La storia vera di tre donne – l’autrice, sua madre, sua nonna – le cui sorti rispecchiano un secolo di vita cinese. Un racconto che offre un approfondito quadro delle persecuzioni, della sofferenza e della paura all’epoca di Mao e dell’ottusa ideologia comunista.
Introduzione all’edizione 2006
Avevo sempre sognato di scrivere, ma all’epoca in cui vivevo in Cina l’idea di scrivere testi destinati alla pubblicazione sembrava impossibile. In quegli anni il Paese era soggetto alla tirannia di Mao, e la maggior parte degli scrittori subì sofferenze inaudite nel corso di interminabili persecuzioni politiche. Molti di loro vennero denunciati, altri inviati nei campi di lavoro, e alcuni sottoposti a pressioni tali da arrivare al suicidio.
Nel biennio 1966-67, durante la «grande purga» di Mao, erroneamente definita «Rivoluzione Culturale», la maggior parte dei libri trovati nelle abitazioni private fu data alle fiamme. Mio padre, che era stato un funzionario del Partito comunista ma era caduto in disgrazia, fu costretto a bruciare la sua biblioteca che adorava, e quella fu una delle cause principali che scatenarono la sua follia. Anche scrivere per se stessi era estremamente pericoloso. Fui costretta a strappare la prima poesia che avevo scritto, il 25 marzo 1968, giorno del mio sedicesimo compleanno, e a gettare i pezzi di carta nel gabinetto perché i persecutori di mio padre erano venuti a compiere un’irruzione nella nostra abitazione.
Eppure provavo l’impulso irresistibile di scrivere, e continuai a farlo con una penna immaginaria. Negli anni seguenti, lavorai come contadina ed elettricista. Mentre spargevo letame nelle risaie e controllavo la distribuzione della corrente in cima ai pali, limavo nella mia mente lunghi periodi, o imparavo poesie a memoria.
Giunsi in Inghilterra nel settembre 1978. Mao era morto due anni prima, e la Cina cominciava a uscire dall’isolamento soffocante da lui imposto. Per la prima volta dalla fondazione della Cina comunista, le borse di studio per l’estero vennero assegnate in base a meriti accademici, anziché politici. Dopo aver superato gli esami, riuscii a lasciare il Paese: forse ero la prima persona che partisse dopo il 1949 dalla provincia blindata del Sichuan, che allora contava circa novanta milioni di abitanti, per andare a studiare in Occidente. Grazie a quel colpo di fortuna incredibile, finalmente avevo la libertà di scrivere, e di scrivere quel che volevo.
E tuttavia fu proprio in quel momento che la passione di scrivere mi abbandonò. Anzi, l’ultima cosa che desideravo fare al mondo era scrivere: per me avrebbe voluto dire ripiegarmi su me stessa e indugiare su una vita e su un periodo ai quali detestavo ripensare. Stavo cercando dì dimenticare la Cina. Ritrovandomi in un Paese che mi sembrava un altro pianeta, ne ero stata conquistata all’istante, e non provavo altro desiderio che dedicare ogni minuto a immergermi in quel nuovo mondo.
Tutto quello che vedevo di Londra mi entusiasmava. La prima lettera che scrissi a mia madre conteneva un elogio esuberante di alcuni davanzali e giardini fioriti che costeggiavo per raggiungere il numero 42 di Maida Vale, un edificio di proprietà dell’ambasciata cinese dove ero stata alloggiata. A quell’epoca i fiori non erano ancora tornati ad abbellire la maggior parte delle case cinesi.
Nel 1964 Mao aveva stigmatizzato la coltivazione dei fiori come un’attività «feudale» e «borghese», ordinando: «Eliminate il più possibile i giardinieri». Da bambina, avevo dovuto unirmi ai compagni nell’estirpare l’erba dai prati della nostra scuola, e avevo visto i vasi di fiori scomparire dagli edifici. Mi sentivo terribilmente triste, eppure non solo mi sforzavo di nascondere i miei sentimenti, ma mi rimproveravo di avere istinti contrari alle istruzioni di Mao, attività mentale alla quale ero stata condizionata con il lavaggio del cervello, così come gli altri bambini cinesi.
Anche se al tempo in cui ero partita si poteva esprimere l’amore per i fiori senza essere condannati, la Cina era ancora un Paese squallido, dove in pratica non si vedevano piante nelle case e non esistevano venditori di fiori. La maggior parte dei parchi era costituita da tratti deserti di terreno brullo.
Quindi fu con indescrivibile piacere che, il primo giorno in cui mi fu permesso di uscire, mi concessi una lunga passeggiata nella vasta distesa di Hyde Park. Là, sotto quei maestosi alberi di castagno, ogni filo d’erba e ogni petalo di fiore mi facevano impazzire di gioia. Un giorno rischiai un severo rimprovero, o anche peggio, proponendo al supervisore politico del gruppo al quale appartenevo di trasferire le sedute di indottrinamento del sabato, definite «studi politici», sui prati dei celebri giardini di Kew.
