Una retta interpretazione del disegno di legge sulla fine della vita
di Rocco Buttiglione
(vicepresidente della Camera e presidente dell’Udc)
L’accanimento terapeutico prolunga la vita oltre il suo termine naturale. Vediamo adesso di fornire alcune chiarificazioni su alcuni artifici retorici che spesso ricorrono nella discussione intorno a questa legge. Alcuni dicono che la legge non serve a nulla. Non è vero. A che cosa serve la legge?
Immaginiamo che un paziente sia in cura intensiva e che siano esaurite le probabilità di una guarigione. Il paziente ha lasciato un documento in cui dice di non volere essere mantenuto in vita artificialmente. Il medico sospende le cure straordinarie. A questo punto in genere il paziente muore. Il medico avrebbe comunque dovuto sospendere le cure, prima o poi.
Il fatto di avere la dichiarazione del paziente lo aiuta però a prendere la decisione (insieme con il fiduciario indicato nelle dichiarazioni anticipate) e lo tutela anche contro possibili azioni legali dei familiari. La decisione verrà presa (probabilmente) prima e con minori difficoltà.
Definire in concreto dove finisce il dovere di cura e dove inizia l’accanimento terapeutico non è facile. La dichiarazione anticipata di trattamento aiuta a definire questo confine. Nella stragrande maggioranza dei casi le cose vanno in questo modo. Quasi tutti noi moriremo così. Alcuni dicono che la legge impone l’alimentazione forzata a chi non la vuole. Non è vero. Se uno non vuole la alimentazione artificiale e la rifiuta nessuno può imporgliela.
La legge dice un’altra cosa: il rifiuto di terapie salvavita o di ordinarie misure di assistenza e cura che preservano la vita è un atto personalissimo assolutamente non delegabile. La persona deve esprimerlo direttamente. Non basta scriverlo in una dichiarazione anticipata di trattamento. La ragione è che ogni atto di volontà si colloca in un contesto. Il contesto della imminente minaccia di vita è un contesto assolutamente straordinario. È elevata la probabilità che in quel contesto la persona esprimerebbe una indicazione diversa da quella che ha lasciato scritta in un documento.
Ne abbiamo la riprova nel caso, ben noto, di chi tenta il suicidio. La sua volontà di morire è, in questo caso, evidente e comprovata da un gesto ben più eloquente di una dichiarazione scritta. Noi tuttavia lo assistiamo e, se questo è possibile, gli salviamo la vita. Nella maggioranza dei casi l’aspirante suicida è contento di essere stato salvato e non ripete il tentativo. Per questo è ingiusto parlare di “alimentazione forzata”. Semplicemente vale qui una presunzione a favore della vita in assenza di una indicazione contraria attuale.
La semplice verità è che noi non sappiamo cosa pensi o voglia chi è in stato di incoscienza. In altre parole: se uno si suicida deve farlo lui personalmente, non può delegare l’incombenza ad altri e meno che mai al servizio sanitario nazionale.
Ma, si dice, in questo modo noi neghiamo il principio costituzionalmente garantito della autodeterminazione del paziente. E si cita, a questo proposito, l’art. 32 della Costituzione, secondo comma. Leggiamolo allora questo articolo 32, ma leggiamolo per intero e non in una versione abbreviata di comodo, come ha fatto anche di recente un autorevole commentatore del Corriere della Sera .
Ecco il testo abbreviato e falsificato: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario». Ecco il testo autentico: «Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Invece di un divieto assoluto abbiamo qui una semplice riserva di legge.
La riserva è poi rafforzata da una clausola di chiusura: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In altre parole, ove venisse istituito un trattamento sanitario obbligatorio esso dovrebbe essere rivolto sempre (anche) al bene del paziente e dovrebbe trattarlo sempre come un fine in se e non semplicemente come un mezzo.
E’ risibile il tentativo di far derivare dal rispetto della persona umana il diritto alla eutanasia. Se alcuni vedono in tale diritto l’espressione suprema della libertà e dignità della persona, altri vedono in esso la rinuncia più assoluta a tale libertà e dignità. È giusto che se ne discuta nel Parlamento e nel Paese, ma è bene che nessuno pretenda di chiudere le orecchie alle ragioni dell’altro sequestrando a proprio favore la Costituzione.
La Costituzione è di tutti e non decide questo problema. Sarà bene ricordare, inoltre, che la Costituzione è il risultato di un patto fra cattolici, liberali laici e comunisti. Se una interpretazione capziosa ed estensiva altera i termini di questo patto e dichiara incostituzionali valori fondamentali dei cattolici, allora è la ragione di vita della Costituzione che viene meno ed ha ragione chi dice che bisogno negoziare un nuovo patto costituzionale, ma non nelle aule dei tribunali bensì nel Parlamento e nel Paese.
I cattolici possono accettare di essere sconfitti in una battaglia politica libera e democratica, ma non possono accettare di essere considerati come cittadini di seconda categoria, le cui convinzioni sono a priori contro la Costituzione. Nel caso specifico che ci riguarda è però sbagliato scomodare l’art. 32 della Costituzione.
Ciò di cui stiamo parlando sono semplicemente le condizioni di validità di un atto di volontà con cui si rinuncia a misure di sostegno vitale. Si dice semplicemente che questo atto non è delegabile. Nel bilanciamento fra il principio costituzionale della difesa della vita e quello della autodeterminazione, si stabilisce un equilibrio per cui prevale il principio di autodeterminazione quando la volontà viene espressa direttamente, e prevale il favor vitae quando manchi questa espressione diretta.
Resta infine da considerare un’ultima obiezione: la legge contraddirebbe gli indirizzi giurisprudenziali della Corte di Cassazione. Su questo punto basta replicare che le leggi non le fanno i giudici ma il Parlamento.
(AMCI-Pisa)