A quarant’anni dal Vaticano II Walter Brandmüller sottolinea l’originalità di un’assise che «non emanò né leggi né giudizi, ma fece del Vangelo la guida al mondo d’oggi»«
Non furono espresse condanne dottrinali: come disse Giovanni XXIII, oggi la Chiesa preferisce piuttosto dimostrare la validità delle sue dottrine e far uso della medicina della grazia»
«Anche Joseph Ratzinger rilevò che possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo chiaramente così com’è: parte della tradizione unica e totale della Chiesa »
Walter Brandmüller
(presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche)
Il Vaticano II si è dimostrato visibilmente il Concilio dei superlativi già quando l’enorme numero di 2440 vescovi entrarono nella basilica di San Pietro. Se il Vaticano I con i suoi 642 padri circa aveva trovato posto nel transetto destro della basilica, ora aula conciliare era l’intera navata centrale.
Nel secolo intercorso fra i due Concili la Chiesa non rivendicava soltanto il ruolo di Chiesa universale ma lo era diventata davvero. E mai si era verificato, come nel 1962, che un migliaio di giornalisti di tutto il mondo fosse accreditato al Concilio. Così il Vaticano II è stato anche il Concilio più conosciuto di tutti i tempi, divenendo un evento mediatico mondiale di prima grandezza.
Altre particolarità di questo Concilio lo fanno spiccare sugli altri. I Concili esercitano le supreme funzioni magisteriali, legislative, giudiziarie, sotto e con il Papa, al quale tutte queste funzioni spettano anche senza Concilio. Non tutti i Concili hanno esercitato ciascuna di queste funzioni. Se il primo Concilio di Lione (1245), con la scomunica e deposizione dell’imperatore Federico II, ha agito come tribunale e ha emanato leggi, il Vaticano I non ha giudicato né emanato leggi, ma ha deliberato esclusivamente su questioni di dottrina.
Il Concilio di Vienne (1311-1312) invece ha giudicato, emanato leggi e deliberato su questioni di fede, e lo stesso hanno fatto i Concili del Quattrocento.
Il Vaticano II invece non ha giudicato né emanato leggi e neppure deliberato in modo definitivo su questioni di fede e piuttosto ha realizzato un nuovo tipo di Concilio, considerandosi un Concilio pastorale, quindi spirituale, che voleva avvicinare la dottrina del Vangelo in modo attraente perché facesse da guida al mondo di oggi.
In particolare non ha espresso condanne dottrinali, come disse con chiarezza Giovanni XXIII nel discorso di apertura: «La Chiesa si è sempre opposta alle eresie. Spesso le ha condannate con la massima durezza»; oggi invece «la Chiesa preferisce fare uso della medicina della grazia», perché «crede che essa corrisponda alle esigenze dell’epoca attuale, preferendo dimostrare la validità delle sue dottrine piuttosto che esprimere condanne».
Anche se, alla luce degli sviluppi storici, il Vaticano II si sarebbe rivelato lungimirante se, sulle orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di condannare espressamente il comunismo.
Invece il timore di pronunciare condanne dottrinali e definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine i testi conciliari risultino tra loro diversi: così, per esempio, le costituzioni dogmatiche Lumen gentium sulla Chiesa e Dei Verbum sulla rivelazione divina possiedono il carattere e la natura di documenti dottrinali, ma senza definizioni vincolanti, mentre secondo il canonista Klaus Mörsdorf la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae «prende posizione senza un contenuto normativo evidente». I testi del Vaticano II possiedono quindi un grado molto diverso di obbligatorietà e anche questo è un elemento assolutamente nuovo nella storia dei Concili.
Paragoniamo poi il Vaticano II con il primo Concilio di Nicea (325), con il Tridentino (1545-1563) e il Vaticano I tenendo conto delle rispettive conseguenze. Salta agli occhi che dopo i due Concili vaticani si è arrivati a uno scisma. Nel 1871 i “vecchi cattolici” per protesta contro le definizioni del primato e dell’infallibilità del Papa si separarono dalla Chiesa, e nel 1988 l’arcivescovo Lefebvre e i suoi sostenitori hanno scelto lo scisma.
Per quanto appaiano opposti, i due movimenti concordano nel rifiuto dei legittimi sviluppi nella dottrina e nella vita della Chiesa, fondato su un rapporto distorto con la storia. La speranza deve scaturire proprio dall’esperienza della storia e i Concili hanno bisogno di un lungo respiro, il respiro della storia. Dopo il primo Concilio di Nicea sono cominciate lotte religiose che crebbero di asprezza e violenza prima che alla fine s’imponesse il dogma niceno confermato dal Concilio di Calcedonia (451), attraverso vicende durate oltre un secolo.
Si può fare un paragone anche con la fase successiva al Tridentino, che ha avuto come conseguenza una straordinaria fioritura missionaria, religiosa e culturale dell’Europa rimasta cattolica: Hubert Jedin ha parlato di “miracolo di Trento”. Ma sbaglieremmo se ritenessimo che questa fioritura si sia prodotta di colpo: dopo la conclusione del Concilio passò quasi un secolo prima che i suoi decreti dogmatici e di riforma mostrassero efficacia su larga scala.
