La Croce quotidiano 18 Luglio 2017
di Mario Adinolfi
Ho letto con molto interesse l’articolo de La Civiltà Cattolica firmato da Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa intitolato “Fondamentalismo evangelico e integralismo cattolico”, dedicato in sostanza a demolire il rapporto tra cattolici ed evangelici con la presidenza Trump. Dopo averlo anche riletto mi pare chiaro che il gesuita siciliano ispiratore della “comunicazione” di Papa Francesco e il direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano siano incappati in una serie di errori derivanti da uno fondamentale: non hanno messo piede negli Stati Uniti da anni, non conoscono questo Paese.
Con la finalità di attaccare un presunto manicheismo e il sottostante “fondamentalismo dell’odio”, Spadaro e Figueroa hanno scritto un articolo manicheo che indica il male nella presidenza Trump, nelle precedenti amministrazioni repubblicane (sono citati in abbondanza Nixon, Reagan e Bush) e nei sostenitori evangelici e cattolici del Partito repubblicano.
Con il tono, quello sì, “suprematista” tipico di un razzismo al contrario, il dito è puntato contro la “collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano” che si contrappone tendenzialmente da sempre negli Stati Uniti a chi minaccia l’American Way of Life: “Gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani”.
Questa semplificazione da film western davvero è inaspettata, sorprende: due menti non banali come quelle di Spadaro e Figueroa non possono essere incappate in questo disegnino degli Stati Uniti da copia di mille riassunti. Consiglio ai due fini autori de La Civiltà Cattolica un viaggio negli Stati Uniti, prima di scrivere degli Stati Uniti. Non a New York, o a Washington o a Los Angeles a presenziare alla prima di qualche film di Hollywood o a qualche ricevimento in ambasciata per iniziative benefiche, sempre a sfondo ambientalista.
Consiglio a Spadaro e Figueroa una passeggiata per gli slum veri, che possono trovare a New Orleans come a Chicago, una visita senza preavviso alle comunità ispaniche del New Jersey come del New Mexico, un bel viaggio coast to coast sulla Route 66, 4.200 chilometri per conoscere davvero gli Stati Uniti e non scrivere articoli caricaturali che oscillano tra il partito preso e il sentito dire.
I territori che hanno fatto e fanno la differenza in termini di consenso per la presidenza Trump e l’esecrato “ideologo fondamentalista” Steve Bannon non sono quelli del “profondo Sud americano”, tradizionalmente repubblicani da secoli e da secoli intessuti di “fondamentalismo cristiano”, anche ai tempi delle presidenze Clinton e Obama (mai citati da Figueroa e Spadaro).
La novità della presidenza Trump è la sua vittoria, giudicata alla vigilia impossibile da tutti gli analisti politici, nel Mid West e nella Corn Belt. No, non sono gli stati del “profondo Sud”. Sono gli Stati della classe media, della cintura operaia, del grande nord produttivo e del cuore dell’America: Pennsylvania, Ohio, North Carolina, Michigan, Wisconsin, Iowa. Sono gli Stati della middle class più colpita dalla disoccupazione, perché le aziende hanno “delocalizzato” o hanno assunto immigrati.
L’amministrazione Obama ha favorito i flussi migratori, legalizzato i clandestini, offerto dunque al mercato manodopera a basso costo e milioni di americani hanno perso il lavoro. Si sono ribellati alle élite politiche di destra e di sinistra e hanno votato Trump portandolo dall’1% alle primarie repubblicane a vincerle trionfalmente, infine nel novembre scorso alla Casa Bianca. La causa primaria della vittoria di Donald Trump è l’impoverimento della classe media e non stiamo parlando di “bianchi”. La Clinton rispetto a Obama ha perso il 6% del voto degli ispanici, l’8% degli asiatici, il 5% degli afroamericani: lì ha perso le elezioni.
