Marco Respinti (*)
Uragano Isaac o no, la Convenzione nazionale del Partito Repubblicano a Tampa, in Florida, non teme nemici e non fa prigionieri. Eccoci, dopo lunghi mesi di coraggioso duello nelle primarie forse più appassionanti che ma si siano viste, la prima fase delle presidenziali USA 2012 è giunta alla fine. Adesso la candidatura di Mitt Romney ha pure il crisma della formalità e Barack Obama il suo sfidante ufficiale. Tutto è pronto per la seconda fase, quella definitiva.
Il tempo per raffinare la proposta politica, per scontrarsi sulle scelte, per sfidarsi a chi-è-più-conservatore-di-chi c’è stato. Ha avuto un senso nobile e prezioso. Ma le cose sono andate come sono andate. Non malissimo, non benissimo, pazienza. Se ne parlerà in altro momento. Oggi esiste solo Romney, e davanti a lui Obama.
La scelta di ogni americano medio che abbia minimamente a cuore i fondamenti stessi del proprio Paese, persino del liberal americano medio (che è sempre cosa ben diversa dall’assatanato estremista ideologico europeo, e dell’unamerican Obama), per tacere del conservatore convinto, può essere una sola: Romney.
Sarà un po’ supponente (forse), sarà troppo blasé (probabilmente), è un mormone (decisamente), ma lo si è paragonato a Obama, arrogante, incapace, dannoso, votato chissà a quale santo improbabile venuto da chissà quale segreta del mondo? Obama le ha fatte tutte.
È riuscito a inimicarsi tutto e tutti, ha scontentato Destra e Sinistra, ha fatto un passo di qui e uno di là, ha sfasciato senza mai costruire, ha disfatto senza mai fare. Non solo la Destra, cioè, ha titoli per detestarne la politica, ma pure così la Sinistra che egli parrebbe avere coccolato.
Le sue ricette economiche, odiate dalla Destra, hanno impoverito anche gli uomini della Sinistra. La sua riforma sanitaria ha scontento la Destra, ma non ha affatto accontentato la Sinistra, e persino il presidente della Corte Suprema federale John Roberts ha detto che essa è costituzionale sì ma solo per metà. La sua politica estera tentennante ha irritato i nemici e indispettito gli amici. Le sue mosse sui temi etici hanno imbufalito gli avversari e lasciato con un palmo di naso gli accoliti.
Perché sì, certamente Obama ha fatto più di chiunque altro per disfare le buone cose lasciate in eredità da George W. Bush, per smantellare il tessuto sociale tradizionale su cui si fonda la società statunitense: ma, se io fossi un tale con la voglia matta di agghindarmi da Village People onde “sposarmi” con un trans in un capannone industriale prefabbricato travestito da “chiesa” officiante un qualche strano culto postmoderno alla periferia degradata di una città-cantiere qualsiasi mentre un “cappellano” con le piume colorate sull’uniforme militare mi ricorda che la mia nuova cassa malattia prevede gratis la clinica abortiva come una spa di bellezza qualunque, oggi mi sentirei quantomeno confuso dal poco coraggio con cui Obama ha difeso per mesi la mia causa.
Sarei positivamente sorpreso, cioè, se così si fosse comportato un altro presidente USA di sinistra, diciamo un Kennedy o un Clinton, ma non un olimpionico dei “diritti degli oppressi” come Obama, non un uomo il cui unico programma politico è stato ribaltare tutto salvo poi nella pratica farsi topolino partorito dalla montagna.
Pare che i sondaggi diano Romeny e Obama praticamente alla pari, e questa è già una sconfitta per l’uomo che quattro anni fa seppe mobilitare milioni e milioni di voti mai sino ad allora espressi, più tonnellate di articolesse di inviati italiani, con il semplice colore della sua pelle.
Speriamo davvero che il trend continui sino al 6 novembre, magari sulle ali del vento che soffia in poppa ai magnifici tre neri-come-il-carbone Tim Scott, Allen West e Mia Love che si candidano al Congresso alla faccia, anzi faccetta nera di Obama. Mia Love, del resto, è sul serio un amore di donna: nata Ludmya Bourdeau, 37enne, primo sindaco nero di Saratoga Springs, nello Utah, si candida alla Camera federale di Washington in rappresentanza del quarto distretto congressuale dello Stato dei mormoni (cui peraltro pure lei appartiene) come mamma di famiglia rigorosamente antiabortista e favorevole alla libera circolazione delle armi.
Nera come lo Zio Tom, i lunghi capelli corvini che le cadono spesso selvaggi sulle spalle, è una “femminista conservatrice” bellissima (quante sono le belle donne di destra americane…) nel suo tailleur d’ordinanza… Se vincerà la sfida, sarà la prima donna nera Repubblicana a entrare alla Camera, fra i pianti di Barack e Michelle Obama.
Ma il punto di forza vero della sfida portata da Romney a Obama è Paul Ryan, il talentuoso giovane deputato responsabile della Commissione bilancio della Camera federale abilmente scelto per la vicepresidenza. Nominando lui, Romney ha rifatto la stessa unica cosa giusta che nel 2004 fece John McCain con Sarah Palin: pararsi il debole fianco destro con un nome gradito al “movimento” conservatore e quindi in grado di portarselo dietro nelle urne.
Se Romney batterà Obama, sarà grazie a Ryan e ai voti che egli garantisce in esclusiva. I discorsi di endorsement a Romney, pronunciati alla Convenzione Repubblicana dagli sconfitti delle primarie seppur a volte a denti stretti, sono già bottino del carniere di Ryan.
(*) Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana