C’è un paese in cui avviare un’azienda è più difficile che nello Yemen e pagare le tasse è più complesso che in Burkina Faso. E l’Italia, membro,del G8 e tra i fondatori dell’Ue, che ha regalato la propria ricchezza all’invadenza della burocrazia
di Rodolfo Casadei
Sarà uno stato fallito tipo la Somalia o l’Afghanistan, si dirà. O uno di quei paesi dove lo stato coincide con una dittatura che reprime in tutti i modi l’iniziativa privata, tipo Cuba o la Corea del Nord. E invece no: la risposta all’indovinello è “Italia”, paese membro del G8 e stato fondatore dell’Unione Europea.
Per convincersene basta procurarsi l’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulla facilità (o difficoltà) di fare impresa. Doing Business 2010 è il settimo di una serie di rapporti inaugurata nel 2002 per analizzare le regolamentazioni che promuovono oppure ostacolano l’attività imprenditoriale in 183 paesi del mondo, dall’A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe. Lo “score” dell’Italia è sconfortante: 78esima su 183 nella classifica generale, preceduta da paesi come Figi, Perù, Kirghizistan, Ruanda, Macedonia, Botswana, Bielorussia, Azerbaigian e molti altri i cui nomi farebbero sobbalzare sulla sedia.
L’Italia è invece 42esima su 47 nella classifica dei paesi ad alto reddito (quelli che presentano un reddito medio annuo prò capite superiore ai 12 mila dollari e hanno almeno 300 mila abitanti), dove sopravanziamo soltanto Trinidad e Tobago, il Brunei, la Croazia, la Grecia e la Guinea Equatoriale, ma siamo preceduti da tutti gli altri paesi della Ue presenti (compresi Cipro, Estonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e persino da Bahamas, Oman, Porto Rico, ecc.
Si dirà: siamo un paese di corrotti e di concussi, quest’anno nella relativa classifica di Transparency International abbiamo registrato un voto di poco superiore al 4. Si dirà: bisogna fare più controlli, dare più poteri alle Corti dei Conti e alla magistratura ordinaria, basta con le procedure straordinarie come quelle della Protezione civile e le assegnazioni di appalto senza gara come fanno tanti Comuni. Domanda: non sarà che se le amministrazioni ricorrono a procedure straordinarie è perché il sistema è paralizzato, e che questa situazione di paralisi è anche il brodo di coltura di corruzioni e concussioni, le quali in un sistema più fluido ed efficiente e meno fiscalmente oppressivo non si darebbero?
L’Italia è il paese dove mediamente sono necessari 1.210 giorni per ottenere l’adempimento di un contratto in sede giudiziaria, quando in Francia ne bastano 331. Ma perfino in Angola, in Pakistan o in Uganda ce ne vogliono meno di mille. Alla fina della maratona, che richiede l’esecuzione di 40 procedure (in Austria ne bastano 25, in Svizzera 31), il 30 per cento dell’importo contrattuale che si cercava di recuperare se ne sarà andato in fumo (contro il 13,3 della Norvegia e il 16,6 dell’Austria).
L’Italia è il paese dove a un piccolo o medio imprenditore ottenere tutte le necessarie approvazioni per costruire una struttura commerciale e allacciarla alle reti elettrica, idrica, fognaria e delle telecomunicazioni costa il 137,2 per cento del suo reddito annuale e il tempo di 257 giornate lavorative, quando in Germania le stesse operazioni gli costerebbero il 60 per cento del reddito annuale e gli prenderebbero non più di 100 giorni.
Ma perfino in Eritrea e in Giamaica ci vogliono meno di 150 giorni, e perfino in Georgia o nelle Filippine si spenderebbe in proporzione molto meno. Perfino una registrazione di proprietà (che è quel che avviene quando si rileva o si cede un’impresa) in Italia diventa una gara a ostacoli: le procedure richieste sono ben 8; per trovarne altrettante o un numero superiore all’interno della Ue bisogna andare nell’ineffabile Grecia o nelle post-sovietiche Bulgaria e Romania.
Gli italiani sono un po’ allergici al pagamento delle tasse? Certamente sì, ma non sarà anche per il fatto che un cittadino deve dedicare ben 334 ore all’anno all’espletamento delle pratiche fiscali? In Inghilterra ne bastano 110, in Irlanda 76, e anche in Francia e in Svezia, due dei pochi paesi dove la pressione fiscale è più alta che in Italia, le ore da regalare al fisco sono più o meno le stesse che in Inghilterra.
