REVISIONI In una biografia romanzata di Montezuma lo storico Hug Thomas rovescia l’immagine di crudeltà attribuita agli spagnoli
Dal nostro corrispondente Ettore Botti
MADRID – Io, Montezuma, non sapevo come comportarmi con quelli stranieri arrivati da lontano. Nonostante la predilezione per i sacrifici umani, ero mite, riflessivo e incerto per natura. Come intellettuale e come religioso, vacillavo di fronte alla guerra. Mi lasciai sopraffare facilmente, ma non potrei dire di essere stato obbligato dalla violenza di Cortés. Fui piuttosto io a lasciargli via libera, affascinato dal suo carattere forse ingannato, comunque soggiogato.
Nell’ultimo libro di Hug Thomas Io Montezuma, appena uscito in Spagna, l’imperatore degli Aztechi parla in prima persona e racconta la sua verità sull’inverosimile impresa dei cinquecento uomini sbarcati nel Nuovo mondo per impossessarsi del Messico e assoggettarne l’antica civiltà. E’ una verità sorprendente, in contrasto con secoli di storiografia, e tuttavia, venendo dalla voce della vittima, dovrebbe essere credibile.
Montezuma scagiona il suo carceriere e carnefice del suo popolo. Cortés era un uomo abile e intelligente, che non usava il terrore come norma ma soltanto quand’era indispensabile. Fu certo favorito dalla debolezza della resistenza ed ebbe perfino la facilitazione di essere accolto con onore perché Montezuma s’era convinto, da alcuni segni premonitori, che lo sconosciuto ospite fosse Quetzalcàtl, dio del vento e dello spirito.
Ma i vantaggi non sminuiscono le capacità politiche, oltre che militari, dell’emissario di Carlo V. Hernàn Cortés sapeva alternare i toni duri ai concilianti, la furia alla persuasione. Nella sua versione buona ricchezza d’eloquio e sguardo magnetico lo rendevano irresistibile. Montezuma confessa di essersi fato incantare dalle parole e dalla forza interiore dell’interlocutore, di aver subito profondamente quella seduzione fino a restarne plagiato.
Dominio di personalità o qualcosa di diverso, come un’infatuazione sentimentale? Il sovrano ieratico, che guardava morire decapitate e scuoiate nel tempio le giovani indie appena possedute potrebbe anche essersi innamorato del barbuto condottiero casigliano. Hug Thomas non sa se si trattò di ambigua attrazione o di sindrome di Stoccolma ante littram, cioè della dipendenza affettiva di Montezuma dal capo di coloro che decimavano i sudditi, violando le donne e saccheggiando i villaggi.
Si limita a descrivere, in maniera assai viva, le trame psicologiche che possono sostenere la tesi controcorrente. Da molto tempo lo studioso inglese autore d’un testo basilare sulla guerra civile spagnola, si dedica alla riscoperta degli Aztechi e un anno fa pubblicò La conquista del Messico, prima opera nella quale presentava il suo tentativo di revisione. I conquistadores spagnoli non furono i feroci invasori che si dice né si macchiarono del genocidio che viene che viene loro addebitato.
Nel 1518 la popolazione era di otto milioni e non di venticinque. E’ vero che cinquant’anni dopo gli abitanti non superavano i tre milioni, ma la drammatica riduzione fu dovuta, secondo lo storico, al vaiolo e al morbillo assai più che alla strage. E i soldati di Cortés neppure furono predoni insaziabili né fecero terra bruciata lungo il loro trionfale cammino.
Lo scrittore pensa che la civiltà azteca sia stata, tutto sommato, rispettata. Con danni, certo, e dentro i limiti non agevoli del conflitto tra le insegne cattoliche dei vincitori, che avanzavano inneggiando alla Vergine Maria, e gli ancestrali, sanguinarie divinità sacre agli indigeni. «Non si pensi però – avverte Thomas – che gli spagnoli abbiano trovato la situazione tribale tipica del Caribe.
Qui c’era un sistema simile all’europeo: divisione per classi, re e imperatori, riscossione dei tributi, passione per l’arte, i gioielli, le statue. Era una cultura impressionante, naturalmente molto diversa dalla nostra, ma una cultura». Con questo modello di vita li occupanti raggiunsero una integrazione, come dimostrerebbero l’utilizzo degli aristocratici locali in veste di assistenti e, soprattutto, il gran numero di matrimoni misti. Donne stuprate, però anche elette a compagne della vita. «Niente del genere – afferma l’autore – avvenne nell’America del nord.
L’idea stessa della promiscuità suscitava in Inghilterra grande scandalo. L’imperialismo britannico fu animato da emigranti protestanti, sfuggiti alle persecuzioni religiose e privi di ogni dubbio sul proprio operato. In Spagna si trattava, invece, di eserciti mandati a fare conquiste e ciò sviluppò una forte discussione morale, promossa da figure come Sepùlveda e Bartolomeo De Las Casas.
Nessun altro impero europeo, né i romani, né i francesi, né gli inglesi, ha mai sollevato sull’eticità dell’espansione i dubbi che si posero gli spagnoli. E, al di là della leggenda, la differenza si vede nell’America di oggi. Al Nord gli indiani sono praticamene scomparsi, mentre nel resto del continente gli indios, sebbene con difficoltà, sopravvivono».
La leggenda, anzi la leggenda nera: è per Hug Thoms la stratificazione di false calunnie che si è accumulata dal XVI secolo sulla testa di Cortés, non coraggioso navigatore ma corsaro senza scrupoli, non valente comandante ma sterminatore d’inaudita crudeltà. Sia il voluminoso saggio dell’anno scorso sia questo diario romanzo vorrebbero raddrizzare una storia troppo a lungo travisata.
Entrambe le opere partano dalla descrizione dei due mondi, le lucenti corazze contrapposte al bagliore dell’oro e al variopinto incantesimo delle piume, e finiscono per concentrarsi sui due personaggi chiamati ad incarnare lo straordinario contatto. Come sarebbe andata a finire si poteva capire ancor prima che l’incontro diventasse scontro, forse fin dalla volta in cui Montezuma sentì palare di «quegli estranei dai capelli meno scuri e dalle strane armi» approdati in un lembo del suo territorio.
Mentre l’avanzata continuava l’aspettativa diventò parossistica e l’apparizione sembrò confermare le fantastiche elucubrazioni dell’imperatore. «Finalmente – racconta – si mostrò alla nostra vista montando un cavallo alto e grande. Incedeva con eleganza tra le colonne dei nobili che facevano profonda riverenza».
L’affascinazione subì un crescendo, appena increspato dal dubbio che Cortés non fosse il dio del vento e dello spirito tanto superstiziosamente atteso. Prevaleva però l’illusione che quell’uomo sarebbe stato portatore di nuova luce, magari svelando i prodigi dei quali soltanto lui conosceva il segreto: cavalcare al galoppo, usare l’archibugio. Un approccio improntato alla fiducia, anzi di più: quasi alla devozione umana e religiosa. Peccato che l’idillio fosse destinato a interrompersi.
Un giorno Montezuma si rivolse ammirato all’ospite: «Accetteremo con soddisfazione di essere amici del re che ti ha mandato». E Cortés affidò all’interprete Malinali la risposta: «Sarebbe meglio dire vassalli». Per l’imperatore sequestrato dagli spagnoli e lapidato dai suoi, si profilava la fine. Per il conquistadores s’apriva l’epopea: buoni, come asicura Hug Thomas, ma forse non del tutto.