I moderni epigoni delle “sociétés de pensée” di infausta memoria, hanno dimostrato ancora una volta che è fallimentare la loro pretesa di, non solo parlare a nome della società civile, ma di identificare (dall’alto di una supposta superiorità intellettuale) essi stessi come autentica società.
Sandro Magister
Non hanno votato tre cittadini su quattro: il 74,5 per cento degli aventi diritto al voto che in Italia sono poco più di 50 milioni. E tra quel 25,5 per cento che sono andati a votare, non tutti hanno risposto quattro sì ai quattro quesiti, come volevano i promotori dei referendum. Tre dei quattro quesiti miravano a cancellare i divieti posti dalla legge 40/2004 alla selezione, all’utilizzo e all’uccisione di embrioni prodotti in vitro. Mentre il quarto mirava a rimuovere il divieto della fecondazione “eterologa”, ossia con uovo o seme prelevati da “donatori” esterni alla coppia.
Ai primi tre quesiti ha detto no, difendendo i divieti posti dalla legge, circa il 12 per cento di chi ha votato, mentre al quarto i no sono stati di più: il 22,6 per cento.
È dunque la risposta affermativa al quarto quesito quella che delimita il nocciolo duro del consenso ottenuto dai promotori dei referendum, alla cui campagna per i quattro sì hanno dato pieno sostegno, tra gli altri, i maggiori quotidiani nazionali e il più forte partito della sinistra, i Democratici di Sinistra, eredi del Partito Comunista Italiano.
In cifre assolute, gli italiani che hanno risposto sì al quarto quesito sono stati 9.406.370. Ossia il 20,06 per cento degli aventi diritto al voto, uno su cinque. Questa la media nazionale. Regione per regione la quota dei sì è stata molto diversa, tuttavia in nessuna di esse si è avvicinata alla maggioranza, nemmeno nelle regioni tradizionalmente dominate dalla sinistra, come Emilia Romagna e Toscana.
Ecco le percentuali dei sì al quarto quesito calcolate sul totale degli aventi diritto al voto, in Italia e in ciascuna regione (tra parentesi i capoluoghi):
ITALIA 20,06
Emilia Romagna (Bologna) 34,44
Toscana (Firenze) 33,19
Liguria (Genova) 27,78
Questi e altri dati sono stati elaborati da Stefano Borselli. Ed ecco qui di seguito una loro analisi, scritta per www.chiesa da Pietro De Marco, professore di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale ed esperto di geopolitica religiosa:
Residue egemonie, senza maggioranza
Ovvero dell’importanza crescente della “eccezione italiana” per il futuro dei rapporti tra religione e società civile
di Pietro De Marco
Vi è molto da apprendere sia dalla netta vittoria dei difensori della legge 40/2004 in Italia, sia dalla geografia politica dei perdenti, cioè delle forze politiche e ideologiche che hanno lottato per la drastica revisione – e sostanzialmente per l’abrogazione – della legge.
La quota nazionale dei votanti è stata del 25,5 per cento. È una percentuale meritevole di attenzione. La decisione di votare era già di fatto una scelta a favore della revisione/abrogazione della legge. La grande maggioranza dei votanti avrebbe votato sì, contro la legge 40/2004; e in effetti ha votato sì, come si prevedeva. Quindi la posta in gioco era, piuttosto, se questa maggioranza avrebbe corrisposto o meno alla maggioranza dell’elettorato. Una affluenza al voto del 25,5 per cento ha mostrato che non è così.
Inoltre, tra chi è andato a votare (appunto, solo il 25,5 per cento) appena il 78,1 per cento ha votato sì nel caso del quesito più contrastato, il quarto, rivolto ad abolire il divieto di inseminazione eterologa. Insomma, sul totale degli aventi diritto al voto, il sì pieno ha superato di un’inezia il 20 per cento. La consistenza ultima del voto contro la legge 40/2004 è stata, in Italia, di un cittadino su cinque.
