Dal sito Libertà e Persona
8 settembre 2017
di Lorenza Perfori
“Chi sei tu per giudicare?”, “Perché vuoi controllare il corpo delle donne?”, “Sono a favore dell’aborto perché ho compassione per le donne che si trovano in condizioni difficili”, “Se rendi illegale l’aborto, migliaia di donne moriranno a causa degli aborti clandestini”. Queste quattro frasi costituiscono il classico leitmotiv espresso dalle persone pro-choice per giustificare l’aborto legale, ma si tratta di argomenti guidati da una retorica scorretta e ingannevole.
In un articolo [1] uscito su lifenews.com, il prof. Timothy Brahm ha smascherato l’inganno, mostrando come i pro-life possono argomentare per demolire questi quattro ragionamenti pro-choice.
Brahm è laureato in filosofia ed è Direttore della Formazione all’Equal Rights Institute (ERI), di Clovis in California, un’organizzazione no-profit che ha l’obiettivo di “formare i sostenitori pro-life a pensare con chiarezza, ragionare con onestà e argomentare in modo efficace”. A tale scopo l’ERI ha recentemente pubblicato anche un manuale intitolato “Equipped for Life” (“Equipaggiati per la vita”) per “addestrare i gruppi pro-life a dialogare con abilità e argomentare in modo persuasivo in modo da poter far cambiare idea alle persone e salvare più vite”.
La tecnica oratoria utilizzata da Brahm consiste nel “to turn the table” (letteralmente: “ruotare il tavolo”), ovvero nel ribaltare la situazione, rovesciare la prospettiva, cambiare il punto di vista, al fine di spingere la persona pro-choice a mettersi nei panni di qualcun altro in modo da giudicare la situazione osservandola da un’angolazione diversa.
Per spiegare il funzionamento di questa tecnica, il filosofo ricorre all’esempio della partita a scacchi. Immagina che tu e un tuo amico decidiate di giocare a scacchi – spiega -, ma mentre ti stai per sedere lui prende la tua regina dalla scacchiera e la rimette nella scatola senza dare spiegazioni. Tu gli chiedi: “Cosa stai facendo?” e lui candidamente risponde: “Solo a me è permesso di avere la regina, perché tu stai giocando con i bianchi e io con i neri; tu sei avvantaggiato perché inizi per primo. Così siamo pari”.
Il tuo amico crede in tutta sincerità che dare alla sua parte della scacchiera un vantaggio incredibilmente iniquo sia legittimo, ed è riuscito a razionalizzare a se stesso che è giusto così. Come puoi fare per convincerlo che sta dando ai pezzi neri un enorme vantaggio? In modo molto semplice: ruotando il tavolo di 180 gradi e dicendogli: “Va bene, se pensi che sia giusto per entrambi i giocatori che chiunque inizi per primo non debba avere la regina, ora sarò io a giocare con i neri. A te la prima mossa”.
Brahm chiama questo modo di procedere “empatia forzata”. Il tuo amico – osserva -, non sta facendo una buona valutazione sui vantaggi relativi all’iniziare per primo avendo la regina. Girando il tavolo lo costringerai a mettersi nei tuoi panni e a rispondere alle sue argomentazioni. Potresti dirgli: “Eh, so che potrebbe sembrare difficile non avere la regina, ma sta a te iniziare. Tu hai l’iniziativa, quindi fanne buon uso e potrai superare il problema di non avere la regina”.
In sostanza, Brahm osserva che costringere qualcuno a discutere contro i suoi argomenti ingiusti è il modo più efficace per aiutare costui a rendersi conto che i suoi argomenti sono effettivamente ingiusti. Questo è esattamente ciò che si verifica con molti argomenti pro-choice: molti di essi sono effettivamente argomenti ingiusti, stanno imbrogliando, danno alla persona pro-choice un vantaggio ingiusto nella conversazione.
Il problema e che costoro spesso non si rendono nemmeno conto di stare imbrogliando: si tratta frequentemente di argomenti guidati da una retorica scorretta a cui le persone pro-choice credono per davvero. Loro pensano che sia giusto così. Affinché possano cambiare idea, hanno bisogno di qualcosa di più di un semplice contro-argomento. Hanno bisogno di capire che la loro retorica è vuota, e il modo migliore per farlo è quello di ruotare il tavolo di 180 gradi facendoli mettere nei tuoi panni.
A questo punto il filosofo entra nel dettaglio dei quattro esempi di retorica pro-choice ingannevole visti all’inizio, spiegando per ciascuno di essi come si deve argomentare per “ruotare i tavoli”.
