Il Timone n.187 Settembre 2019
Un massone inviato da Cavour per provocare l’insurrezione napoletana. Che non avvenne mai. Però gli accordi con la camorra ci furono da subito. E le casse del regno andarono in rovina
di Rino Cammilleri
Cavour, mentre Garibaldi saliva dalla Sicilia verso Napoli, cercava di organizzare una insurrezione “spontanea”, che avrebbe consentito alle truppe piemontesi di venire in soccorso fraterno alle popolazioni meridionali. Aveva puntato le sue carte su Liborio Romano, ministro dell’interno di Francesco II. Massone di grado 33 e liberale di vecchia data, era tornato dall’esilio ed era stato nominato proprio per ammansire l’opposizione liberale.
Nel bel libro Italia oscura (Sperling&Kupfer, pp. 491, €. 19,90) di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, si parla di lui come pedina del gioco orchestrato da Cavour. Il quale, da giovane, «calcolatore anche nei rapporti umani», aveva sedotto Anna Schiaffino, moglie del marchese Stefano Giustiniani. Fu un rapporto (extraconiugale) sofferto (da lei), tanto che la donna tentò tre volte il suicidio, riuscendoci la terza volta, dopo che lui l’ebbe lasciata: si buttò dalla finestra.
La guardia e i capibastone
Ma torniamo a Napoli nel 1860. I liberali provarono davvero a organizzare moti, tanto che ci furono scontri e incendi di commissariati. Liborio Romano provò ad essere più scaltro di Cavour, giocando su tre tavoli: «faceva credere ai liberali di preparare il terreno per l’arrivo di Garibaldi, ai borbonici che la costituzione fosse l’unico modo per salvare la monarchia e a Cavour di essere pronto a guidare la rivolta “spontanea”».
Si rivolse dunque a coloro che davvero controllavano il territorio, i camorristi. «D’altra parte, se i mafiosi avevano aiutato Garibaldi in Sicilia», i camorristi potevano ben fare la stessa cosa a Napoli. Così, scelse la sua personale guardia del corpo tra costoro.
Lui, con la sua palandrana scura e gli occhialetti sugli occhi torvi, sembrava uno schiattamuort, lo jettatore tanto temuto dai napoletani. Si trattava di sostituire la polizia borbonica con queste nuove forze dell’ordine, il cui capo sarebbe stato Tore ‘e Criscienzo (Salvatore de Crescenzo, celebre guappo). Così, anche ‘o Perzianaro (Luigi Cozzolino), ‘o Chiazziere (tal Michele), poi ‘o Schiavetto, Mastro Tredici e altri capibastone della crema dei bassifondi vestirono la divisa: coccarda tricolore sul cappello e mazza in mano.
Comanda la camorra
In breve ogni caserma di polizia fu occupata dai «camorristi proprietari» (cioè, quelli che comandavano una sezione o «rocchia»), mentre la bassa manovalanza veniva assegnata ai «picciotti di sgarro». Cozzolino faceva il cameriere in una locanda, Felice Mele era garzone di parrucchiere e spazzino, il taverniere Callicchio divenne ispettore di polizia, fatte queste nomine vennero ratificate di persona dal Romano, il quale se ne vantò pure nelle sue Memorie.
Il repulisti da parte di quei nuovi tutori dell’ordine cominciò subito: due ispettori borbonici vennero assassinati, molti altri feriti, gli uffici puntualmente saccheggiati e distrutti. Spesso, alla fine di questi raid, i nuovi poliziotti tendevano il cappello ai passanti, sollecitando l’obolo. Chi si rifiutava veniva pestato a sangue perché «nemico della patria».
Il giovane ispettore Perrelli, che in passato aveva inflitto colpi significativi alla camorra, fu pugnalato alle spalle da Felice Mele mentre era a passeggio. Quando arrivò la barella per portarlo all’ospedale, il Mele tornò indietro e gli diede il colpo di grazia sotto gli occhi atterriti degli astanti, poi se ne andò tranquillamente per i fatti suoi.