Neppure nelle regioni chiamate “rosse” per il loro tradizionale orientamento a sinistra (e che rappresentano un quarto dell’elettorato nazionale), la scelta di andare a votare ha raggiunto la metà dell’elettorato, tanto meno la scelta di votare sì. Non lo ha raggiunto neppure se si rapporta l’afflusso al voto in questi referendum al numero dei votanti nelle elezioni europee del 2004, togliendo quindi dal conto quel 19-22 per cento di elettori che nemmeno allora votò, in quelle regioni.
Se si considera la Toscana, ad esempio, ai referendum dello scorso 12-13 giugno i votanti sono stati quasi il 40 per cento, il valore più alto in Italia dopo il 41,6 dell’Emilia-Romagna, ma i sì al quarto quesito sono stati appena il 33,19 per cento degli aventi diritto al voto, ovvero un cittadino su tre.
Dalla ponderazione dei sì al quarto quesito appare, dunque, l’effettiva entità del nucleo referendario militante, refrattario ad ogni valutazione differenziata dei quesiti: circa il 20 per cento della popolazione adulta italiana.
A partire da questo nucleo, lo sforzo di mobilitazione prodotto dalle “sociétés de pensée” col supporto dei partiti di sinistra e dalla potente rete delle solidarietà femminili-femministiche è arrivato a influenzare politicamente ed emotivamente fino a un quarto del paese, per lo meno orientadolo a votare, contro l’indicazione astensionistica dei difensori cattolici e laici della legge 40/2004, ispirati dalla ferma strategia del cardinale Camillo Ruini.
Un quarto del paese non è poco. E le differenze regionali ci avvertono che la capacità di egemonia delle culture mobilitate per il sì resta grande in Emilia Romagna e in Toscana, ma anche in Liguria e Lazio, mentre in Lombardia si coglie e si misura la forza dei contrappesi moderati e di un cattolicesimo organizzato e intellettualmente qualificato. Non vi è dubbio che il risultati della Toscana, dell’Emilia Romagna, della Ligura, del Lazio sono stati possibili per l’influenza che l’ethos laico-radical-femminista ancora esercita, in queste regioni, anche sulle condotte dello stesso mondo cattolico.
Questo è l’effetto – residuale? – di una egemonia. Con ciò intendo, in modo classico, la capacità di una cultura etico-politica di proporre con autorità e successo le proprie tavole di valori a culture con diversa, spesso opposta, visione del mondo, quindi di controllarne e determinarne in profondità le scelte pubbliche, nell’apparente rispetto della loro autonomia (ed anzi, paradossalmente, nel “reale” rispetto, poiché la cultura egemonizzata non concepisce per sé stessa delle volontà diverse da quelle del soggetto che la egemonizza).
Del blocco del Nord-Appennino composto da Emilia Romagna, Liguria e Toscana (a cavallo della catena montuosa che fa da colonna vertebrale della penisola italiana) va sottolineata la intima contraddittorietà, da decenni, tra le ambizioni emancipatorie, iperlibertarie cui esso offre spazi politici e normativi (fino ai recenti statuti regionali, con spunti alla José Luis Zapatero), e la esibita e spesso rituale sollecitudine delle stesse amministrazioni di sinistra per il multiculturale e il solidaristico.
Senza entrare in altri dettagli bisogna sottolineare almeno che, al di fuori del blocco del Nord-Appennino, l’Alto Adige cattolico e prevalentemente germanofono ha deliberatamente non votato in massa (solo il 16.6 per cento si sono recati alle urne), cioè si è opposto drasticamente alla revisione della legge 40/2004, proprio come il Sud Italia delle popolose Sicilia e Campania. Il non-voto dell’Alto Adige è una buona confutazione della spiegazione “meridionalistica”, cioè endemica, del non-voto delle regioni del Sud. Il non-voto meridionale è invece analogo a quello altoatesino, un voto di attaccamento a istituti e principi stabili e a legami non artificiali.
Su scala nazionale, dunque, se il peso dell’egemonia dell’intelligencija laica non è piccolo, al tempo stesso esso è risultato drammaticamente al di sotto delle attese dei promotori del referendum.
