Considerazioni sull’islam / 1 – rubrica Vivaio

islam_preghieraAvvenire – rubrica Vivaio,

11 novembre 1990

Vittorio Messori

Lo osservava, di recente, anche il card. Martini, arcivescovo di una diocesi dove gli immigrati da Africa e Asia sono ormai centinaia di migliaia: quel confronto che, nei decenni scorsi, i cattolici ebbero con i marxisti, diventerà sempre più un confronto con i musulmani Così, smentendo tutte le previsioni di chi pensava che il problema del terzo millennio sarebbe stato — per i credenti superstiti — la sfida dell’ateismo, ecco che sarà invece la sfida di un’altra religione. E la meno “secolare” di tutte.

Poco si è notato che, mentre il marxismo è (o era) un giudeo-cristianesimo laicizzato, l’islamismo è un giudeo-cristianesimo semplificato. Entrambi senza il messaggio dei profeti di Israele — da Abramo sino a Gesù compreso — non sarebbero sorti o sarebbero stati assai diversi. E dunque, per il cristiano, la sfida è ancora una volta “in famiglia”: cosa che poco consola, visto che proprio questi sono i confronti più insidiosi e accaniti

A cominciare da oggi, e per qualche “puntata”, vorremmo scrivere qui qualcuna delle riflessioni raccolte in molti anni sulla fede proclamata da Muhammad, “il degno di lode”, che la nostra lingua chiama impropriamente “Maometto”. Ci sembra che la storica migrazione, di cui ora non vediamo che gli inizi, che sta portando a una nuova invasione musulmana dell’Europa giustifichi lo spazio che intendiamo riservare all’argomento. Ma, attualità quotidiana a parte, interrogarsi sull’Islam è da sempre uno dei doveri primari del cristiano consapevole della sua fede.

Il Corano, in effetti, è innanzitutto uno scandalo: lo scandalo di un “Nuovissimo Testamento” che dichiara superato il Nuovo Testamento cristiano. Mentre i credenti in Gesù erano certi che con lui fosse terminata la rivelazione divina cominciata con Abramo e Mosé, ecco sorgere una religione che non solo toglie a Gesù il suo carattere divino ma, pur profondendosi in rispettosi omaggi per lui, lo relega addirittura alla condizione di penultimo profeta, di annunciatore di una parte ma non di tutta la volontà divina, completata solo nelle parole fatteci giungere attraverso l’ultimo e definitivo dei rivelatori, Muhammad.

Con lui, i cristiani sono ridotti al passato, gente da compatire perché giunta sì dall’Antico al Nuovo Testamento ma fermatasi lì, senza passare al Corano, visto come la terza parte della Scrittura che inizia con la Torah ebraica. In effetti, laddove giungeva, nei primi secoli dell’espansione, l’orda musulmana, soltanto i politeisti, i pagani, erano posti di fronte al dilemma: o convertirsi, abbandonando gli idoli, o essere sterminati Non così per ebrei e cristiani, “la gente del Libro”: sottomessi a tributo, erano chiusi nei loro ghetti anacronistici, aspettando che si decidessero ad accettare la realtà, a riconoscere che la storia della salvezza era andata avanti, che Abramo e Gesù non erano da abbandonare ma da superare.

Questo dunque, lo scandalo — e il mistero —del Corano e della fede poderosa che riuscì a suscitare. Abituati a guardare agli ebrei restati tali come a gente dalla vista appannata, incapaci di scorgere i tempi nuovi, i cristiani si sono trovati a essere guardati a loro volta come fermatisi alla penultima tappa, senza saper giungere all’ultima. Proprio per questo l’islamismo potrebbe apparire come più credibile del cristianesimo agli Occidentali che adesso l’hanno tra loro.

