremi potenzialmente correlati con il riscaldamento climatico (siccità, temperature estreme, inondazioni, tempeste di vento), si può constatare come tutti i decenni anteriori al 1970, con l’eccezione di quello compreso fra il 1910 ed il 1920, hanno fatto registrare un numero annuo di decessi superiore a centomila, con punte massime di quattrocentomila morti per anno fra il 1920 ed il 1940.

Negli ultimi tre decenni del secolo scorso in media il numero di morti è stato intorno ai 50mila. Tali valori non riflettono peraltro nella sua interezza il miglioramento verificatosi in quanto, come noto, nel periodo considerato, la popolazione mondiale è cresciuta di quasi quattro volte passando da 1,5 a quasi 6 miliardi di persone: se teniamo conto di questo fattore, possiamo concludere che il rischio di perdere la vita a causa di un evento estremo tra il 1990 ed il 2000 era di venti volte inferiore rispetto alla prima metà del secolo ossia si era ridotto del 95%. Tale risultato è stato conseguito nonostante oggi sia molto maggiore rispetto al passato la quota di popolazione che vive in aree costiere che sono esposte a rischi assai più elevati.

Altro elemento che non deve poi essere trascurato è il fatto che il rischio correlato ad eventi estremi è molto piccolo se paragonato alle altre cause di morte. Se ogni anno perdono in media la vita cinquantamila persone a causa di eventi estremi, di gran lunga maggiore è il numero di persone che muoiono a causa di malattie quali la tubercolosi (1,5 milioni), l’aids (2,8 milioni), la malaria (1,3 milioni), le infezioni respiratorie (4 milioni) e le deficienze nutrizionali (500mila).

Tenuto conto del fatto che, nell’ipotesi peggiore, solo una piccola percentuale dei decessi causati da eventi estremi è potenzialmente riconducibile al riscaldamento globale e poiché, quali che siano le azioni messe in atto per ridurre le emissioni di gas serra, non vi saranno ricadute apprezzabili per molti decenni, risulta evidente come sia del tutto fuorviante considerare il cambiamento climatico il problema al quale oggi deve essere data priorità.

Come ha più volte sottolineato Bjorn Lomborg, se il nostro obiettivo è quello di migliorare “lo stato di salute del pianeta”, sarebbe preferibile destinare le risorse disponibili per porre rimedio a problemi di gran lunga più gravi rispetto al clima ma che, spesso, tali non ci sembrano perché meno “spettacolari”.

E, anche limitandosi all’ambito, pur non prioritario, degli eventi estremi, azioni volte a migliorare la capacità previsiva ed a limitarne le conseguenze negative oltre che a favorire la crescita economica sono, perlomeno nel medio periodo, di gran lunga più efficaci di quelle che si pongono l’ obiettivo della riduzione dell’eventuale impatto dell’uomo.

Come abbiamo visto, grazie allo sviluppo economico e all’accresciuto bagaglio delle nostre conoscenze scientifiche, nei paesi sviluppati siamo oggi in grado di difenderci dalle bizzarrie della natura molto meglio che in passato. Se il ciclone Sidr avesse colpito la florida e non il Bangladesh, le conseguenze sarebbero state di gran lunga più limitate.

Non c’è mai stato un clima “buono”: se anche si dimostrasse che con le nostre emissioni lo abbiamo reso un po’ più turbolento, visti i risultati conseguiti, possiamo concludere che ne è valsa la pena. Un mondo ricco e caldo è senza dubbio migliore di uno povero e freddo.