di Domenico Bonvegna
Gli italiani leggono poco ma si appassionano alle dispute storiche, in particolare alla storia del Risorgimento. Il 2000 ha visto numerose polemiche e discussioni in merito al cosiddetto revisionismo storico con particolare riguardo alla nascita dell’unità d’Italia, toccando il massimo della rissosità in occasione della beatificazione di Papa Pio IX.
Qualche mese prima la casa editrice Ares di Milano pubblicava il volume di Patrick Keyes O’Clery, “La Rivoluzione Italiana”, un corposo scritto di ben 780 pagine, in realtà si tratta della fusione di due libri. Il primo mai tradotto in Italia, scritto nel 1875, sotto il titolo The Revolution of barricades, costituisce un’ampia rivisitazione della storia italiana a partire dalla Rivoluzione Francese, fino ai moti del 48, con particolare riguardo alla storia dei Papi che hanno contribuito a costruire la nazione italiana e soprattutto l’Europa cristiana.
«Non si tratta di un‘augusta apologia del Papa re – scrive Alberto Leoni nella presentazione – ma dell’esaltazione del buon governo in quanto capace di scelte concrete ed efficaci, in contrapposizione all’astrattezza dell’ideologia». Il secondo volume, The inaking ofltaly, del 1892 è invece la ricostruzione delle fasi conclusive del nostro Risorgimento fino alla presa di Roma. Questa parte è stata pubblicata in Italia nel lontano 1897 e poi negli anni ottanta.
Il testo di O’Clery è una lettura utile, scritto con obiettività, non riduce la Storia a un complotto, anche se condanna il modo di unificazione dell’Italia da parte della ristretta èlite liberale, lo fa sempre però presentando le fonti filo risorgimentali. quelle ufficiali. Lo scrittore irlandese sicuramente rappresenta un pioniere di quel revisionismo storiografico che ha preso corpo da qualche anno «e al quale guardano con diffidenza le vestali di un certo Risorgimento, tramandato a generazioni di italiani come religione civile della nuova Italia in sostituzione del Cattolicesimo».
Quando riferisce che Pio IX auspicava per l’Italia una Lega Federativa, una Confederazione che avrebbe incluso lo Stato Pontificio, il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana, il Regno delle due Sicilie, con la presidenza di Pio IX stesso, lo fa con assoluta serenità ponendo all’attenzione dei lettori “la bozza del trattato per la Lega Italiana” in appendice alla prima parte: «questo documento è così importante da poter essere ritenuto un monumento all’opera di Pio IX […] Sfortunatamente il documento non venne mai ratificato e, ancora una volta, fu il Piemonte a rovinare la speranza dell’unità italiana».
Una Confederazione che i rivoluzionari rifiutarono sempre, perché volevano fare una Italia unita, ma contro il Papato. Infatti fu evidente nel 1849 nella cosiddetta prima guerra d’indipendenza, quando fu impedito a Carlo Alberto di accettare le proposte dell’Austria, che avrebbe ceduto la Lombardia al Piemonte e Venezia sarebbe diventata uno Stato indipendente.
Mentre i rivoluzionari al sud con le insurrezioni di Calabria, Napoli e Sicilia, costrinsero re Ferdinando a ritornare a Napoli per difendere il suo trono. «Proprio quando tutti sarebbero dovuti essere uniti contro il nemico comune (l’Austria)». Il Piemonte per invidia non accettò le proposte di federazione di Pio IX, e così gli eserciti federali, invece di marciare insieme per liberare il suolo della propria Patria dalla dominazione straniera, furono sciolti.
«Non va dimenticato – scrive O’Clery – che Pio IX fu il primo a proporre la Lega italiana, che il granduca di Toscana e il tanto calunniato re Ferdinando erano pronti a contribuire al costituirsi della confederazione e che il solo ostacolo a questo processo politico fu il Piemonte allora sotto l’influenza del partito rivoluzionario. I veri nemici dell’Italia erano nei ranghi di quel partito nemici ancora peggiori degli Austriaci. Decisi a compiere il loro progetto, la formazione di una Repubblica italiana atea che si estendesse dalle Alpi alla Sicilia, si opposero alI’idea della Lega perché il Papa ne era il promotore e perché sarebbe stato un ostacolo insormontabile per i loro piani».
Nella seconda parte del testo: la formazione del Regno d‘Italia, O’Clery dà conto della strategia politica di Camillo Benso conte di Cavour, abile manovratore nel tessere una politica di acuta doppiezza. “Il gioco delle parti” tra Cavour e i rivoluzionari Mazzini e Garibaldi è sempre presente nel testo, il primo manifesta moderazione nell’opera di demolizione del potere Pontificio, mentre i secondi attaccano apertamente la Chiesa e il suo Pontefice.