«L’anarchia, la corruzione, la prepotenza iniziarono a governare Napoli. La città annegò nel contrabbando, nelle riffe clandestine, nelle piccole lotte di potere».
Finanze sul lastrico
Cavour aveva le idee chiare, come scrisse al suo braccio destro Costantino Nigra: «Se il movimento riesce, si costituisce un governo provvisorio capeggiato da Liborio che invoca subito la protezione del Piemonte. Vittorio Emanuele accetta il protettorato, invia una divisione che mantiene l’ordine e arresta Garibaldi». Ma il «moto spontaneo» non scoppiava.
Così scriveva l’affranto Conte a Bettino Ricasoli: «A Napoli abbiamo somministrato tutti i mezzi (…), armi, denari, soldati, uomini di consiglio, uomini d’azione». Intanto Garibaldi passava lo Stretto. Domenico Gallotti, comandante la guarnigione di Reggio, si arrese senza combattere e lo stesso fece il generale Fileno Briganti, il quale, però, finì linciato dai suoi stessi uomini, «i soldati semplici, quelli che non erano stati comprati con l’oro massonico e sabaudo».
Mentre il giovane re delle Due Sicilie partiva per Gaeta, Liborio Romano mandava a Garibaldi un telegramma: «Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla redentore d’Italia e mettere nelle sue mani i poteri dello stato e i propri destini».
Fu così che Garibaldi entrò in Napoli in carrozza scortato dalla nuova forza pubblica e con Tore ‘e Criscienzo in testa al corteo. Dopo aver svuotato il Banco di Napoli e quello di Sicilia (il re era partito senza la cassa), il dittatore concesse 75mila ducati ai nuovi rappresentati dell’ordine costituito.
Un vitalizio di 12 ducati mensili fu assegnato alla taverniera Marina de Crescenzo, nel cui locale si riunivano i capi camorristi, e alle gentildonne di questi ultimi: Rosa la Pazza, Luisella Lun’a juorne (nella stanza dove riceveva gli uomini teneva sempre le candele accese), Nannarella Quattro Rane (usa a prendere quattro soldi per i suoi favori) eccetera. «Le finanze del Regno finirono sul lastrico nel giro di due mesi: 90 milioni di ducati (pari a oltre 2 miliardi e mezzo di euro odierni) sparirono».
Dopo Napoli, toccava a Roma. Gli inglesi volevano chiudere subito la faccenda, ma Cavour doveva barcamenarsi anche con la Francia, che aveva un suo progetto e, al momento, proteggeva il papa. «Insomma, gli inglesi e Ricasoli accusavano Cavour di essere troppo cauto sulla questione romana perché segretamente d’accordo con il disegno francese di un’Italia federale».
E fu Ricasoli a prendere il posto di premier alla morte di Cavour. Cavour cominciò a sentirsi male la sera del 29 maggio 1861, al ritorno da una visita alla sua amante Bianca Ronzani. Il 6 giugno era morto. L’ambasciatore britannico, James Hudson, così scrisse nel suo rapporto segreto al ministro lord Russell: «Penso di non essere lontano dalla verità nel qualificare il decesso di Cavour come un assassinio compiuto dai medici».
Il Conte fu salassato per ben sei volte, poi, la sera prima della morte, gli fu somministrato un «infuso di laurocerato». Il prunus ìaurocem-sus è una pianta «altamente tossica» da cui «si ricava per infusione il cianuro». Chi ne ingerisse per bocca, come fece Cavour, presenterebbe i seguenti sintomi: nausea, vomito, diarrea, delirio, vertigini, allucinazioni, convulsioni, coma. «Proprio quelli che cominciò ad accusare Cavour».
Solo un’autopsia avrebbe potuto dire la verità. Ma, naturalmente, non ci fu