A quell’epoca, le sedute settimanali di indottrinamento, che in Cina mi annoiavano a morte, erano ancora obbligatorie, e a Londra noi che venivamo dal continente eravamo ancora soggetti a un controllo simile a quello vigente in carcere. Ci era proibito andare da qualsiasi parte senza autorizzazione, oppure da soli. La disob-bedienza agli ordini comportava il rischio di essere rimandata in Cina in disgrazia, con l’esistenza rovinata.
Cominciai a essere ossessionata dall’idea di escogitare piani per forzare rinterpretazione delle regole, o addirittura violarle. E a volte ci riuscii, come nel caso dei giardini di Kew, dal momento che anche il supervisore politico lo desiderava molto, sebbene temesse di avere problemi con l’ambasciata. Il risultato fu che un gruppo di giovani, uomini e donne, vestiti con le informi divise blu «alla Mao» si ritrovò seduto – in modo forse incongruo, ma felice – vicino a un roseto dagli splendidi colori.
Non ci furono conseguenze spiacevoli. Ero fortunata, perché quello era proprio il periodo in cui la Cina era travolta da cambiamenti drammatici. La svolta avvenne alla fine del 1978, quando la nazione respinse l’essenza stessa del maoismo. Durante l’anno successivo riuscii a ridurre i limiti delle restrizioni che ci erano imposte, con qualche rischio ma senza ripercussioni. Un obiettivo particolare sul quale avevo messo gli occhi era il pub inglese, perché ci era stato ordinato espressamente di non entrarvi.
A quei tempi la traduzione cinese di pub, jìu-ba, suggeriva un locale malfamato, dove si esibivano donne nude. Io ero tormentata dalla curiosità. Un giorno mi allontanai di soppiatto, e feci una corsa fino al pub di fronte al nostro college. Aprii la porta ed entrai con aria furtiva, ma non vidi nulla di sensazionale: soltanto dei vecchi seduti a bere birra. Restai piuttosto delusa.
Probabilmente ero la prima studentessa proveniente dalla Cina continentale che fosse uscita da sola. Un dipendente del college che frequentavo – oggi la Thames Valley University – mi invitò ad andare a Greenwich con lui. Seguendo le regole, gli domandai se potevo «portare un’amica». Lui mi fraintese, e rispose: «Con me sei al sicuro». Io ero in imbarazzo, ma non potevo dargli spiegazioni.
Avevamo l’ordine di non dire a nessuno che era tassativo portare con sé uno chaperon; dovevamo inventare delle scuse. D’altra parte io non volevo mentire, e inoltre desideravo disperatamente uscire senza scorta. Cosi implorai l’attaché dell’ambasciata, responsabile degli studenti, di lasciarmi andare; altrimenti, spiegai, l’inglese avrebbe pensato che noi cinesi non avevamo fiducia in lui, o addirittura diffidavamo delle sue motivazioni, il che sarebbe stato negativo per l’amicizia anglo-cinese e per la reputazione della nostra madrepatria socialista.
Alla fine di quel fervorino, l‘attaché rispose di si, raccomandandomi però di essere discreta. La mia sensazione era che il vero motivo per cui aveva acconsentito fosse che lui stesso non amava molto il sistema. Infatti aveva fatto qualche allusione in proposito confidandosi con me, una sera, quando ci eravamo trovati soli nell’ambasciata. Vent’anni prima si era innamorato dì una ragazza, ma proprio alla vigilia delle nozze lei era stata condannata come «deviazionista di destra» durante una campagna politica.
Celebrare comunque il matrimonio avrebbe significato la fine di una carriera, che si prospettava luminosa. La ragazza aveva insistito per rompere il fidanzamento e lui, dopo lunghe e tormentate riflessioni, aveva accettato, diventando un diplomatico di successo. Ma non l’aveva mai dimenticata, e non era mai riuscito a perdonarsi quella decisione. Mentre ne parlava, aveva le lacrime agli occhi.
Non appariva strano che un funzionario di ambasciata che mi conosceva appena potesse mettere a nudo il suo cuore. In quegli anni, le persone erano così oppresse dalle tragedie della loro vita da provare l’impulso improvviso di confidarsi quando avvertivano la vicinanza dì uno spirito affine. La liberalizzazione in atto in Cina stava aprendo le chiuse alla marea di ricordi della popolazione. Inoltre questo fece sì che l’attaché corresse il rischio di concedermi un permesso del tutto contrario alle regole, quello di uscire da sola dal mio alloggio.
Ancora oggi ho un ricordo nitido di quella gita a Greenwich. Fu una giornata come tutte le altre: il tragitto in macchina, una passeggiata e le foto a cavallo del meridiano zero, con un piede in ciascuno dei due emisferi terrestri, lo, però, avevo le vertigini per la tensione. Stavo continuamente in guardia per osservare chiunque avesse l’aspetto di un cinese, e in base all’abbigliamento cercavo dì valutare in fretta se veniva dalla Cina continentale; se decidevo di sì, il che avveniva fin troppo spesso (allora in Occidente erano ben pochi i cinesi che provenissero dalla Cina comunista), mi voltavo per evitarlo, sforzandomi nello stesso tempo di comportarmi con la massima naturalezza nei confronti del mio compagno.