La vittoria di Trump è provocata dai poveri, o meglio, dagli “impoveriti” d’America. E certamente anche da un fattore di natura religiosa, che è quello su cui si appunta l’attenzione di Spadaro e Figueroa. Si tratta davvero di un “neofondamentalismo” o “teoconservatorismo” che dir si voglia? Sono entrambi fenomeni antichi, intrecciati alla società americana da decenni, i teocon sono stati protagonisti dell’ultima presidenza Bush così come con altri nomi delle presidenze Bush padre e Reagan.
No, la novità è un’altra e si è manifestata in una data precisa. Per la precisione il 20 ottobre 2016 nell’aula magna dell’università di Las Vegas, Nevada (stato con popolazione fitta di immigrati ispanici, che per inciso a sorpresa venne vinto da Trump). Quel giorno si tenne il terzo e ultimo dibattito televisivo tra i due sfidanti per la Casa Bianca: Hillary Clinton sembrava trionfalmente avviata alla vittoria secondo tutti i sondaggisti e anche dopo quel decisivo dibattito, seguito da cento milioni di telespettatori, una compiacente CNN la dava per vincente senza appello, 52 a 39. Il Washington Post scrisse sicuro: “Trump ha perso l’ultima occasione per recuperare terreno”.
Ero davanti ai teleschermi quella notte, sono non solo un appassionato di politica statunitense, ma negli Usa vivo diversi mesi l’anno e dagli Usa sto scrivendo in questo momento questo articolo. Così feci le tre del mattino per vedermi la diretta dello scontro, come cento milioni di americani favoriti da un fuso orario umano. Ebbene il duello fu durissimo, Clinton e Trump neanche si strinsero la mano, volarono accuse pesanti al limite dell’insulto.
Poi, tre minuti che determinarono a mio avviso le elezioni. Si parla di aborto e Trump va all’attacco sulla tecnica della “partial birth abortion”, cioè l’aborto praticato anche al nono mese di gravidanza che, partendo dal principio giuridico fissato dalla sentenza Roe vs Wade della Corte Suprema del 1973 per cui il bambino non ha soggettività giuridica finché è nel ventre materno, provoca il parto mantenendo però la testa del neonato all’interno del corpo della donna per schiacciarla lì, sopprimendo così il bimbo prima che sia giuridicamente tutelabile.
Quando si tentò di mettere al bando a livello federale questa tecnica, Hillary Clinton da senatore votò contro e anche durante il dibattito televisivo la candidata democratica alla presidenza si appellò alla sentenza Roe vs Wade. Trump concluse la sua tirata annunciando, in caso di vittoria alle presidenziali, la nomina di un giudice della Corte Suprema prolife per modificare gli equilibri della Corte stessa (cosa poi effettivamente accaduta con la nomina di Neil Gorsuch).
In quel preciso momento, il 20 ottobre 2016, un segmento fondamentali di cristiani cattolici ed evangelici è certamente passato dalla scelta astensionista al voto a Trump. I cattolici americani si erano divisi nelle due elezioni precedenti, preferendo Obama sia a Romney che a McCain (rispettivamente per nove e due punti). Ma davanti a Hillary Clinton che aveva come principale finanziatore le cliniche abortiste di Planned Parenthood ed era addirittura contraria al ban della “partial birth abortion tecnique”, le percentuali si sono ribaltate: 52 a 45 per Trump. E non a caso in questi giorni Planned Parenthood inonda le tv americane di spot intimidatori contro i senatori che voteranno a favore della cancellazione dei 500 milioni di dollari di fondi federali che queste cliniche ottengono per praticare oltre 300mila aborti l’anno.
Non sono i suprematisti bianchi del Sud ad avere fatto la differenza, cari Spadaro e Figueroa: sono i cattolici prolife, giustamente inorriditi e tranquillizzati anche dalla figura del conservatore Mike Pence alla vicepresidenza, tutto tranne che un esaltato, ma un convinto sostenitore delle battaglie per il diritto alla vita fino ad essere stato un protagonista dell’ultima March for life a Washington.
