Sociologia e Tradizione.
A proposito di «Quod et tradidi vobis» di mons. Brunero Gherardini
di Massimo Introvigne
Da Cristina Siccardi a Roberto de Mattei, tutti si richiamano a mons. Gherardini e invocano la sua autorità di teologo. Rispetto al volume precedente «Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare» (Casa Mariana, Frigento 2009), questo testo propone un più chiaro giudizio – favorevole – su mons. Lefebvre, con conseguente giudizio severo sul venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) che scomunicò il vescovo francese, gesto con cui secondo mons. Gherardini Papa Wojtyla «condanna […] la Tradizione», cosa «grave non meno dello “scisma”» (p. 236).
Non voglio però in questa sede né recensire il testo di mons. Gherardini né criticarlo. Il testo è di natura teologica, e la critica spetta ai teologi. Mi limito a rilevare un modo di procedere consueto nella lettteratura «anticonciliarista» (l’espressione è di Benedetto XVI) per cui s’invoca l’intervento del Papa a chiarire come debba essere interpretato il Concilio ma s’ignorano gli interventi pontifici e delle Congregazioni romane che hanno già dato le risposte richieste, preferendo la mera reiterazione delle domande.
Così sulla natura della Chiesa Cattolica unica via ordinaria alla salvezza s’ignora la «Dominus Iesus», e sulla libertà religiosa non si citano le parti del discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana dove Benedetto XVI risponde a quesiti diffusi sul rapporto fra la dichiarazione conciliare «Dignitatis humanae» e il Magistero precedente.
Il testo, poi, ruota attorno a una dura critica della Costituzione dogmatica «Dei Verbum» del Vaticano II. È stato pubblicato prima della «Verbum Domini» di Benedetto XVI e ci si può augurare che mons. Gherardini, di recente molto attivo con interventi e dichiarazioni, prenda atto pubblicamente che l’esortazione postsinodale risponde precisamente ai quesiti e dubbi sulla «Dei Verbum» evocati anche nel suo volume.
Il tema del volume del teologo romano che m’interessa molto come sociologo è però un altro. Si tratta del cuore del volume, che attiene al rapporto tra Tradizione e Magistero. Infatti, oltre alle implicazioni squisitamente teologiche, questo tema è cruciale per intendere il modo di funzionamento dell’autorità nella Chiesa Cattolica, problema che ha una dimensione strettamente sociologica.
Né si tratta di un problema che s’incontra solo nella Chiesa Cattolica, come emerge da un testo del 2010 che è di particolare rilievo per la costruzione di una sociologia comparata della tradizione nelle organizzazioni religiose: The Invention of Sacred Tradition, a cura di James R. Lewis e Olav Hammer (Cambridge University Press, Cambridge 2010). Nelle organizzazioni religiose che riconoscono come normativi uno o più libri sacri e/o una tradizione ci sono, sostanzialmente, tre modi di funzionamento dell’autorità, ciascuno dei quali conosce a sua volta molteplici variazioni su cui non mi soffermo in questa sede.
Il primo è quello delle «religioni del Libro» – e Benedetto XVI ha ribadito nella «Verbum Domini» che fra queste non va annoverato il cristianesimo come lo comprende la Chiesa Cattolica.
Il modello tipico è l’islam, per cui il Libro, il Corano – secondo alcuni increato e coeterno con Allah, così che andrebbe paragonato non alla Bibbia ma a Gesù Cristo, secondo altri creato ma comunque «scagliato» direttamente da Dio sulla Terra, senza alcun ruolo significativo dell’autore umano – non ha bisogno di alcuna autorità che lo interpeti. Nell’islam non c’è Papa né vescovo né Chiesa, e ogni credente stabilisce un rapporto diretto con il Libro.
Il protestantesimo non concepisce la Bibbia come l’islam concepisce il Corano: tuttavia, con la dottrina del libero esame, proclama anch’esso un rapporto diretto fra credente e sacra Scrittura, che non avrebbe bisogno della mediazione di una Chiesa.
Il secondo modello è quello della «rivelazione continua», il cui esempio più caratteristico – non l’unico – è quello dei mormoni. Questi riconoscono il carattere ispirato della Bibbia, cui aggiungono nuove sacre Scritture rivelate al loro fondatore e ai suoi immediati successori. Ma il loro canone, come dicono, è «aperto». Ciascun nuovo leader dei mormoni ha un triplice titolo: presidente, ma anche profeta e rivelatore.