Quasi ogni Concilio, e naturalmente anche il Vaticano II, per struttura, svolgimento e contenuto possiede la sua inconfondibile peculiarità, ma ha in comune con tutti gli altri il fatto che sotto l’aspetto formale in ognuno è stata esercitata collegialmente la suprema autorità dottrinale e pastorale.
Dal punto di vista dei contenuti si tratta della presentazione, dell’interpretazione e dell’applicazione della tradizione, alla quale ogni concilio dà il suo contributo specifico. Questo non può ovviamente consistere in un’aggiunta di nuovi contenuti al patrimonio di fede della Chiesa. E neppure in un’eliminazione delle dottrine fino a quel momento tramandate.
È piuttosto un processo di sviluppo, chiarimento e distinzione che si sta compiendo, con l’assistenza dello Spirito Santo, e attraverso questo processo ogni concilio con il suo definitivo annuncio dottrinale s’inserisce come parte integrante nella tradizione complessiva della Chiesa. Per questo i Concili guardano sempre avanti, verso un annuncio dottrinale più ampio, più chiaro, più attuale, mai all’indietro. Un Concilio non può contraddire i suoi antecedenti, ma solo integrare, precisare, proseguire.
Tutto ciò vale anche per il Vaticano II. Anch’esso non è né più né meno che un Concilio fra gli altri, accanto e dopo altri, non al di sopra né al di fuori, ma all’interno della serie dei Concili generali della Chiesa. Anche il Vaticano II riconosce la sua collocazione nel solco della tradizione. La quantità di richiami alla tradizione nei testi del Vaticano II è impressionante.
Il Concilio accoglie diffusamente la tradizione citando i Concili, in particolare il Fiorentino (1439-1442), il Tridentino e il Vaticano I, le encicliche di numerosi Papi, la letteratura patristica e i grandi teologi, primo fra tutti Tommaso d’Aquino, come fonti alle quali attinge.
Il cardinale Joseph Ratzinger, in un incontro di qualche anno fa, ha parlato di «un isolamento oscuro del Vaticano II» e ha detto: «Alcune descrizioni suscitano l’impressione che dopo il Vaticano II tutto sia diventato diverso e che tutto ciò che è venuto prima non potesse essere più considerato o potesse esserlo soltanto alla luce del Vaticano II.
Il Vaticano II non viene trattato come una parte della complessiva tradizione vivente della Chiesa, ma come un inizio totalmente nuovo. Sebbene non abbia emanato alcun dogma e abbia voluto considerarsi più modestamente al rango di Concilio pastorale, alcuni lo rappresentano come se fosse per così dire il superdogma, che rende tutto il resto irrilevante», mentre «possiamo rendere davvero degno di fede il Vaticano II se lo rappresentiamo molto chiaramente così com’è: un pezzo della tradizione unica e totale della Chiesa e della sua fede».
In effetti, negli anni postconciliari era di moda paragonare la Chiesa a un cantiere, in cui si facevano demolizioni e nuove costruzioni o ricostruzioni. Spesso l’ordine di Dio ad Abramo di andarsene dal suo paese era interpretato come un’esortazione alla Chiesa ad abbandonare il suo passato e la sua tradizione. Si parlava con entusiasmo di partenza della nave di Pietro e del suo viaggio verso nuove sponde. Si predicava la partenza in direzione dell’ignoto, del lontano, del nuovo e la parola tradizione era diventata un insulto.
Al contrario, bisogna ribadire con forza che un’interpretazione del Vaticano II al di fuori della tradizione contrasterebbe con l’essenza della fede. Su questo sfondo anche la distinzione così in voga tra “preconciliare” e “postconciliare” è molto dubbia sul piano teologico e su quello storico. Un Concilio non è mai un punto di arrivo o di partenza sul quale possa essere scandita la storia della Chiesa o addirittura la storia della salvezza.
Ci sarà un Vaticano III? Non sorprende che alcuni abbiano avanzato una richiesta di questo tipo, anche da parti opposte. Secondo alcuni dovrebbe riunirsi un nuovo Concilio che finalmente abbatta le barriere, realizzi la democratizzazione della Chiesa, consenta l’accesso ai sacramenti a coloro che dopo un matrimonio fallito hanno contratto una nuova unione, apra la strada al matrimonio dei sacerdoti e al sacerdozio femminile, e porti alla riunificazione dei cristiani divisi.
Altri pensano che la confusione e la crisi dell’irrequieto periodo postconciliare avrebbero bisogno urgentemente di un Vaticano III che metta ordine e faccia da guida. Una cosa è certa: anche questo nuovo eventuale concilio – magari Nairobiense o Moscoviense – si collocherebbe nel solco della tradizione e sarebbe solo un altro elemento di questa venerabile serie.
In ogni caso il Vaticano II non è stato né l’inizio né la fine della storia conciliare e abbiamo il compito di realizzarlo, prima di parlare del futuro.