Corrispondenza romana n. 975/01 del 13 gennaio 2007
Ma è giusto minimizzare la vicenda di mons. Stanislaw Wielgus, il presule polacco costretto a rinunciare alla carica di arcivescovo di Varsavia, a causa del suo passato di “spia” del regime comunista? No, non è «dannoso rivangare quelle carte», come scrive Mario Cervi su “Il Giornale”, né si tratta di “ipermoralismo”, come afferma l’ex ministro degli Interni tedesco Otto Georg Schily. La verità è che l’anticomunismo, oggi come ieri, continua a costituire un peccato peggiore del comunismo.
Colpevole, per i mass media, ma anche per molti cattolici, non sarebbe mons. Wielgus, ma l’Istituto polacco della memoria nazionale (Ipn), l’ente pubblico istituito nel 1998 dal Parlamento di Varsavia, per esaminare gli archivi della polizia segreta polacca al fine di ristabilire la verità storica sull’oppressione nazista e comunista della Polonia dal 1939 al 1989. Colpevole è, in Italia, la Commissione Mitrokhin che ha preteso di ricostruire le operazioni del KGB, documentando come la Russia sovietica conducesse in Occidente una sistematica opera di disinformazione, utilizzando i servizi di uomini politici, di giornalisti, e perfino di ecclesiastici.
Oggi è noto che le campagne pacifiste che scossero l’Europa a partire dalla fine degli anni ‘60 e che culminarono nelle battaglie contro i cosiddetti “euromissili” erano pilotate da Mosca. Nel contempo, fiumi di dollari venivano versati dalle casse sovietiche a quelle del Pci e dei partiti “fratelli”: in quarant’anni, tra il 1950 e il 1990, una cifra pari a circa quattromila miliardi di lire (2 milioni di dollari) per quanto riguarda l’Italia. Intanto, come è stato documentato da Gianni Donno su “Nuova Storia Contemporanea”, il Patto di Varsavia pianificava l’invasione dell’Italia.
Dall’Istituto polacco della memoria nazionale arrivò, nell’aprile dello scorso anno la notizia che il domenicano Konrad Stanislaw Hejmo, responsabile dei pellegrinaggi polacchi a Roma era stato un informatore dei servizi segreti di Varsavia, e giunge ora quella, ancor più clamorosa, secondo cui mons. Wielgus assunse impegno formale a collaborare con la polizia segreta comunista in cambio della concessione di un passaporto.
Bisogna avere allora il coraggio di affermarlo: mons. Wielgus non è stato solo, come tanti altri pure furono, un “utile idiota”, ma è stato una “quinta colonna” di quel regime comunista che il cardinale Ratzinger definì «la vergogna del nostro secolo». Egli non fu utilizzato a sua insaputa, ma si accordò deliberatamente con i carnefici del suo popolo, per puro interesse personale. Ora ha ammesso la sua responsabilità e, sotto la pressione dell’opinione pubblica polacca e della Santa Sede, ha rinunciato all’incarico.
Non c’era altra soluzione possibile, ma avrebbe potuto prendere la decisione prima e da solo, ha dichiarato don Adam Boniecki, direttore del settimanale di Cracovia “Tigodnik Powsechny”, per il quale «non è caccia alle streghe quello che si fa per appurare la verità sui preti spia» e anzi, «l’indagine che si sta conducendo da parte della Chiesa è troppo timida e troppo lenta».
«Nell’Europa uscita dalle macerie del comunismo – osserva giustamente Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” dell’8 gennaio – il peso della condanna morale non ha sinora stritolato coscienze o stroncato fulgide carriere».
Stéphane Courtois, l’autore del Libro nero sul Comunismo, continua a chiedere una nuova Norimberga per i crimini comunisti: crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. A nessuna di queste tre grandi categorie sfuggono i crimini del comunismo, ma a queste categorie occorre aggiungere, come è stato fatto per il nazismo, quella della complicità e del collaborazionismo.
Va ricordato ancora che mentre il comunismo si sgretolava, apparve in Italia, dopo essere già stato pubblicato in Brasile e negli Stati Uniti, un importante studio del prof. Plinio Corrêa de Oliveira, dal titolo Comunismo e Anticomunismo alle soglie dell’ultima decade di questo millennio (sul “Corriere della sera” del 7 marzo 1989 e su “Il Tempo”, dell’8 marzo 1989) in cui si chiedeva un grande atto di giustizia nei confronti del comunismo chiamato di fronte al tribunale della storia.
L’accusa del pensatore brasiliano veniva formulata attraverso una serie di interpellanze rivolte ai responsabili diretti della immensa sciagura comunista; ai dirigenti supremi della Russia sovietica e delle nazioni prigioniere che diffusero e imposero la schiavitù comunista; agli ingenui, ai pusillanimi, ai collaborazionisti (volontari o no) dell’Occidente, che invece di intraprendere una crociata per liberare le vittime dell’oppressione comunista, tacquero, collaborarono, prolungarono con le loro sovvenzioni l’azione dei carnefici; ai dirigenti dei vari partiti comunisti sparsi nel mondo che pur conoscendo il tragico fallimento del comunismo, cercarono in tutti i modi di realizzarlo nei loro Paesi; a coloro che combatterono implacabilmente gli anticomunisti che resistevano contro la penetrazione sovietica nei loro Paesi; alle quinte colonne al servizio del nemico e agli “utili idioti”, borghesi, politici ed ecclesiastici, che, lungi dall’attaccare il comunismo, appoggiarono un incessante diluvio di diffamazioni contro le organizzazioni anticomuniste.
Queste domande ancor oggi restano ineludibili. Nei confronti dell’immenso olocausto rosso del secolo XX è mancata l’istruzione di un processo che regolasse i conti: un processo necessario anche al fine di evitare che alla tragica evidenza del fallimento del socialismo reale possa seguire un “nuovo inizio” del comunismo e il ripetersi di altri tragici fallimenti.
Vladimir Bukovski è una delle ultime voci del dissenso sovietico che continua a gridare nel deserto, denunciando le responsabilità passate e presenti del leader russo Vladimir Putin. Nel libro capitale che ha dedicato a Gli archivi segreti di Mosca (Spirali, Milano 1999), Bukovski ha reclamato la necessità di un’inchiesta in profondità sul comunismo con queste parole: «Sembra strano che non si voglia indagare sulla catastrofe più colossale del nostro secolo, quando su un qualsiasi incidente si apre un’inchiesta. Il fatto è che, nel fondo dell’anima noi già conosciamo i risultati che una simile indagine inevitabilmente comporta, perché ogni uomo psichicamente sano sa bene quando è sceso a patti col male. Quand’anche il più compiacente intelletto ci suggerisse giustificazioni logicamente irreprensibili e apparentemente nobili, la coscienza farebbe sentire la sua voce: la nostra perdizione è iniziata quando abbiamo accettato una “coesistenza pacifica” con il male».
La tentazione della “coesistenza pacifica” di fronte ai nuovi nemici che oggi minacciano l’Occidente è forse la ragione profonda del nostro rifiuto a rivangare il passato, per seppellirlo definitivamente negli anfratti della memoria.