La cancellazione dei profili dell’ex presidente Trump dai social network ci dice qualcosa sul rapporto tra aziende e potere in Occidente
Carlo Lottieri
Nei giorni successivi alle elezioni presidenziali americane e che hanno preceduto la cerimonia d’insediamento di Joe Biden, negli Stati Uniti è successo un po’ di tutto. Si è visto perfino un gruppo di disperati entrare nell’edificio che ospita il Congresso, nonostante il corpo di polizia incaricato di garantire la sicurezza conti ben duemila persone (per un costo, ogni anno, di quasi di mezzo miliardo di dollari).
Risultato? Quattro di quanti hanno avuto accesso al palazzo sono morti e il mondo ha assistito alla violazione di quello che pretendeva di essere il “tempio” della più antica delle democrazie. In quelle stesse settimane sono successe altre cose sconcertanti. Infatti, si è assistito alla cancellazione degli account di Donald Trump e di molti suoi seguaci da Facebook e da Twitter: ciò che oggi significa trovarsi quasi senza voce e privi della possibilità di comunicare direttamente.
Non solo: perfino il piccolo social network vicino alla destra americana, Parler, da un momento all’altro si è trovato a piedi, dato che Amazon ha deciso di non offrirgli più ospitalità nei suoi server.
Quelle settimane convulse possono aiutarci a capire meglio in che mondo viviamo, quale limitata libertà ci sia rimasta e quanto sia opaco l’ordine istituzionale in cui ci troviamo. Qui non si tratta di stabilire se sia da preferirsi Trump a Biden, o il contrario. Si tratta di comprendere come l’assetto dei poteri sia ormai mutato, in senso peggiorativo per i nostri diritti, e come la crisi connessa al Covid-19 tenda a radicalizzare questa situazione.
Le cose sono un po’ più complicate
Se fossimo in un mondo diverso e se nel corso degli ultimi due secoli lo Stato non fosse diventato tanto pervasivo, la scelta di Facebook e Twitter sarebbe perfettamente legittima. L’uno e l’altro – sul piano giuridico formale – sono soggetti privati e quindi dovrebbero avere il diritto di ospitare chi vogliono. Al limite, quanti criticano le decisioni di quei colossi potrebbero focalizzare l’attenzione sulle regole (contrattuali) connesse al fatto che chi entra in un social e chi lo ospita è tenuto a rispettare gli impegni assunti.
A ben guardare, però, le cose sono un po’ più complicate. Innanzi tutto, la crescente regolazione fa sì che soltanto in pochissime circostanze la logica liberale sopra evocata sia tuttora accettata. Quando, ad esempio, un pasticciere americano nel 2012 si rifiutò di realizzare una torta nuziale per una coppia gay (e questo perché tutto ciò era contrario ai suoi princìpi religiosi) si trovò a fare i conti con la giustizia.
Dopo molti anni la Corte suprema riconobbe la legittimità del suo diniego, ma con una formula che nemmeno ora consente qualsiasi forma di discriminazione privata. Eppure, è chiaro che ogni esistenza inanella – per forza di cose – una serie di scelte che, nei fatti, favoriscono qualcuno e non qualcun altro. Se mi converto a una religione, non lo faccio a un’altra; se vado in un bar, in quel momento scarto numerose alternative; se leggo un libro di filosofia, non posso al contempo dedicarmi al teatro o alla chimica.
Vivere è discriminare. E per questo motivo – se esistesse ancora quello che veniva chiamato “libero mercato” – pure le scelte di Facebook, Twitter oppure Amazon andrebbero rispettate. In realtà, dobbiamo prendere atto che mentre il pasticciere di Lakewood, in Colorado, era davvero un privato, quando siamo di fronte a quei colossi dell’industria e della finanze le cose non sono così chiare.
Tutti ricordiamo una delle immagini più importanti ed eloquenti del 2018: quando Mark Zuckerberg fu convocato dal Congresso per difendersi in merito al caso di Cambridge Analytica. In quel momento fu evidente a tutti che un uomo che apparentemente era potentissimo poteva molto facilmente, se la politica l’avesse voluto, essere spazzato via.
Corruzione o concussione?
Le cose non sono totalmente nuove, ovviamente. L’espansione della regolazione fa sì che la politica possa in vari modi aiutare, sovvenzionare, proteggere e privilegiare questo o quel gruppo industriale. Ogni impresa fatica ad avere successo sul mercato e a soddisfare consumatori che, per loro natura, sono volubili; se però c’è il sostegno del governo, tutto diventa facile. Al tempo stesso, anche un imprenditore che voglia agire correttamente e che decida di abbracciare le logiche della concorrenza può essere messo in un angolo se chi è al potere lo vuole.
È quindi difficile dire se oggi le grandi imprese usano il potere per raggiungere i loro risultati, oppure se è il potere che le costringe a essere ubbidienti e allineate con tutta una serie di minacce più o meno velate: connesse alla possibilità di usare e/o modificare le regole che riguardano il diritto della concorrenza, quello tributario, quello che concerne la privacy, e via dicendo.
Non sappiamo, insomma, se siamo dinanzi a una gigantesca corruzione (dove la parte attiva è svolta dai soggetti “privati”), oppure se non si tratti di una mostruosa concussione (dove a dominare sarebbero i soggetti “pubblici”). È evidente, comunque, che ormai il confine sta divenendo sempre meno riconoscibile, e questo a causa di un’espansione crescente della spesa pubblica, della tassazione, della regolazione.
Il risultato è che l’America di oggi è sempre meno lontana dalla Russia putiniana, dove le grandi imprese emerse dalla spartizione del bottino post-sovietico vivono all’ombra del potere: perché chi prova a sganciarsi dal Cremlino scompare o finisce nel buio di una prigione, come è successo, ad esempio, a Michail Chodorkovskij negli scorsi anni. In questo sordido intreccio tra potere e denaro, quello che viene a delinearsi è un establishment elitario che genera populismi irrazionali.
Così che non si capisce molto di tutta una serie di fenomeni estremistici se non si comprende la natura oppressiva della politica – anche nelle democrazie occidentali, anche negli Stati Uniti – e se non si coglie come fortune troppo grandi nascano all’ombra della sovranità di Stato o siano costrette a ricercarne la protezione.
Spazi di libertà
Un Occidente in mano a politici e oligarchi, però, sarebbe la negazione di se stesso. E l’unica strada per rinascere consiste nel ricreare spazi di libertà, mercato, autorganizzazione. Come conseguire tale obiettivo? Difficile dirlo. Con ogni probabilità, conviene puntare su una moltiplicazione delle giurisdizioni e quindi incamminarsi verso un Occidente “cantonalizzato”: proprio l’opposto di quel mondo unito sotto un medesimo governo che una larga parte del establishment politico-oligarchico auspica in tanti modi.