1 – “Chi sei tu per giudicare?”
Questa frase, nota Brahm, è la perfetta candidata a diventare la frase più abusata di questo secolo. Non sarebbe così frustrante se l’avessi sentita pronunciare solo dai relativisti morali, invece la sento affermare anche da persone di ogni genere di fede. Ogni persona ha un certo grado di impulso libertario. Non vogliamo che lo Stato ci costringa a fare le cose, inoltre ciascuno conosce la propria situazione personale meglio di chiunque altro, vi è perciò qualcosa di naturalmente intuitivo nell’idea che gli altri non dovrebbero giudicarti.
Disputare con le persone che dicono di non avere la prerogativa per emettere un giudizio su qualcuno è assai allettante e retoricamente efficace. Potresti rispondere dicendo qualcosa come: “Sono una persona con dei principi morali che è in grado di fare riflessioni morali”, ma una frase del genere rappresenta una vera strada in salita nei confronti delle argomentazioni pro-choice. Ecco perché è molto meglio “ruotare il tavolo”. Per questo dirò: “Supponi che io voglia uccidere mia moglie. So che potrebbe essere contro i tuoi valori personali o qualcosa del genere, ma amico, non sai quanto sia difficile essere sposati con lei. Non sai cosa sto passando. Chi sei tu per giudicarmi?”.
Quando le persone ti rispondono con la domanda ugualmente irritante: “Chi può dirlo?”, io rispondo più o meno allo stesso modo, sempre cambiando il punto di vista. “Chi può dirlo?” non è mai una domanda corretta, perché ci sono cose che sono naturalmente comprensibili. E se una cosa è comprensibile, ognuno può essere qualificato a dire qualcosa su di essa.
Solo perché alcune persone pro-choice non hanno familiarità con la biologia di base della riproduzione umana, non significa che qualcun’altro non possa dire niente di significativo, per esempio a quale specie appartenga un embrione alla prima settimana di vita.
Avrò lo stesso approccio nei confronti di affermazioni del tipo:
- “Fatti gli affari tuoi”.
- “Non sta a te decidere cosa gli altri dovrebbero fare”.
- “Credo nel libero arbitrio”.
Rispondendo:
- “Se l’aborto sta togliendo la vita a un essere umano innocente, allora non dovremmo fare gli affari nostri”.
- “Nessuno affermerebbe: non sta a te decidere se qualcuno possa o no abusare dei propri figli”.
- “Anch’io credo nel libero arbitrio e sono grato di averlo, ma nessuno ha la faccia tosta di difendere il traffico di esseri umani facendo appello al valore del libero arbitrio. È un bene che non siamo dei robot incapaci di fare delle scelte, ed è altrettanto un bene che la società abbia delle leggi per scoraggiare il male”.
Affermazioni relativistiche come quelle che abbiamo visto non lasciano spazio a rivendicazioni morali di nessun tipo, cioè non ammettono eccezioni. Se ti opponi a tutte le affermazioni morali solo per evitare di dover fare un’affermazione morale sull’aborto, allora hai un problema serio con la tua visione del mondo e una determinazione sospetta a difendere l’aborto a ogni costo.
Aggiungo, infine, che la frase “Chi sei tu per giudicare?” è anche un argomento che si auto-confuta da sé, perché si può semplicemente rispondere, chiedendo: “”Chi sei tu per giudicarmi se io giudico gli altri?”.
2 – “Sono pro-choice perché ho compassione per le donne. Alcune si trovano in condizioni davvero difficili”
Quando incontriamo chi è favorevole all’aborto a motivo delle circostanze difficili in cui versano alcune donne – scrive Brahm -, la risposta pro-life standard è quella di “tirare in ballo un bambino”. Con le persone pro-choice che argomentano a favore dell’aborto senza considerare lo status del bambino non nato o l’importanza dell’autonomia corporea, noi spesso “tiriamo in ballo un bambino” per aiutarli gentilmente a capire l’importanza di questa questione. In sostanza, al loro argomento a favore dell’aborto legale noi contrapponiamo un argomento a favore dell’uccisione legale di un bambino.
Quella di “tirare in ballo un bambino” è una tattica sviluppata da Scott Klusendorf e può essere utilizzata in vari modi. L’ERI e il prof. Brahm si avvalgono di un particolare approccio articolato in quattro passi. Per esempio, se qualcuno ci dice che è favorevole all’aborto perché “alcune donne sono troppo povere per prendersi cura di un bambino”, quello che noi faremo è:
Confermare le sue preoccupazioni: “Hai ragione, alcune donne si trovano in condizioni di grave indigenza e noi dobbiamo aiutarle come possiamo”.