Può aggiungere nuovi libri sacri al canone e proporre in qualunque momento nuove rivelazioni, anche eventualmente contraddittorie rispetto a rivelazioni precedenti, possibilità quest’ultima esplicitamente prevista e che storicamente si è verificata. Per esempio la poligamia, permessa da rivelazioni al fondatore Joseph Smith (1805-1844), è stata vietata da una rivelazione del 1890 al presidente Wiford Woodruff (1807-1898); e il sacerdozio, chiuso ai neri dai libri sacri mormoni delle origini, è invece stato loro aperto da una rivelazione ricevuta dal presidente Spencer W. Kimball (1895-1985) nel 1978.
Il terzo modello è quello della Chiesa Cattolica, la cui dottrina si fonda sulla Rivelazione consegnata in forma scritta nella sacra Scrittura e in forma non scritta nella Tradizione. La Rivelazione si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo, ma nella storia rimane il Magistero della Chiesa che ha il compito d’interpretarla, così che il fedele cattolico non è, per così dire, abbandonato a se stesso ma guidato passo per passo dall’autorità nel suo rapporto con la Rivelazione, che non è né facile né scontato.
La sociologia ci dice che questi modelli, i quali non sono puramente teologici ma diventano forme di grandi organizzazioni, sono socialmente costruiti e politicamente negoziati. Tranne che in piccole realtà, la rivelazione continua di fatto è meno continua di quanto sembri. Passata l’effervescenza delle prime generazioni, gli stessi presidenti mormoni fanno uso molto raramente del loro potere di aggiungere al canone aperto nuove rivelazioni. Se si comportassero diversamente la loro comunità diventerebbe instabile, dal momento che ogni nuova rivelazione che ne contraddice una precedente genera la reazione scismatica dei «tradizionalisti» affezionati alla rivelazione precedente.
Così è avvenuto, nel 1890, per la poligamia, abbandonata dalla comunità mormone maggioritaria ma proseguita fino ai nostri giorni da una pletora di comunità scismatiche piccole ma non piccolissime.
In teoria nelle «religioni del Libro» ogni fedele potrebbe stabilire un rapporto diretto con la sacra Scrittura in modo «democratico». E sia nell’islam sia nel protestantesimo esiste una retorica che ci assicura che è proprio così.
In pratica, però, le cose stanno diversamente. Un ambulante marocchino non ha la stessa autorità del rettore dell’università al-Azhar del Cairo quando afferma qualcosa del Corano. Un contadino protestante tedesco non ha la stessa autorità di un teologo di Tubinga. I sociologi del protestantesimo hanno notato che l’autorità sottratta al Papa e ai vescovi non si è diffusa democraticamente nelle comunità protestanti – nessuna comunità religiosa funziona in questo modo – ma è passata ai teologi, ai professori e ai predicatori carismatici capaci d’infiammare le folle.
Anche i sociologi dell’islam sottolineano il ruolo dei dotti cui però, in un ambiente che non conosce la distinzione occidentale fra politica e religione, si affianca la funzione dell’autorità politica, che molto spesso nella storia dell’islam assume anche una funzione religiosa.
Detto meno tecnicamente, l’interpretazione di una sacra Scrittura e anche di una Tradizione – che non è a rigore assente neppure nell’islam, che conosce gli hadith, i detti del Profeta, né tra i protestanti, che rifiutano le tradizioni successive «romane» ma danno grande rilievo alla testimonianza della Chiesa primitiva – aborre il vuoto. Se non c’è un Papa che interpreta, non saranno tutti e singoli i fedeli a interperetare in una libertà anarchica, ma il potere d’indicare le verità religiose sarà esercitato dai teologi, dai predicatori carismatici o dai capi di Stato.
Ora, l’operazione che mons. Gherardini propone – con lo scopo di mostrare come lecita una presa di distanza dai documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e dal Magistero postconciliare – riavvicina paradossalmente (se si considera la diffidenza dell’autore nei confronti dell’ecumenismo) il modello cattolico a quello protestante. Il teologo romano in effetti critica coloro che mettono sull stesso piano Magistero e Tradizione, ed esprime dubbi anche sulla tradizionale formula che fa del Magistero la regola prossima della fede. Preferisce la versione secondo cui regola prossima della fede è la Tradizione stessa.
La questione interessa certamente i teologi, ma è pure di grande rilievo sociologico. Infatti si contrappongono qui due modelli. Per il primo è il Magistero a dire di volta in volta che cos’è la Tradizione e come va intesa in un dato momento storico. Per il secondo, è la Tradizione che di volta in volta permette di dire se il Magistero (ordinario) dev’essere seguito, in quanto ribadisce l’insegnamento tradizionale, ovvero – come avverrebbe, appunto, per molti documenti del Vaticano II e del Magistero postconciliare – sovverte la Tradizione e quindi va rifiutato.