Questo scarto tra le attese e i risultati va colto come una misura sintomatica di altro. Che il risultato sia rimasto tanto al di sotto della quota di elettorato che si pensava sensibile alla mobilitazione radical-femministico-laicista, non si deve certo ad indifferenza o inerzia, ma alla qualità culturale e all’efficacia persuasiva dei diversi fronti del non-voto: scienziati e intellettuali, personalità e movimenti cattolici e laici (rilevante è stata l’incidenza del quotidiano “il Foglio” diretto da Giuliano Ferrara, seguace delle teorie di Leo Strauss che ispirano larga parte dei neoconservatori americani; ma influente è stata anche la posizione del restante pensiero del centro-destra, il presidente del senato Marcello Pera e altri, e di alcune voci della sinistra, come Francesco Rutelli).
Una capillare opera di contrasto, razionale e ragionante, che non solo ha impedito che crescesse quel blocco su cui il movimento del sì contava di disporre in partenza (circa un terzo dell’elettorato) ma ne ha addirittura limato una parte consistente, quasi dieci punti percentuali.
Il risultato dei referendum, insomma, ci suggerisce le seguenti considerazioni.
La prima. Una grandissima parte del paese è e vuole restare estranea agli obiettivi, ai valori, alle parole d’ordine delle “sociétés de pensée”. E a questa parte del paese appartengono anche gli strati scolarizzati, nonostante che la formazione scolastica, dalle scuole medie superiori alle università, sia dominata in Italia da quella stessa intelligencija laicista, come sanno gli insegnanti di religione e i docenti universitari di chiara appartenenza cattolica, gli uni e gli altri nel loro, spesso marcato, isolamento.
Le “sociétés de pensée” – questa macchina generatrice dell’opinione pubblica individuata e analizzata da Augustin Cochin, una macchina che tende a parlare a nome della società civile ed anzi a porsi essa stessa come l’autentica società – hanno dunque fallito, specialmente presso gli elettorati delle regioni che circondano il blocco nord-appenninico e costituiscono il “grande centro” di un’Italia per molti aspetti moderna e laica.
In questa Italia che rappresenta ben il 43 per cento dell’elettorato nazionale il sì non ha superato il 20 per cento. Il fallimento del referendum rappresenta quindi – per chi sappia leggere – una spettacolare débâcle della intelligencija italiana, nella sua troppo contingente alleanza tra componenti libertarie femministiche e gay e laico-anticlericali, nella sua presunzione di superiorità intellettuale, nelle sue ambizioni di porsi alla guida morale e politica del paese.
La seconda considerazione. L’ipotesi dei promotori del referendum era questa: la chiamata al voto dei no non avrebbe impedito la vittoria dei sì e contemporaneamente avrebbe garantito il quorum del 50 per cento più uno degli elettori richiesto dalla legge italiana perché un referendum sia valido. Molto abile e semplice. La scelta dell’astensione è stata, di conseguenza, la risposta obbligata per i difensori della legge 40/2004, per non risultare dei risibili perdenti a priori: è quello che si intende per razionalità politica doverosamente, eticamente mirata allo scopo, all’efficacia conseguente e alla dignità del proprio agire.
Dunque, l’iniziativa militante della intelligencija – come pressione continua sugli istituti primari della famiglia e della generazione naturale, per promuovere “diritti soggettivi” irresponsabili, in senso tecnico, rispetto alla nostra cultura fondante – può essere contrastata con successo, purché vi siano adeguate risorse di intelligenza e di azione.
Il mondo cattolico e quella vitale parte di laici che “non possono non dirsi cattolici” sono oggi nuovamente capaci di unità e di progetto, sui livelli e le emergenze di senso ultimi. Questo prefigura un nucleo di “intelletto cristiano” che può rappresentare per la cultura italiana ed europea il futuro, non in quanto egemonia alternativa, ma come polarità capace di annullare gli effetti perversi (siano o no voluti) della intelligencija oggettivamente antagonista all’ordine occidentale-cristiano. Tale intelligencija si riproduce in Europa dagli anni Trenta del Novecento e, da allora, ha sempre celebrato senza molto discernimento ogni miraggio di distruzione di questo ordine.