Entrambi svolgono la stessa opera di conquista delle terre italiane alla Rivoluzione. Particolare risalto lo scrittore irlandese, dedica alla spedizione dei Mille di Garibaldi che ottiene una facile vittoria sui Borboni grazie all’azione cospiratrice del governo inglese attraverso i suoi uomini Lord Palmerston, Gladstone e Russell. Ma soprattutto grazie anche al tradimento dei generali di Francesco II che preferirono non combattere. Quando invece combatterono, sul Volturno o nella fortezza di Gaeta seppero dimostrare il proprio valore al mondo.
Un rilievo considerevole viene dato al Brigantaggio sviluppatosi nel meridione d’Italia, subito dopo la cosiddetta “liberazione” ad opera degli eserciti piemontesi. Il popolo dell’ex Regno delle due Sicilie fu protagonista dal 1860 al 65 di una vera e propria insurrezione contro le misure centralizzatrici dei Liberali di Torino. I “Briganti” insorsero per difendersi dalla politica impositiva dei Savoia, Vittorio Emanuele Il risponde con una spietata repressione operata prima dal generale Pinelli e poi da Cialdini con un esercito di 120 mila uomini mettono a ferro e fuoco gli Abruzzi, il Mouse, la Basilicata e la Calabria.
Nel descrivere questa sanguinosa “guerra civile” O’Clery si rifà alle fonti ufficiali, quelle dei Piemontesi, nel testo pubblica alcuni proclami sottoscritti dai comandanti dell’esercito Piemontese, dove per sopprimere il cosiddetto “brigantaggio” era prevista la fucilazione con o senza processo, di tutti coloro che erano presi con le armi in pugno; saccheggio delle città e dei villaggi ribelli; arresto delle persone sospette e dei “parenti dei briganti”; distruzione delle capanne, obbligo di murare tutti i casolari isolati; allontanamento degli uomini e del bestiame dalle campagne e raccolto in un luogo sotto il controllo dell’esercito; incriminazione di qualsiasi comportamento neutrale; rigida censura sulla stampa. «Questi proclami– scrive O’Clery – non furono vane minacce».
Chi non fu ucciso combattendo, finì nelle carceri napoletane, se ne contano circa 80 mila di reclusi, senza nemmeno sapere la propria imputazione, morirono di malattia nelle prigioni infette e affollate. Appare evidente che l’unità fu imposta all’Italia meridionale col terrore e la distruzione, e che “i liberatori” schiacciarono le vere aspirazioni del popolo con esecuzioni e incarcerazioni di massa. “La Rivoluzione Italiana” si conclude con l’occupazione di Roma e l’ignobile farsa del plebiscito romano.
Qui la riflessione si fa più articolata, la narrazione più calda e anche la proposta politica dell’autore più completa. L’autore, ricorda l’eroismo dei “suoi” irlandesi nella difesa di Spoleto, ma soprattutto la gloriosa vittoria delle truppe Pontificie a Mentana, dove il generale Klanzer, nonostante l’inferiorità numerica dei suoi zuavi riuscì a sconfiggere l’esercito rivoluzionario alla guida di Garibaldi.
La presa di Roma da O’Clery. viene considerata come una vera e propria invasione, una aggressione. «un reale atto di brigantaggio» da parte di un potente esercito di 65 mila uomini al comando di Cadorna contro 13 mila zuavi, tutti volontari decisi a difendere Pio IX. «Roma, intanto, era assolutamente tranquilla e non c’era il minimo segno di turbamento dell’ordine pubblico, non un solo episodio che significasse simpatia verso gli invasori o ,il malcontento verso il governo pontificio».
Il 20 settembre 1870 precisamente alle ore 10,10 si conclude la guerra contro il più mansueto, il più amabile, il più amato sovrano del mondo, il Papa. «Contro il grande crimine commesso giunsero proteste da tutto il mondo cattolico», anche nel Parlamento italiano ci furono numerose proteste contro l’annessione.
Nell’ultimo capitolo, O’Clery fa delle riflessioni politiche probabilmente utili anche ai giorni nostri, dopo aver sottolineato come la Rivoluzione italiana abbia portato miseria e decadenza, a un debito colossale, del tutto sproporzionato alle risorse del Paese, e a una tassazione elevata a causa delle costosissime guerre e rivoluzioni, si schiera a favore dì un’Italia Federalista: «Sono l’ultimo a credere che non fosse necessario mutare lo stato delle cose in Italia, l’ultimo a negare che vi fosse del buon senso nell‘aspirazione all‘unità nazionale. Ma c’è una differenza tra le riforme operate da veri statisti e la Rivoluzione rossa, perché l’unità costruita per mezzo della cancellazione delle libertà e delle istituzioni locali, la riduzione di uno Stato a un sistema burocratico centralizzto, è un‘unità che porta con se i germi della propria distruzione. Non si saprà mai quanto I‘Italia avrebbe guadagnato se, invece di essere trascinata con violenza all‘unità voluta da Cavour; fosse stata unificata da un sistema federale, tale da non soffocare le autonomie locali del Sud, del Centro e del Nord. Questo era il progetto auspicato da Gioberti nel 1848 e accettato da Pio IX»