- Rilanciare con una domanda insolita:“Posso farti una sorta di strana domanda, hai un minuto? Supponendo che risponda sì.
- Creare una situazione parallela: “Immagina che una donna molto povera abbia un figlio. Ha appena perso il lavoro e riesce a malapena a sfamare se stessa e lui. Dovrebbe avere il diritto giuridico di uccidere il figlio per il fatto di essere così povera?”. La risposta, di solito, è no.
- Esporre la logica: “Consentimi di spiegare perché ti faccio questa domanda insolita. So che alcuni la possono trovare strana, ma ho delle prove valide per porla. Io penso che sin dal concepimento l’embrione sia prezioso come te e me in quanto persona umana. Poiché sono estremamente convinto di questo, ogni volta che qualcuno appoggia l’aborto devo chiedermi: ‘È questo un buon motivo per uccidere un bambino?’ e non ci sono assolutamente buone ragioni per uccidere un bambino. Quindi, se io ho ragione sul fatto che l’embrione sia una persona umana, allora non possiamo ucciderlo a motivo della povertà della madre, proprio come non avremmo ucciso un bambino a causa della povertà. Cosa ne pensi?”.
In definitiva, “tirare in ballo un bambino” ribalta la logica di molti argomenti pro-choice. La persona pro-choice cerca di giustificare l’aborto puntualizzando che alcune donne sono in condizione di povertà, la persona pro-life chiede se le donne in stato di povertà dovrebbero avere il diritto di uccidere i loro figli per il fatto di non essere in grado di mantenerli. Poi la persona pro-choice deve dimostrare la differenza tra un bambino e un bambino non nato.
Vi è un altro modo per “tirare in ballo un bambino”, un po’ più diretto, per costringere la persona pro-choice a mettersi nei tuoi panni. L’ho sperimentato nel 2013 con uno studente universitario che non riusciva a distaccarsi dall’uso della parola “scelta”, come se la sua vita dipendesse da essa. Alla fine gli ho detto: “Va bene, farò finta di essere qualcun altro. Non sono più Tim, ora sono Tom e credo che l’infanticidio dovrebbe essere legale. Il Governo dovrebbe lasciare che le persone facciano le loro scelte quando si tratta di uccidere i propri figli. Come replicherebbe al mio punto di vista?”. È seguita una pausa di silenzio incredibilmente lunga, mentre lo studente cercava di trovare un modo per farlo, e alla fine ha risposto: “Ho capito dove vuole arrivare…”. A conti fatti sono riuscito a farmi capire da lui perché in realtà aveva solo bisogno di argomentare contro la sua scelta ostinata di linguaggio.
Un’altra maniera di “ruotare il tavolo” chiamando in causa un bambino, si può applicare facendo leva sulla parola “compassionevole”. Il fatto che i pro-choice definiscano le persone pro-life “senza compassione” non è una coincidenza, ma un indizio della loro psicologia: in genere costoro pensano veramente di essere compassionevoli e, cosa ancor più importante, vogliono pensare a se stessi come a persone davvero compassionevoli.
Quando alla domanda insolita (3° passo esposto sopra) mi rispondono che no, non dovrebbe essere legale uccidere un figlio se la madre si trova in una situazione difficile, a volte li sollecito replicando (senza sarcasmo): “Davvero? Perché no? Non vogliamo essere compassionevoli verso le donne che si trovano in difficoltà?”.
Faccio appello alla compassione anche se a volte la persona pro-choice non ce l’ha, perché presumo faccia solo parte della visione che ha di sè: ha in testa un’immagine di sé come di persona compassionevole. Insisto su questo punto perché voglio che capisca che desiderare di essere compassionevole non significa dover essere pro-choice.
3 – “Perché vuoi controllare il corpo delle donne?”
Prima di spiegare questo punto, il prof. Brahm puntualizza che domande come “quale genere di diritti dovrebbero avere le donne sui loro corpi?” e “dovrebbe essere incluso anche il diritto di uccidere una persona umana dentro di loro?”, siano domande ragionevoli e legittime. Tuttavia, aggiunge, non intendo criticare le persone pro-choice perché sostengono che il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo dovrebbe giustificare l’aborto, ma confuterò l’odiosa retorica che spesso accompagna gli argomenti sui diritti corporei, e vi consiglio di rispondere gentilmente con una “rotazione del tavolo”.