Avevo paura che qualcuno potesse notarmi e fare rapporto all’ambasciata, nel qual caso per me sarebbe stata la fine, e anche quel simpatico attaché avrebbe potuto trovarsi nei guai. Un picnic esotico a base di sandwich al formaggio su un immenso prato sereno fu il momento più snervante della giornata, perché ero bloccata lì senza nessun riparo disponibile.
La paura, comunque, non mi impedì di vivere altre avventure, e non per amore del rischio, ma semplicemente perché non potevo farne a meno. A mano a mano che le regole si allentavano, uscivo sempre più spesso da sola, e cominciai ben presto a fare amicizia con persone che provenivano da percorsi di vita diversi. Alla maggior parte di loro dicevo di essere sudcoreana, e non cinese.
A parte la natura semiclandestina delle mie attività, non volevo che la curiosità della gente si concentrasse sul mio Paese d’origine, che a quei tempi affascinava il pubblico quanto un altro pianeta, a causa del suo isolamento ermetico. Volevo mescolarmi alla folla senza dare nell’occhio, come una qualsiasi abitante di Londra. Riuscii a farlo, e la mia prima e più potente impressione fu che l’Inghilterra fosse una società meravigliosamente priva di classi. Io ero nata in seno all’elite comunista, e vedevo bene come la Cina di Mao fosse classista e gerarchica.
Ognuno era inserito in una categoria rigida: in ogni modulo, vicino alla casella «data di nascita» e «sesso», c’era invariabilmente la colonna «origini famigliari». Era questo a decidere la carriera, i rapporti sociali e la vita di una persona. Mentre molti rappresentanti dell’elite tendevano a essere boriosi, quelli che avevano la sfortuna di nascere in una «cattiva» famiglia erano destinati a una sorte infelice. Il risultato di quell’orribile realtà era che ci sentivamo tutti ossessionati dall’idea di sapere a quale famiglia apparteneva ciascuno dì noi, e spesso quella era la prima domanda che si sentiva fare in conversazione. Invece nel fare conoscenze a Londra non avvertii affatto quella pressione. Sembravano tutti straordinariamente uguali, e non avrebbero potuto curarsi di meno delle origini famigliari degli altri.
Col passare degli anni le mie opinioni in proposito sono alquanto cambiate, ma non credo che allora fossi del tutto abbagliata dalla novità. Nonostante la loro tradizione di differenze sociali, gli inglesi mantengono la dignità, e i non privilegiati non vengono maltrattati e calpestati come sotto Mao. E l’equità della società, e il peso che la nazione attribuisce a questo concetto, rappresenta un valore che ancora oggi la Cina non riesce a eguagliare.
Dunque fu con razionalità ed emotività insieme che m’innamorai dell’Inghilterra. Il primo anno fu una girandola di emozioni inebrianti. Visitai tutti i musei e le gallerie segnalati nella guida turistica, e andai a vedere tutti gli spettacoli che offrivano prezzi di favore agli studenti. Accettavo con piacere di camminare per ore intere da un capo all’altro di Londra per risparmiare sul biglietto dei trasporti, perché ogni strada e ogni edificio erano per me motivo di interesse.
Facevo capolino nei night più sordidi e sbirciavo i prodotti esposti nei sex shop di Soho. La mia prima visita in discoteca fu un delirio. Persino un normale cinema mi sembrava una grotta di Aladino, dove le luci fioche sulle vecchie poltrone rosse e le strane dorature qua e là facevano pensare a misteri e tesori. Facevo domande bizzarre, come ho compreso in seguito, e imparavo a conoscere persone che appartenevano a culture diverse.
L’ultimo tabù che mi restava da violare era avere un ragazzo straniero, cosa che dovetti fare in segreto, sempre aspettandomi una catastrofe. Un ammonimento che avevo portato con me dalla Cina, e nel quale credevo ciecamente, era che chiunque di noi tentasse di avere un innamorato straniero sarebbe stato drogato e riportato in Cina dentro un sacco di iuta. Non appena mi avvicinavo anche lontanamente a Portland Piace, dove sorge l’ambasciata, mi sentivo le gambe molli come la gelatina, e se ero in macchina mi rannicchiavo nel sedile in modo che la testa non fosse visibile dal finestrino.
Fu allora che cominciai a truccarmi; ero convinta che il trucco rappresentasse un travestimento soddisfacente nei confronti dell’ambasciata (la quale in effetti non esercitava tutta la sorveglianza che immaginavo a quell’epoca). Il mio viso, generosamente dipinto di rossetto scarlatto o porpora e ombretto verde oro, risultava quasi irriconoscibile anche a me stessa. Inoltre era divertente giocare con il trucco, mentre mi dedicavo con passione a un dottorato di linguistica.