Un tempo era la religione dei disprezzati popoli coloniali, convertirsi ad esso sarebbe sembrata una bizzarria indegna di un civilizzato europeo. Ora, invece, le conversioni sono cominciate e in certi Paesi, come la Francia, sembrano diventare un fenomeno quasi di massa. E ciò perché, nella nostra prospettiva “progressista”, ciò che viene dopo appare sempre meglio di ciò che c’era prima. Dalla stella di David, alla croce, alla mezzaluna non è forse un continuo progredire? Proprio perché venuto dopo Mosé e Cristo, Muhammad non sarà il migliore?

In fondo, sono gli stessi cristiani che hanno puntato proprio su questa idea di progresso, di superamento dell’ebraismo per aprirsi al nuovo. È in questo passag­gio dalla Torah agli Evangeli che ha la sua origine la prospettiva, che l’Occidente ha fatta sua, finendo per laicizzarla nelle ideologie “progressiste”, di una storia come salita che porta a sempre nuove conquiste. Dunque, il Corano può fare leva sulla convinzione —che è ormai carne e sangue dell’uomo moderno —del nuovo che è sempre meglio del vecchio. Se il proselitismo musulmano saprà utilizzare questa categoria fondamentale dello spirito occidentale, la prospettiva di un’Europa se non islamizzata almeno permeata a fondo da questo Credo potrebbe non apparire così incredibile.

Del resto, questo passaggio è già più volte avvenuto. Dodici o tredici secoli fa, erano cristiani gli antenati di quei musulmani nordafricani che vediamo popolare le nostre strade. In Egitto, nel Maghreb, in Siria, in Anatolia, nei Balcani, nella Palestina stessa, popoli interi hanno fatto — e per sempre, almeno a viste umane — il passaggio dal Nuovo al Nuovissimo Testamento, da Gesù a Maometto. Isole di resistenza cristiana, durate sino ad ora, l’Islam le ha conosciute: gli Armeni, i Copti monofisiti in Egitto e in Medio Oriente, i Mozarabi iberici. E ha dovuto ritirarsi da alcune regioni dove la vita cristiana è ritornata prepotente, senza che l’islamizzazione riuscisse in profondo: la Spagna, la Grecia, la Sicilia, Malta.

Ma, altrove, la mezzaluna è sembrata più forte della croce: e non solo sul campo di battaglia (il che, in una prospettiva religiosa, significa poco o nulla) ma, quel che più conta, nei cuori. Conquistati alla nuova fede, quei popoli le sono rimasti sino ad oggi incrollabilmente fedeli. E successo persino per le Chiese fondate sulla costa siriana e nell’attuale Turchia da San Paolo stesso. E se la moschea di Cordoba, in Spagna, è da secoli trasformata in chiesa cattolica, da altrettanti secoli la chiesa di Santa Sofia nella Costantinopoli ribattezzata Istambul è tra le più venerate moschee musulmane.

Lo stesso Annuario Pontificio porta ancora i segni del dramma: vi sono in effetti elencati, accanto ai vescovi “residenziali”, quelli cioè a capo di una diocesi effettivamente esistente, i vescovi “titolari”: quei presuli, cioè, cui è attribuito il “titolo” di una diocesi che da oltre mille anni non è ridotta che a un nome, senza più fedeli, passati tutti al verbo del Corano. Pare che solo il Nord Africa — illustre per santi, padri delia Chiesa, papi — contasse quasi 600 vescovadi e almeno altrettanti le regioni a Oriente dell’Egitto: a parte qualche nucleo di resistenza (e proprio oggi, con la crisi mediorientale, in via di sparizione) non è rimasto nulla di una così abbondante seminagione del Vangelo.

E ogni sforzo per ripiantarlo si è rivelato sterile. In poco più che vent’anni, dal 632 al 656, sotto i primi quattro califfi succeduti a Maometto, gli uomini del Corano dilagano dalla Tripolitania a Ovest sino all’Indo a Est e a Nord sino al Mar Nero. Regioni in gran parte già cristiane e che la fede in Gesù perderà. Come è potuto avvenire? Quale enigmatico significato può scorgere qui il credente? È ciò che martedi e giovedì vorremmo vedere. ( 388 )

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