Nel mondo musulmano non esiste gerarchia e manca un’autorità religiosa centrale. A esercitare la funzione di guida sono i «sapienti». Il Corano, il testo sacro rivelato da Allah al profeta Maometto, non prevede infatti alcuna figura trainante e tutte le autorità, dal nomi impronunciabili per il nostro Occidente lontano, sono «costruzioni dei musulmani»
di Felicita Pistilli
Splende dal Marocco fino all’Indonesia: è il simbolo dell’Islam. Sotto lo spicchio della mezzaluna vivono i musulmani, i «sottomessi» alla volontà divina. E solo a quella, visto che nel mondo musulmano non esiste gerarchia e manca un’autorità religiosa centrale. A esercitare la funzione di guida sono i «sapienti», quelli che sanno qualcosa in più degli altri e che dagli altri vengono considerati leader. Il Corano, il testo sacro rivelato da Allah al profeta Maometto, non prevede infatti alcuna figura trainante e tutte le autorità, dal nomi impronunciabili per il nostro Occidente lontano, sono «costruzioni dei musulmani», come precisa Sergio Noja docente di lingua e letteratura araba all’università Cattolica di Milano.
Le figure «superiori» dell’islamismo sono varie, ma i confini di competenze piuttosto labili. Non esiste una figura che domini sulle altre e «tutte – spiega Noja – sono nominate dal basso, dal popolo». Il popolo è stato, ed è, fondamentale nella costruzione della religione musulmana: per essere qualcuno devi piacere alla gente. «Non esiste investitura», continua Noja. È la fama che ti rende Mufti, Imam o Ulema.
La terminologia è la stessa in tutto il mondo islamico, come una sola è la strada maestra da seguire, la legge. La legge islamica si chiama Sharia, che letteralmente significa «la via». La Sharia regola sia i rapporti tra gli uomini sia quelli tra l’uomo e Dio e non riconosce la differenza tra diritto religioso e diritto statale. «Ovviamente – precisa Noja – questa identità tra diritto religioso e statale si riscontra solo negli stati totalmente islamici, come per esempio l’Afghanistan». Negli altri Paesi, al potere politico compete la funzione di garantire che tutti possano praticare la religione di Maometto e la gente è solo questo che chiede alle autorità civili: la possibilità di essere musulmano.
Essere musulmano significa seguire poche ma precise regole: riconoscere Allah come unico Dio, recitare alcuni versi del Corano cinque volte al giorno in ginocchio verso la Mecca, osservare scrupolosamente il digiuno in un particolare periodo dell’anno, chiamato Ramadan. Quando pregano i musulmani «mutano» l’Imam, «colui che sta davanti» e che più degli altri conosce la religione. L’Imam è la guida nella preghiera, mentre gli Ulema sono le guide nella più generale vita religiosa, essendo coloro che conoscono perfettamente. la legge di Dio e dei «sapienti» che hanno fatto la storia dell’Islam. «Gli Ulema – spiega Noja – potrebbero essere paragonati ai rabbini»: è a loro che tutti i musulmani chiedono ciò che fare e non fare. «Teoricamente – prosegue – tutti potrebbero essere un Imam, salmodiando in pubblico il Corano, ma nel corso del tempo alcune persone si sono “specializzate” e sono state riconosciute dalla comunità come tali».
Un ruolo di superiorità viene riconosciuto dal popolo islamico anche al Mùfti, autorità giuridico-religiosa È lui che si preoccupa di far rispettare il testo sacro attraverso dei responsi-editti chiamati Fatwà, al quali tutti obbediscono in nome della fede. «L’obbedienza – puntualizza Noja – è data dal fatto che la religione è sentita e dalla notorietà del Mùfti». Un Mùfti inattaccabile è stato Khomeinì. Nessuno avrebbe mai osato fare una contro fatwà a un suo responso. Ci sono poi Mùfti scarsamente considerati. L’Islam è pieno di responsi favorevoli al suicidio che non sono seguiti perché fatti da personalità poco conosciute e perché la fede è, a volte, più forte delle regole terrene. Noja fa un esempio: «Poiché il Corano non prevede il Ramadan in caso di guerra, il presidente della Tunisia Burghiba fece emettere una fatwà con la quale dichiarava guerra al sottosviluppo. Nessuno rispettò quell’editto: il digiuno era una cosa sentita».
L’esempio dimostra come spesso, nei Paesi dell’Islam, la religione sia usata con finalità politiche, o comunque dalle autorità civili per interessi propri In questa particolare interpretazione si inserisce il concetto della Jihad, della «guerra santa», come noi occidentali erroneamente definiamo quello che per il Corano è «lo sforzo sulla via di Dio». Per il testo sacro dell’Islam lo «sforzo» è quello di essere un buon musulmano: sono stati i capi politici a volerlo intendere poi come lotta agli altri credi. il Corano «ordina» ai suoi seguaci soli pochi comandamenti, «per questo si può affermare che l’Islam non ha regole precise», conclude Noja. «Allah ‘alam»: solo Allah sa veramente come vanno le cose.