Mi era stata offerta una borsa di studio dall’università di York, una cittadina che, prima ancora di vederla, esercitava già un fascino incredibile su di me, con la leggendaria cattedrale, le mura (quanto di più simile esistesse alla Grande Muraglia, per quanto avevo sentito dire) e la guerra delle Due Rose. All’epoca, le pratiche relative alle borse di studio straniere dovevano passare attraverso il governo cinese, e le offerte non potevano essere accettate a titolo individuale.
Tuttavia, grazie a persone come il comprensivo attaché dell’ambasciata, e al clima di crescente distensione che si affermava in Cina, mi fu concesso un benestare eccezionale per l’epoca. Il risultato fu che nel 1982, quando portai a termine la tesi, diventai la prima cittadina della Cina comunista ad aver ricevuto un dottorato da un ateneo inglese.
Imparai molto di più che non le sole teorie linguistiche (che in seguito, devo ammettere con vergogna, ho dimenticato quasi del tutto). Ricordo il giorno che andai a discutere il progetto della tesi con il mio supervisore, il professor Le Page, che, con la sola sensibilità che irradiava dalla sua persona, aveva già cominciato a dissipare l’ansia perenne e il panico improvviso che mi schiacciavano.
Il suo atteggiamento di blanda ironia e autorevolezza tutt’altro che ostentata mi rassicuravano, come del resto tutto in Inghilterra, confermando che ero arrivata in un paese equo e non avevo nulla da temere. Sentendomi del tutto rilassata, parlai a lungo delle mie opinioni sulle teorie linguistiche che dovevo studiare. Lui rimase ad ascoltare, e alla fine mi chiese: «Può mostrarmi la sua tesi?» Restai sconcertata ed esclamai: «Ma non l’ho ancora cominciata!» Lui replicò: «Eppure ha già tutte le conclusioni».
Quella sola osservazione fu sufficiente a sciogliere il nodo scorsoio applicato al mio cervello da una «istruzione» totalitaria. In Cina non eravamo stati allenati a trarre le conclusioni dai fatti, ma a partire dalle teorie marxiste, o dal pensiero di Mao, o dalla linea del Partito, e negare, o addirittura condannare, i fatti che non concordavano con quelle teorie. Meditai su quel nuovo approccio alla conoscenza mentre tornavo a piedi verso la mia stanza, in un angolo dello splendido laghetto del campus, dove gli uccelli acquatici avevano formato una colonia sotto la mia finestra e mi svegliavano ogni mattina con il loro canto.
Ora volavano attraverso il cie-lo, un’immagine appropriata per la mia sensazione di aver trovato il modo giusto di pensare. Mantenere la mente aperta: era così semplice, eppure ci avevo messo tanto a scoprirlo.
Fu a York che una sera mi venne l’idea di scrivere un libro sulla mia vita. Ero stata invitata alla conferenza di un professore che era appena stato in Cina. Mostrò alcune diapositive di una scuola che aveva visitato, dove gli alunni seguivano le lezioni in una giornata invernale chiaramente gelida, all’interno di aule senza riscaldamento, con le finestre rotte. «Non hanno freddo?» aveva chiesto gentilmente il professore. «No» aveva risposto la scuola. La conferenza con diapositive fu seguita da un rinfresco, e una donna, forse sforzandosi di trovare qualcosa da dirmi, cominciò: «Qui lei deve sentire un gran caldo».
Quell’osservazione innocente mi ferì al punto che lasciai bruscamente la sala e piansi, per la prima volta da quando ero arrivata in Inghilterra. Non era tanto perché mi sentivo insultata, quanto perché mi aveva assalito un dolore cocente per i miei connazionali. Il nostro governo non ci trattava come esseri umani, e di conseguenza anche certi stranieri non ci ritenevano umani alla loro stessa stregua.
Ripensai alla vecchia osservazione che la vita dei cinesi costava poco, e allo stupore manifestato da un inglese per il fatto che il suo servo cinese trovasse insopportabile il mal di denti. Mi sentii furiosa ancora una volta per i tanti commenti ammirati degli occidentali che avevano visitato la Cina di Mao, sul fatto che i cinesi erano persone straordinarie, che amavano essere criticate, denunciate, «riformate» nei campi di lavoro… tutte cose che agli occidentali sarebbero sembrate altrettante sciagure.
Con quelle idee che mi turbinavano per la testa, rievocai la mia vita in Cina, la mia famiglia e tutte le persone che conoscevo, e in quel momento mi sentii struggere dal desiderio di raccontare al mondo le nostre storie e i veri sentimenti dei cinesi. L’impulso di scrivere tornò a farsi sentire. Tuttavia trascorsero anni prima che scrivessi Cigni selvatici. Inconsciamente resistevo all’idea di scrivere. Non ero in grado di scavare a fondo nella memoria. Durante la violenta Rivoluzione Culturale che ebbe luogo fra il 1966 e il 1976, la mia famiglia ha subito atroci sofferenze.