Come ho spiegato altre volte, gli argomenti sui diritti corporei e l’aborto sono sempre estremisti, almeno nel modo in cui i pro-choice li presentano. Nessun argomento sui diritti corporei che abbia mai visto (o anche ascoltato da qualche sostenitore pro-choice) lascia spazio a eccezioni, tuttavia, molte persone a favore dell’aborto pensano che delle eccezioni vi siano, come quelle degli aborti nel terzo trimestre di gravidanza.
Quando le persone pro-choice insistono con i loro argomenti sui diritti corporei, rispondo chiedendo: “Questa è una questione importante. Lascia che ti rivolga una domanda di chiarimento prima di rispondere: pensi che dovrebbero esserci restrizioni all’aborto, come nel terzo trimestre?”. Se dicono di essere contrari agli aborti nel terzo trimestre, come di solito fanno, io molto gentilmente domando: “Ascolta, non ti sto prendendo in giro, ma ti chiedo: perché vuoi controllare il corpo delle donne nel terzo trimestre?”. Questo li aiuta a vedere che è retoricamente ingiusto incolpare qualcuno di controllare le persone solo perché è moralmente contrario a qualcosa.
4 – “Se rendi illegale l’aborto, poi le donne moriranno a migliaia negli aborti fai-da-te e clandestini”
Questo è uno degli argomenti pro-choice più retoricamente potenti – osserva Brahm -: nessuno vuole che le donne si facciano male con gli aborti clandestini e fai-da-te, ed è difficile negare che questo è ciò che accadrebbe se l’aborto fosse dichiarato illegale (il fatto che poi sarebbero migliaia è un’altra questione). Per quanto non vogliamo che nessuna si faccia male con l’aborto illegale, non applichiamo mai questa logica pro-choice a nessun’altra questione. Non ci sogneremmo mai, per esempio, di legalizzare la rapina in banca, lo stupro o l’infanticidio al fine di renderli più sicuri per i colpevoli.
In questo caso, il modo più semplice per “ruotare il tavolo” è quello di far perno sulla stessa logica che abbiamo esaminato nell’esempio dell’autodeterminazione del corpo: anche in questo caso, infatti, la retorica pro-choice non consente eccezioni. Pertanto chiederò: “Pensi che dovrebbero esserci restrizioni all’aborto, come nel caso del terzo trimestre?”. Se mi rispondono che sono contrari, come di solito fanno, io molto gentilmente replico: “Cosa succede se una donna vuole abortire durante il terzo trimestre di gravidanza e dice che se non glielo lascerai fare, lei cercherà un medico che praticherà l’aborto illegalmente? Supponi che conosca un ex medico abortista che ha perso la licenza perché i suoi interventi provocavano spesso complicazioni, ma lei ti dice che è disposta a prendersi il rischio perché non vuole avere il bambino nella maniera più assoluta. L’aborto al terzo trimestre dovrebbe essere legale, solo perché lei farebbe l’aborto comunque?”
Questa domanda costringe la persona pro-choice a combattere con la stessa logica pro-life che abbiamo già visto: è una situazione terribile. Non vogliamo che le donne disperate si facciano male, ma ovviamente è folle legalizzare qualcosa di sbagliato solo perché c’è la possibilità che qualcuno si faccia del male. Non possiamo permettere che la legge sia tenuta in ostaggio da un cittadino che minacciasse di farsi del male. Non possiamo di certo legalizzare l’infanticidio, anche se la madre dice che brucerà la casa con dentro lei e suo figlio, se non lo farai diventare legale.
Alcuni consigli per l’uso
Il prof. Brahm conclude l’articolo con alcuni consigli. Forzare l’empatia mediante la tattica del “ruotare i tavoli” è una risposta molto efficace, ma rischiosa, perché può infiammare gli animi. Devi essere gentile nel modo in cui lo fai. Prima di “ruotare il tavolo” non inserire mai parole come “Ah sì?!”. Brevi frasi amichevoli come: “Non ti sto prendendo in giro, abbi pazienza, ma…” vanno bene. Non vogliamo solo vincere i dibattiti, vogliamo che capiscano che la loro retorica è un imbroglio. E ricordatevi di essere pazienti. Non interrompete se si mettono a riflettere dopo che avete “ruotato il tavolo”.
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[1] Timothy Brahm, “How to Turn the Tables on Four Pro-Choice Arguments”, www.lifenews.com, 18 agosto 2017.