Gli imprenditori italiani evadono le tasse? Non sarà anche perché vengono mediamente prelevati dal fisco più dei due terzi dei loro profitti (68,4 per cento), contro un terzo o meno della metà in paesi come Olanda (39,3 per cento), Islanda (25), Finlandia (47,7), Canada (43,6), Regno Unito (35,9) o Stati Uniti (46,3)?
Il moralismo e l’economia sommersa
II fenomeno dell’economia sommersa italiana viene sempre presentato in termini moralistici: il commentatore di turno si strappa le vesti di fronte all’alta percentuale di Pil nazionale che ancora sfugge all’imposizione fiscale, la seconda per importanza fra i paesi industrializzati dopo quella della Grecia secondo una statistica elaborata dal Wall Street Journal & pubblicata il 10 febbraio scorso.
Se però si analizza anche la realtà delle tasse nei dieci paesi presi in esame (quelli del G7 più Spagna, Portogallo e Grecia) si scopre che solo in Francia la pressione fiscale complessiva è leggermente più alta che in Italia (43,6 per cento contro il nostro 43,3), in tutti gli altri è più bassa secondo una forchetta che va dai 6 ai 15 punti di Pil.
Alla fine della fiera, la differenza fra quota di Pil prelevata dal fisco e quota di Pil che resta sommerso determina un quadro nel quale mediamente la pressione fiscale italiana è identica a quelle tedesca e americana, è superiore di due-tre punti a quelle giapponese, spagnola e canadese (oltreché quelle portoghese e greca), ed è inferiore soltanto a quelle francese e britannica. Insomma, attraverso il sommerso l’Italia riequilibra la sua capacità di competere con le altre economie avanzate, che altrimenti partirebbero con vantaggi incolmabili.
Il sommerso probabilmente permette all’impresa italiana anche di autofinanziarsi, in un panorama che vede l’Italia all’87° posto mondiale della possibilità di accesso degli imprenditori al credito, corrispondente al 36o posto fra i 47 paesi a più alto reddito. Se guardiamo ai concorrenti asiatici dell’Italia, scopriamo che stanno tutti meglio di noi: la Cina è 61 esima, India e Vietnam sono 30esimi e la Malaysia è addirittura prima assoluta.
Infine un altro mito da sfatare è quello, prediletto da quotidiani come Repubblica e II Fatto, da giornalisti come Gad Lerner e Giorgio Bocca.e da trasmissioni televisive come Anno Zero, che la persistenza e la crescita della corruzione in Italia vadano addebitate principalmente ai governi berlusconiani. Se stiamo alla serie statistica dell’Indice della corruzione percepita prodotto annualmente da Transparency International, la questione appare sotto una differente luce. Si tratta di un Indice basato sulla media dei risultati di 13 inchieste rivolte ad operatori economici e analisti nazionali e stranieri, cui si chiede di stimare il grado di corruzione della Pubblica amministrazione.
L’Indice della vergogna
Quando il primo governo di centrosinistra sale al potere nel maggio 1996 l’Indice segna, sull’onda della non ancora conclusa Tangentopoli, 3,42. Due anni di cura Prodi lo portano a 4,8; quindi subentra Massimo D’Alema, il cui anno e mezzo di esperienza governativa abbassa lievemente il valore a 4,6. Molto meglio fa Giuliano Amato, che in un anno appena sale a 5,5. Il successivo quinquennio berlusconiano (2001-2006) è l’epoca aurea dell’Indice: nei primi tre anni c’è un leggero scivolamento fino a 5,2, ma negli ultimi due anni viene raggiunto il valore massimo per l’Italia da quando l’Indice esiste: 6,2, sufficienza piena. Ritorna Prodi nel maggio 2006, e in due anni l’Indice scende vorticosamente a 4,8, lo stesso valore che il fondatore dell’Ulivo aveva lasciato in eredità nel 1998. Torna Berlusconi, e nel 2009 si scende a 4,3, risultato che molto probabilmente risente della vicenda escort e della battaglia campale fra il premier e Repubblica che domina tutta la seconda parte del 2009.
Morale della favola: più che le gestioni politiche, sulle corruzioni e concussioni italiane sembrano pesare le strozzature del sistema. Governi e parlamenti di vario colore hanno cercato di eliminarle, ma dopo qualche progresso hanno rinunciato e si sono lasciati cadere le braccia. E adesso, come ha spiegato bene Giuliano Ferrara su Panorama, credono di lottare contro la corruzione perché bocciano l’articolo 16 del decreto sulla Protezione civile. Invece non fanno altro che aumentare l’inefficienza che strangola il paese.