Mio padre e mia nonna sono andati incontro a una fine dolorosa. Io non volevo rivivere gli anni in cui mia nonna era stata malata senza ricevere cure, o la prigionia di mio padre, e la tortura di mia madre, costretta a stare in ginocchio su schegge di vetro. Le poche righe che riuscii a mettere giù erano superficiali e prive di vita. Non ne ero soddisfatta.
Poi, nel 1988, mia madre venne a Londra per stare con me. Era il suo primo viaggio all’estero. Volevo che si divertisse il più possibile, e dedicai molto tempo a portarla fuori. Qualche tempo dopo, però, mi accorsi che non sembrava più lei. Aveva qualcosa per la testa; era irrequieta. Un giorno declinò la proposta di accompagnarmi in un giro di spese e si sedette al mio tavolo da pranzo nero, sul quale splendeva un mazzo di narcisi dorati. Tenendo fra le mani una tazza di tè al gelsomino, mi disse che quello che desiderava di più era parlare con me.
Mia madre parlò ogni giorno per mesi interi. Per la prima volta da quando ero nata, mi parlò di sé e della nonna. Venni così a sapere che la nonna era stata la concubina di un generale, uno dei signori della guerra del tempo, e mia madre si era iscritta al movimento clandestino comunista all’età di quindici anni. Entrambe avevano condotto un’esistenza ricca e movimentata hi una Cina sconvolta da guerre, invasioni straniere, rivoluzioni, e poi da una tirannia totalitaria. Nel caos generale di quelle vicende, erano state coinvolte in storie d’amore tormentate.
Scoprii quali dure prove aveva dovuto sopportare mia madre, quante volte aveva visto la morte da vicino, e conobbi il suo amore per mio padre e i conflitti emotivi esistenti tra loro. Inoltre venni a sapere i dettagli strazianti della fasciatura dei piedi subita dalla nonna, di come le avevano schiacciato i piedi con una grossa pietra all’età di due anni per soddisfare gli standard di bellezza dell’epoca. Il turismo divenne lo sfondo delle nostre conversazioni.
Mentre visitavamo l’isola di Skye in Scozia e il lago di Lugano hi Svizzera, mia madre continuava a parlare, a bordo di aerei e automobili, a bordo di battelli, durante le nostre passeggiate e restando sveglia fino a tarda notte. Quando andavo a lavorare, lei restava a casa e parlava al registratore. Quando lasciò l’Inghilterra, aveva al suo attivo sessanta ore di registrazioni. Qui, al di fuori dei confini sociali e politici della Cina, era riuscita a fare qualcosa che non aveva potuto fare in tutta la sua vita: aprire la mente e il cuore
Ascoltando mia madre, mi sentii sopraffare dal suo desiderio struggente di essere compresa da me. Mi colpì anche il fatto che le sarebbe piaciuto davvero che scrivessi. Dava l’impressione di sapere che quanto mi stava davvero a cuore era scrivere, e m’incoraggiava a realizzare i miei sogni. Non mi incitava avanzando richieste esplicite, cosa che non rientrava nel suo modo di fare, ma fornendomi delle storie… e mostrandomi in che modo affrontare il passato. Sebbene avesse vissuto un’esistenza piena di sofferenze e di prove difficili, i suoi racconti non erano intollerabili o deprimenti, anzi, rivelavano una vena di forza che risollevava lo spirito.
Fu mia madre, in fondo, a ispirarmi la stesura di Cigni selvatici, la storia di mia nonna, di mia madre e mia, sullo sfondo dei turbolenti avvenimenti della Cina del ventesimo secolo. Per due anni versai la mia buona dose di lacrime, mi girai e mi rigirai notti intere senza chiudere occhio. Non avrei tenuto duro, se non fosse stato che ormai avevo trovato un amore che mi riempiva la vita e mi proteggeva con la sua profonda tranquillità.
Jon Halliday, il mio cavaliere senza armatura – giacché la sua forza interiore, al di là della dolcezza esteriore, è sufficiente a trionfare – è il tesoro più prezioso che ho trovato nel mio Paese adottivo, l’Inghilterra. Lui era lì, e tutto sarebbe andato bene… tutto, compresa la stesura di Cigni selvatici.
Nella stesura del libro mi sono affidata molto a Jon. L’inglese è una lingua che ho cominciato a studiare sul serio a ventun anni, in un ambiente del tutto isolato dal mondo esterno. Gli unici stranieri con i quali avevo parlato prima di venire in Inghilterra erano alcuni marinai nel porto di Zhanjiang, nella Cina meridionale, un’ex colonia francese dove i miei compagni di studi e io eravamo stati inviati a fare pratica di inglese per due settimane. Quando arrivai a Londra, anche se ero in grado di leggere senza problemi – 1984 fu uno dei pruni libri che divorai, meravigliandomi in continuazione di come la descrizione di Orwell si attagliasse perfettamente alla Cina di Mao – mi sfuggiva del tutto l’uso idiomatico dell’inglese.