Se si esamina la questione da un punto di vista esclusivamente teorico, un elemento essenziale rischia di sfuggire. Chi parla in nome della Tradizione? Nessun fedele incontra la Tradizione che cammina per strada. Incontra persone che si auto-rappresentano come qualificate a dirgli che cos’è Tradizione e che cosa non lo è. Queste persone appartengono a due gruppi. Ci sono gli storici e i teologi, che parlano in nome di un sapere scientifico. E ci sono il Papa e i vescovi, che parlano in nome di un’autorità istituzionale.
Se si passa – come sembra proporre mons. Gherardini – da un modello dov’è il Magistero a dire che cos’è Tradizione a un modello dove, asseritamente, è la Tradizione a dire che cos’è davvero Magistero e dev’essere seguito, apparentemente stiamo passando da un primato del Magistero a un primato della Tradizione. Ma questa è una rappresentazione ingenua della gestione dell’autorità, che ignora la sociologia con suo danno e cade in una forma di quella che i sociologi di lingua inglese, prendendo a prestito un’espressione dagli studiosi di logica, chiamano «fallacia naturalistica».
In realtà stiamo passando dal primato del Papa e dei vescovi al primato dei teologi e degli storici. Così, con tutte le migliori intenzioni, stiamo uscendo dal modello specificamente cattolico e stiamo entrando senza accorgercene in un modello diverso, che assomiglia molto a quello protestante.
E ad altri: non è un caso che mons. Gherardini parli con simpatia di un tradizionalista non cattolico come Elémire Zolla (1926-2002), la cui nozione normativa della Tradizione prescinde totalmente dal ruolo dell’autorità nella Chiesa Cattolica. Per inciso, si può anche notare che la scuola cattolica contro-rivoluzionaria, anche prima di trovarsi di fronte a un Magistero che si esprima con documenti frequenti e articolati, la pensa diversamente. Joseph de Maistre (1753-1821) afferma con molta enfasi nel «Du Pape» che Tradizione è quella che il Papa ci presenta come tale.
Ma, così facendo, non si rischia – per evitare il protestantesimo – di cadere in un modello simile a quello dei mormoni, dove il presidente – in questo caso, il Papa – può cambiare la stessa Rivelazione e proporre nuove rivelazioni, contraddittorie con gli insegnamenti precedenti? No, perché il Papa non proclama nuove rivelazioni, né «crea» la Tradizione: interpreta, e dai principi della sacra Scrittura e della Tradizione trae le soluzioni a nuovi problemi.
Per il credente cattolico che sia così è garantito dallo Spirito Santo. La sociologia può aggiungere che se ogni Papa si fosse divertito a sovvertire l’insegnamento dei Papi precedenti ciascuno avrebbe segato lo stesso ramo di autorevolezza dove stava seduto, e non si comprende come la Chiesa avrebbe potuto durare per duemila anni.
Il problema non è, ultimamente, il ruolo della Tradizione. Tutti i cattolici, o quasi, lo riconoscono. Il problema è che non esiste un manualetto normativo per tutti dal titolo «La Tradizione», dato una volta per sempre: e se ci fosse avrebbe bisogno d’interpretazione, esattamente come la sacra Scrittura.
Perché il fedele sappia che cosa deve considerare Tradizione oggi, bisogna che qualcuno glielo dica autorevolmente. Potrà trattarsi del Papa e dei vescovi in comunione con lui, che è la soluzione cattolica. Oppure potrà trattarsi dei teologi, degli storici, di chi si pretende più sapiente, di chi grida di più o riesce a farsi fare pubblicità dai grandi giornali. Questa seconda risposta è diffusa, ma ci porta fuori dal modo di funzionamento tipico della Chiesa Cattolica.
Tertium non datur. La terza versione è quella secondo cui che cosa sia la Tradizione è così chiaro che anche il popolo di Dio, anche il semplice fedele è in grado di capire quando il Magistero dice qualcosa di non tradizionale. Ma il popolo si farà sempre le sue idee in materia di Tradizione sulla base di qualcuno che parla con autorità.Come ebbe a scrivere il cardinale Ratzinger nella sua autobiografia, quando si sente dire che il potere nella Chiesa deve passare dal Magistero al popolo, la verità è che qualcuno sta cercando di farlo passare dal Magistero ai teologi. Che questi teologi siano progressisti o tradizionalisti, lo schema di un radicale sovvertimento del modo cattolico di gestire l’autorità non cambia