Tempi 21 Luglio 2016
Lo storico francese Rémi Brague, considerato fra i più grandi pensatori contemporanei, ha rilasciato un’intervista alla rivista Famille Chrétienne dopo l’attentato di Nizza. Il filosofo sottolinea il problema dell’islam (e dell’islamismo) e spiega come affrontare il nemico che sta colpendo l’Europa in modo cristiano, cioè senza odiarlo. Sull’attitudine di politici e intellettuali a non chiamare le cose con il loro nome, preferendo parlare di generico terrorismo e non terrorismo islamico, ad esempio, afferma:
«La paura di nominare il nemico è antica. Chi, prima della caduta del muro, osava nominare il marxismo-leninismo o l’Unione Sovietica? Si preferiva parlare vagamente di “ideologie”. E gli uomini di Chiesa non sono stati da meno nell’applicare questa strategia evasiva. Il plurale è un escamotage conveniente. Utilizzato ancora oggi, come quando si parla di “religioni”. Allo stesso modo si preferisce usare l’acronimo Daesh, che include solo i termini arabi, piuttosto che usare il termine “Stato islamico”, in modo da evitare di nominare l’islam».
E sulla necessità di non fare di tutta l’erba un fascio, accusando l’islam di essere terrorista, spiega:
«La vera linea di demarcazione non è tra islam e islamismo. Tra questi due non c’è che una differenza di grado, ma non di natura. Ciò che bisogna veramente e fermamente distinguere è da una parte l’islam, con tutte le sue sfumature e le sue intensità, e dall’altra i musulmani in carne e ossa. (…) Non bisogna ridurre queste persone concrete al sistema religioso che domina i loro paesi d’origine».
Poi, più che sulla violenza, si sofferma sullo scopo della violenza dei jihadisti:
«Non dimentichiamo che la violenza è prima di tutto un mezzo e che noi dobbiamo chiederci quale sia lo scopo. Questo scopo è l’istituzione, in tutto il mondo, di una legislazione che altro non è che una forma di sharia, in grado di governare la morale individuale e il comportamento in famiglia, l’economia e infine il sistema politico. Siamo affascinati da aspetti spettacolari degli attentati, dalle decapitazioni messe in scena dallo Stato islamico con grande attenzione e bravura. Ma tutto questo ci distrae dal vero problema, che è quello dello scopo. Il quale può essere ottenuto con altri mezzi, più discreti, ma altrettanto efficaci, come il senso di colpa dell’avversario, la pressione sociale, la propaganda ripetuta senza fine, tutte forme di un inganno».
Infine, il filosofo Brague spiega davvero che cosa significa perdono cristiano in relazione agli attentati terroristi:
«Molte persone pensano che il perdono delle offese, e anche quella richiesta incredibilmente paradossale di Cristo che è l’amore per i nemici, significhi rifiutare di ammettere che abbiamo dei nemici. Al di fuori di questa prospettiva cristiana del perdono e dell’amore per il nemico, l’avversario può solo divenire l’equivalente del male assoluto (…). Il perdono dei nemici non è mai controproducente. Quello che certamente produce è la conversione del nostro cuore, il rifiuto di lasciarci trascinare nella spirale della vendetta, nell’estremizzazione della violenza. Colui che è pronto a perdonare si chiederà se chi dice di essere suo nemico non abbia anche qualche ragione di esserlo. Si sforzerà di correggersi, senza sensi di colpa. E combatterà, perché bisogna combattere, e lo farà anche con coraggio. Ma senza odio».