I miei libri di testo in Cina erano stati scritti da persone che non avevano mai avuto contatti con stranieri, ed erano per lo più traduzioni dirette di testi cinesi. La lezione dedicata ai saluti, per esempio, forniva l’esatto equivalente delle espressioni da noi usate in Cina, che erano letteralmente: «Dove andate?» e «Avete mangiato?» Così salutavo le persone, nei primi tempi che vissi in Inghilterra.
Avevo bisogno dell’aiuto di Jon per scrivere un libro in inglese… e un buon libro, come speravo che fosse. Jon, scrittore e storico a sua volta, era indispensabile alla buona riuscita di Cigni selvatici. Dipendevo in tutto e per tutto dal suo giudizio, e dal suo occhio infallibile… i suoi splendidi occhi di gazzella. Quindi è impossibile esagerare la portata del debito che ho con lui per quanto riguarda la scrittura.
Dunque, mentre scrivevo Cigni selvatici avevo la benedizione del sostegno delle due persone più importanti della mia vita, mia madre e mio marito. Poco prima della pubblicazione, mia madre mi scrisse per dirmi che il libro poteva anche non avere successo, e forse la gente non gli avrebbe prestato troppa attenzione, ma non dovevo avvilirmi per questo; avevo fatto di lei una donna felice perché la stesura di quel libro ci aveva avvicinate. Quel solo fatto, mi spiegò, le era sufficiente. Aveva ragione. Avevo raggiunto un nuovo livello di rispetto e amore per lei. Ma proprio perché ora la conoscevo meglio, mi resi conto che quell’ostentata indifferenza ai riconoscimenti era il suo modo tipico di tentare di proteggermi da una potenziale sofferenza, e ne rimasi molto commossa.
Dal momento che non ero sottoposta ad alcuna pressione, e potevo contare sulla comprensione di mia madre, mi risparmiai l’ansia al pensiero dell’accoglienza che Cigni selvatici avrebbe potuto ricevere. Speravo che piacesse ai lettori, ma non indugiavo troppo su quel sogno. Jon era estremamente incoraggiante. Mi diceva: «E’ un gran libro», e io mi fidavo di lui come avevo fatto per ogni decisione relativa al testo, e per tutti gli altri aspetti salienti della mia vita.
Cigni selvatici si rivelò un successo. Nei dodici anni trascorsi da allora, molti mi hanno espresso il loro apprezzamento di persona o per lettera, facendo della mia vita una serie ininterrotta di onde di felicità estatica. Mia madre, che vive ancora a Chengdu, in Cina, riceve le visite di molte persone di varie nazionalità, diplomatici e giramondo con lo zaino in spalla, uomini d’affari e turisti. È stata invitata in nazioni diverse come l’Olanda e la Thailandia, l’Ungheria e il Brasile, senza contare l’Inghilterra.
In Giappone, ci furono donne che la fermarono per strada per rivolgerle parole che scaldavano il cuore, all’ombra di edifici altissimi e fiori di ciliegio, e una volta al ristorante ci fu portato un vassoio d’argento con un raffinato fazzoletto di seta da kimono, che i commensali seduti a un tavolo dall’altra parte della sala volevano farle firmare. In più di un aeroporto la gente l’ha aiutata a portare i bagagli prima di esprimerle la sua ammirazione. Ha trovato comprensione non soltanto nella figlia, ma anche in milioni di lettori sparsi in tutto il mondo.
L’unico lato triste in questo lieto fine, altrimenti perfetto, è che la pubblicazione di Cigni selvatici non è ammessa nella Cina comunista. A quanto pare, il regime considera il libro una minaccia al potere del Partito comunista. Cigni selvatici è una storia personale, ma riflette la storia della Cina nel ventesimo secolo, e il Partito non ne esce troppo bene. Per giustificare il suo ruolo, il Partito ha dettato una versione ufficiale della storia, alla quale, però, Cigni selvatici non si conforma. In particolare, il libro mostra come Mao ha governato in modo criminale il popolo cinese, anziché essere tutto sommato un leader grande e buono, come decreta Pechino.
Oggi, il ritratto di Mao è ancora esposto in piazza Tienan-men, nel cuore della capitale, e il suo corpo è custodito in quella immensa massa di cemento come un oggetto di culto. L’attuale governo continua a sostenere il mito di Mao, poiché si presenta come suo erede e da lui attinge la sua legittimità.
Ecco per quali motivi la pubblicazione di Cigni selvatici è proibita in Cina, così come qualsiasi accenno al libro o a me da parte dei media. Anche se nel corso degli anni molti giornalisti cinesi mi hanno intervistato o hanno scritto del libro, tutti questi testi – tranne due – sono rimasti nel cassetto, perché sono pochi i direttori e gli editori che osano violare il bando. Questo ha un effetto particolarmente deterrente perché l’ingiunzione che esprime il divieto, formulata in termini severi e con l’obbligo della massima segretezza, è stata cofirmata dal ministero degli Esteri, il che è estremamente insolito, se non unico, nel caso di un libro.
