Cina, la ricchezza a danno dei diritti
Migliaia di rivolte operaie soffocate con la forza, nessuna assistenza sociale, sanità e scuola in declino nelle campagne. Il Partito comunista controlla l’informazione, i sindacati e la religione. Chiunque cerchi di coagulare il malcontento viene messo a tacere Per gli altri regime oppressivo basato sullo sfruttamento
di Bernardo Cervellera
L’Occidente saluta il fatto che, dopo i disastri del maoismo, almeno 200 milioni di cinesi hanno salari con potere d’acquisto pari al nostro, e che sono così entrati nel paradiso dei consumatori di telefonini, auto, moda, profumi e viaggi. Ma lo stesso primo mondo non si dà troppo pensiero del fatto che altrettanti cinesi patiscono la più dura povertà. Se in metropoli come Shanghai il salario medio mensile raggiunge circa duemila yuan (200 euro), nelle campagne è solo un settimo (28-30 euro).
Ma anche nelle città decine di milioni di migranti lavorano senza misure di sicurezza, né alloggi garantiti, e con orari lunghissimi per soli 30 euro al mese. In Cina il problema dei diritti umani non è solo la forbice che si allarga fra ricchissimi e poveri, fra coloro che mangiano prosciutto di Parma e guidano la Ferrari e chi manda i propri figli nelle città perché non può nutrirli.
Il punto è che la ricchezza dei primi è iniqua ed costituisce la causa della miseria dei secondi. Secondo il professor Li Jianfei dell’Università Renmin (del Popolo) di Pechino, oltre il 90% dei lavoratori non ha regolare contratto e non riceve la paga in modo continuo. Anche se le direttive del governo impongono di retribuire gli operai ogni mese, molti datori di lavoro falsificano le ricevute e non versano alcun salario, con il pretesto di saldare il dovuto ogni 6 mesi. Una volta che hanno in mano finti documenti, si rifiutano di pagare, senza alcuna possibilità per i dipendenti di ottenere giustizia.
Ogni anno, prima delle vacanze del Capodanno cinese, decine di lavoratori migranti, umiliati dal fatto di non essere stati pagati e impossibilitati a tornare nei propri villaggi per le feste, preferiscono il suicidio alla pubblica umiliazione. Altri si avventano contro i datori di lavoro, ma la polizia vigila per salvare la vita agli aguzzini e condannare a morte chi ha osato sfidarli.
Alcuni mesi fa, un uomo politico del Guangdong ha esortato gli agenti a sparare contro i «rivoltosi» che reclamavano soddisfazione per i loro diritti. Durante l’anno vi sono stati incidenti in Guangdong, Henan, Hebei, Zhejiang, Shaanxi, con decine di morti e di arresti. Poliziotti in tenuta antisommossa sono pronti ormai in ogni capoluogo di provincia.
Lo scorso dicembre, il ministero della Sicurezza ha comunicato che in Cina si contano più di 87mila rivolte ogni anno, con scontri fra le forze dell’ordine e operai, contadini, pensionati e perfino militari in pensione, privati delle terre, dei salari, della pensione, dell’assistenza sanitaria, della casa; il tutto a vantaggio di segretari di Partito, capi-villaggio, dirigenti di industria e banche.
Perfino l’alfabetizzazione, l’orgoglio di Mao, è divenuto un bene di lusso: almeno l’80% dei figli dei contadini lascia la scuola dell’obbligo perché le tasse sono troppo onerose per la famiglia. Le ingiustizie sociali sono divenute il pericolo più grande per la stabilità del gigante asiatico. Per disinnescare questa polveriera, il governo di Hu Jintao e di Wen Jiabao predica una confuciana “armonia”, per la quale tutti i cinesi devono sacrificarsi al fine del bene comune.
Tuttavia, mentre aumentano condanne e violenze per chi presenta petizioni, ai membri del Partito riconosciuti colpevoli di corruzione si permette una vita spensierata agli arresti domiciliari nelle loro lussuose ville. Il grave problema strutturale è la mancanza di un sistema legislativo che difenda la persona e i suoi diritti. Dai tempi di Mao la Cina funziona ancora con decreti e regolamenti a uso del Partito. Un sistema in cui gli unici diritti fondamentali sono nutrirsi, avere un tetto e un abito.
E perfino questi semplici diritti materiali sono ormai negati; nello stesso tempo, i grandi proclami della Costituzione su libertà di culto e proprietà privata (autorizzata recentemente) rimangono lettera morta, perché mai tradotti in norme. Dal 1999 Pechino ha firmato le Convenzioni Onu sui diritti culturali, civili e politici, ma finora nulla è stato fatto per tradurle in regole sociali e assorbirle nel diritto del Paese.
Di fronte ai continui soprusi coperti dal Partito, Hu e Wen ricorrono a un’altra arma confuciana, il controllo: sui media, sui sindacati, sulle Ong, sulle religioni; perfino sugli sms. Negli ultimi mesi, proprio mentre si annuncia che la Cina ha superato il Giappone in riserve di valuta estera, almeno 100 dissidenti sono stati arrestati, insieme ad avvocati, attivisti per i diritti umani, giornalisti, ricercatori, vescovi, preti, pastori, monaci tibetani, attivisti uiguri.
Chiunque può essere sospettato di costituire un interlocutore più credibile del Partito, capace di coagulare il malcontento diffuso della società, viene imbavagliato o eliminato. Un professore agnostico all’università di Shanghai ci ha detto: «La Cina ha bisogno di una nuova rivoluzione culturale. Per millenni alcuni diritti sono stati una concessione dell’imperatore.
È giunto il momento di scoprire che i diritti umani sono innati nella persona. Ma per fare questo, la Cina deve riscoprire che l’uomo è proprietà di Dio, non dello Stato». Forse, perché questo avvenga, la Cina ha bisogno anche di occidentali che vadano in missione non soltanto per commerciare, ma per offrire il meglio della loro cultura: le radici cristiane, base dei diritti umani universali.