Dopo una stagione che nel giugno 2015 proponeva la sentenza della Corte Suprema nota come “love is love” che obbligava gli Stati a riconoscere come legittimo il “matrimonio” gay e arrivava fino all’iperabortismo della Clinton nel dibattito dell’ottobre 2016, un segmento di milioni di credenti profamily e prolife ha deciso di incidere politicamente e di ribaltare gli equilibri.
La Civiltà Cattolica se ne duole? Mi dispiace, ma sbaglia. E se Figueroa e Spadaro scrivono giustamente che “il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere”, allora devono essere conseguenti e non provare a schierare Francesco sulla barricata tutta politica di un fondamentalismo antitrumpiano nutrito di una narrativa tutta sballata che mette insieme i Fundamentals di Lyman Stewart e la dottrina Rushdoony, il pastore Peale e la Church Militant, tutte questioni totalmente marginali nell’America di oggi.
Non c’è nessun “fondamentalismo dell’odio” in voga negli Stati Uniti. Ci sono classi subalterne impoverite e valori importanti che provano a rialzare la testa e a battersi per una libertà che è dignità (e anche, sì, libertà religiosa senza alcuna tentazione ridicolmente teocratica) che passa attraverso diritti fondamentali come quelli alla vita e alla naturalità della famiglia.
Costruire una dicotomia Francesco-Trump come finisce per voler fare l’articolo in questione è un grave danno alla Chiesa che passa per una scarsa comprensione dei fenomeni e una pigrizia intellettuale che sfocia nell’ideologia. Bisogna costruire ponti e non muri, no?
La Civiltà Cattolica già in passato provò a condurre un presidente verso l’impeachment e vi riuscì: era il cattolico Francesco Cossiga, messo nel mirino dai comunisti di Achille Occhetto che avevano appena cambiato nome ma non avevano cambiato né classe dirigente né metodi. Padre Bartolomeo Sorge schierò la rivista dei gesuiti contro il presidente della Repubblica italiana, di cui sono stato amico personale, dunque conosco il dolore che ne derivò.
Anche allora aveva ragione il riformismo cristiano cossighiano e avevano torto i comunisti, che però riuscirono a costringere il Capo dello Stato alle dimissioni anche grazie alla sponda de La Civiltà Cattolica. Non so se Spadaro vuole ripercorrere le orme di quella vicenda, visto che anche per Trump ora i democratici americani puntano all’impeachment sul ridicolo “scandalo” definito Russiagate. Oggi come allora, schierare la Chiesa politicamente dalla parte sbagliata è un clamoroso errore, peraltro scrivendo ipocritamente che “il Papa non vuole dare né torti né ragioni”. Il Papa dovrebbe invece.
Dovrebbe stare con i poveri, con gli afflitti, con la cultura della vita assalita dai necrofili negli Usa come in Europa. Francesco per la verità lo fa continuamente, la sua pastorale contro la “cultura dello scarto”, sulla ideologia gender come “sbaglio della mente umana”, la sua battaglia per la vita che lo ha visto schierarsi con la famiglia di Charlie Gard, testimoniano che il Papa affibbia i torti e sostiene le ragioni. Non vorrei che qualche suo consigliere lo faccia finire politicamente fuori strada per insipienza e scarsa conoscenza esperienziale di quel che accade davvero nella società, italiana come americana, che hanno sempre più bisogno di una proposta politica popolare e di ispirazione cristiana, non per questo collaterale alla Chiesa che deve essere sempre soggetto terzo, alieno dalle parti e dai partiti, perché agisce ad un livello superiore.
La stagione dei vescovi-pilota è assolutamente chiusa, in questo Francesco è stato chiaro. Non serve allora neanche un collateralismo più subdolo, perché libresco e pseudo-intellettuale, quindi ideologico a cui il Papa e la Chiesa, mi verrebbe da dire anche La Civiltà Cattolica, devono assolutamente sfuggire.