Questo dettaglio fa paura, perché gli interessati si convincono che avere a che fare con Cigni selvatici può causare guai seri, anche se al tempo stesso incuriosisce; il risultato è che molti, compresi quelli che lavorano per la censura di Stato, si sono procurati il libro per leggerlo.
Nella Cina di oggi si vive in modo incommensurabilmente migliore che in qualsiasi altro periodo a memoria d’uomo, e questo è un fatto che non cessa mai di riempirmi di gioia. Ma anche se i cittadini godono largamente della propria libertà personale, il Paese è tutt’altro che libero. La stampa e l’editoria sono soggetti a controlli molto più severi che nei decenni dell’era precomunista. Prima che fosse emesso il bando contro Cigni selvatici, nel 1994, un editore cinese aveva sottoposto ai censori un testo che conteneva alcuni tagli, per esempio le mie riflessioni su Mao.
Poiché in effetti quei commenti erano relativamente pochi, avevo dato il mio consenso ai tagli, a condizione che l’editore accettasse che sulla pagina corrispondente fosse precisato che «sono state tagliate le xxx parole seguenti». Si trattava di un espediente adottato dalla censura in passato, prima dell’avvento del comunismo; eppure l’attuale governo non ha permesso neanche questo. Alla fine la versione con i tagli è apparsa, ma soltanto come edizione pirata. Neppure i pirati hanno osato pubblicare una versione integrale.
Mi si dice che esiste un’altra edizione pirata, con il testo privo di tagli. Probabilmente è una fotocopia dell’edizione in lingua cinese pubblicata a Taiwan e anche a Hong Kong, dove la pubblicazione non è stata condizionata dall’annessione alla Cina avvenuta nel 1997. Molte copie sono state introdotte in Cina (ben di rado la dogana controlla i bagagli dei viaggiatori).
Io stessa vi ho portato alcune copie senza problemi, mentre quelle spedite per posta non sono mai arrivate. Un grande regista cinematografico cinese, per quale provo una straordinaria ammirazione, ha cercato di ricavare un film dal libro, ma invano, perché gli è stato detto che non era permesso e che, se lo avesse fatto all’estero, tutti gli altri suoi film e la sua troupe sarebbero stati messi al bando. Il risultato di questo giro di vite del regime è che la maggior parte dei cinesi non ha mai sentito parlare di Ogni selvatici.
Tuttavia il libro gode di una certa fama nel Paese, perché esistono fitte comunicazioni con il mondo esterno. È persino oggetto di sfruttamento da parte di impostori dall’occhio lungo. Uno di loro, a quanto pare, è un piccolo imbroglione che vive nella mia città, Chengdu. Come ha riferito il quotidiano locale il 6 maggio 2000, quest’uomo si presentava nei principali alberghi e siti turistici e, parlando correntemente l’inglese e un po’ di francese e giapponese, attaccava discorso con i turisti stranieri, sostenendo di essere un mio buon amico. Quindi li portava a pranzo, facendo addebitare ai turisti conti molto salati, mentre in seguito lui riceveva una percentuale dai ristoranti.
D’altra parte ci sono stati anche gesti commoventi. Una volta, dopo che Jon e io avevamo cenato in un ristorante di Pechino, lui stava per pagare il conto quando lo hanno informato che era stato già saldato da un giovane del posto che aveva detto di aver imparato molto sul proprio Paese «dal libro di sua moglie».
Sebbene Cigni selvatici sia stato bandito, chi lo legge o ne discute hi privato non viene perseguitato. Io posso viaggiare liberamente in Cina, senza essere sorvegliata… che io sappia, almeno. È chiaro che, mentre il libro in sé è considerato una minaccia, io non lo sono, perché non organizzo riunioni, non tengo conferenze e non svolgo lavoro clandestino. Esclusa dai media, sono una cittadina qualsiasi, priva di una voce pubblica. Oggi il regime è tutto concentrato sulla repressione e prende di mira soltanto le minacce esplicite, vale a dire qualunque cosa possa avere un’influenza sulla pubblica opinione e possieda la capacità potenziale di incoraggiare un’opposizione organizzata.
Questo approccio rappresenta un miglioramento enorme rispetto al governo di Mao, sotto il quale milioni di persone innocenti sono cadute hi disgrazia senza alcun motivo. Ma significa pure che il Partito è ben deciso a conservare il monopolio del potere, e che un miliardo e trecento milioni di cinesi dovranno continuare a vivere alla mercé di una manciata di uomini scelti in segreto. Anche il mondo deve contare sulla semplice fortuna che i leader di una grande potenza nucleare non siano mossi da intenti malvagi.
Scrivere Cigni selvatici ha reso più profondi i miei sentimenti per la Cina. Ora che ho esorcizzato il passato, non desidero più «dimenticare tutto». Mi sento irrequieta se resto lontana a lungo dal mio Paese. Quel luogo così antico eppure così carico di energia giovane, che ha sperimentato tante tragedie ed è riuscito a restare così intatto e ricco di ottimismo vitale, mi è entrato nel sangue. Ci torno un paio di volte l’anno. Non riesco però a sentirmi a casa e rilassarmi, e spesso quando torno a Londra mi sento svuotata, esausta.
L’esaltazione e l’eccitazione mi sfiniscono, così come l’esasperazione e l’indignazione, che laggiù mi accompagnano a ogni passo. Ciò che ha reso essenziali questi viaggi, al punto di creare una vera e propria dipendenza, è che dovevo visitare la Cina per compiere le ricerche relative a una biografia di Mao che Jon e io abbiamo scritto a quattro mani negli ultimi dieci anni, e che sarà pubblicata nel 2004.
Ho deciso di scrivere di Mao perché sono affascinata da quest’uomo che ha dominato la mia vita hi Cina e ha distrutto la vita dei miei connazionali, pari a un quarto della popolazione mondiale. Era malvagio quanto Hitler o Stalin, e ha inflitto all’umanità altrettanti danni. Eppure il mondo sa incredibilmente poco di lui. Mentre i due dittatori europei sono stati condannati a livello internazionale poco dopo la loro morte, Mao è riuscito nell’impresa incredibile di vedere il suo nome appena scalfito – di gran lunga troppo poco, hi confronto all’enormità dei suoi crimini – ancora oggi, a quasi trent’anni dalla morte. Jon e io proviamo un senso di gioiosa esaltazione di fronte alla sfida rappresentata dall’intento di gettare luce sul labirinto di miti che lo circonda.
Il regime cinese, com’era prevedibile, ha messo molti ostacoli sul mio cammino, ma pochi insormontabili; per lo più non hanno fatto altro che accrescere il nostro divertimento, facendoci assomigliare a una coppia di detective. Un certo numero di personaggi chiave a Pechino ha ricevuto l’avvertimento di non parlare con me, ma sembra che non si tratti di un bando rigoroso come quello che proibisce di parlare di Cigni selvatici o pubblicarlo. Equivale Piuttosto a un; «Attenti a quello che dite».
Quindi, mentre alcuni hanno preferito evitare noie e non incontrarmi, molti hanno accettato di parlare con me. Ci sono tanti pesi che la gente non vede l’ora di togliersi dallo stomaco, e inoltre i chiesi hanno un innato senso del dovere nei confronti della Storia. Il monito in sé è stato utile, perché è diventato una sorta di messaggio pubblicitario per il prestigio della biografìa, con l’implicita garanzia che non avrebbe seguito la linea del Partito, e questo si è rivelato un ottimo incentivo per indurre alcuni a parlare. In ultima analisi, è stato Cigni selvatici a spianarmi la strada. La maggior parte delle persone che incontro o ha letto il libro o ne ha sentito parlare, e sembra d’accordo nel riconoscere che è onesto. Queste persone sembrano convinte che anche la biografia di Mao dirà la verità.
Cigni selvatici mi ha anche aperto le porte di noti statisti e di fonti non ancora sfruttate hi ogni parte del globo. Nel corso di queste ricerche, ogni tanto devo rammentare a me stessa quanto sono incredibilmente fortunata ad avere Jon come co-autore, perché non soltanto parla molte lingue ma è un’enciclopedia vivente nel campo della politica internazionale, hi cui rientra Mao. Gli ultimi dieci anni sono stati per Jon e per me un periodo meraviglioso, nel quale abbiamo percorso il mondo in lungo e in largo alla ricerca di informazioni su Mao e abbiamo lavorato, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, decisi a impiegare tutto il tempo necessario, senza cercare scorciatoie, per produrre un libro di cui poter essere fieri.
Ogni giorno, quando sono a Londra, nella mia casa di Notting Hill, mi siedo alla scrivania. Jon è al pianterreno, nel suo studio, e ogni tanto sento aprirsi la sua porta quando sale, magari per prepararsi una tazza di tè. A quel suono, la mia mente divaga per un attimo, pregustando il nostro prossimo incontro, lo scambio di scoperte a pranzo o la serata fuori con gli amici. Davanti alla finestra a ghigliottina, sulla destra della mia scrivania, c’è un platano enorme che domina il ciclo con la sua cascata di rami.
Il cielo raggiunge la massima bellezza in una di quelle volubili giornate con un po’ di pioggia, quando il sole sorride dietro le nubi sottili e sfilacciate, producendo un chiarore soffuso. Sotto l’albero c’è un lampione nero, come quelli d’obbligo hi tutti i film su Londra. Nella strada, più in là, passano gli altrettanto classici,autobus rossi a due piani. I pedoni camminano a lunge falcate, protetti dagli ombrelli.
Una scena londinese del tutto normale. Eppure io non mi sazio mai di guardarla, proprio come non mi stanco mai di scrivere. In questi anni di duro lavoro ci sono stati momenti di frustrazione, e occasioni in cui ho esclamato, rivolta a me stessa e agli amici: «Non ne posso più». Ma in realtà sono al settimo cielo.
jung chang
Londra, 2003