Avvenire – rubrica Vivaio – 15 novembre 1990
Vittorio Messori
A partire dalla metà del 600 (continuiamo il discorso iniziato domenica e proseguito martedì) gli arabi musulmani partono dalle basi egiziane e penetrano nel Nord Africa “latino”, varcando quelli che erano stati i confini tra Impero Romano di Oriente e di Occidente. Come già in Egitto, le truppe dell’impero bizantino quasi non si oppongono, tra l’altro perché del tutto isolate dalle loro basi sul remoto Bosforo.
Cercano invece di organizzarsi a difesa le comunità cristiane locali, forse più preoccupate della fama di saccheggiatori degli arabi che degli aspetti religiosi. Infatti — lo abbiamo già ricordato ma converrà non dimenticarlo — l’islamismo era una novità assoluta, non ben comprensibile, il Profeta era morto da poco più di un decennio soltanto, il Corano stesso in molte sue parti non era ancora fissato per iscritto, affidato com’era alla memoria dei discepoli, non si era formato il complesso di scrittura e di tradizioni che noi ora, col senno di poi. ben conosciamo.
Comunque, ad appoggio occulto degli invasori si schierano le numerose comunità ebraiche: un po’ per odio ai cristiani e soprattutto a Costantinopoli che li vessava, un po’ per solidarietà semitica, essendo gli arabi dello stesso ceppo linguistico ed etnico. Gli ebrei furono spesso la quinta colonna che minò la resistenza cristiana. Di origine semitica erano anche i fieri e bellicosi Berberi che neppure i Romani erano riusciti a domare.
Malgrado la comunanza “razziale” con gli arabi, i Berberi si opposero loro, a difesa della loro indipendenza e delle loro tradizioni politeistiche, non essendo stati ancora evangelizzati o essendolo stati soltanto superficialmente. Questi Berberi, che la tradizione occidentale considererà tra i più fedeli musulmani, in realtà lottarono lungamente contro l’islamizzazione e poi fecero sanguinose rivolte. Alla fine, convertitisi, passarono però (a marcare la loro indipendenza) a uno scisma fanaticamente nemico dell’islamismo ufficiale degli arabi.
Quanto ai cristiani, la loro condizione era difficilissima. Poco più di un secolo prima, era terminata la durissima dominazione dei Vandali che dalla Spagna, avevano fatto irruzione nell’Africa romana, nel V secolo, devastando tra l’altro l’Ippona di Agostino, morto proprio mentre assediavano la città. Come molte popolazioni barbariche, pure i Vandali avevano accettato il Vangelo, anche se — conforme al loro diritto — la conversione non era certo personale: era il capo che decideva per tutta la tribù.
Ma, alla pari anche qui di numerosi altri popoli germanici, il loro cristianesimo era quello ariano (il contrario, cioè, del monofisismo che abbiamo visto in Egitto: il Figlio, qui, è sottomesso al Padre, Gesù non è di natura divina). L’arianesimo era ferocemente avverso al cattolicesimo di obbedienza romana professato in quelle province africane: da qui, una devastazione, durata più di cento anni da parte dei Vandali, delle comunità cristiane preesistenti.
Né era tutto: a partire dal 300, quelle stesse regioni avevano conosciuto un’altra fanatica eresia, quella di Donato, il vescovo che si era ribellato al confratello di Cartagine.
Quando gli arabi sbucarono dai litorale, venendo dall’Egitto, la Chiesa non aveva ancora medicato tutte le ferite inferte dai Vandali e conosceva tuttora al suo interno la guerriglia del donatismo. Inoltre, i cattolici davvero convinti rappresentavano lo strato sottilissimo delia popolazione urbana di origine latina, spesso discendenti dei veterani installati da Roma nelle colonie. La popolazione indigena, spruzzata appena di cristianesimo (o nemmeno toccata dal Vangelo, come in quasi tutto l’attuale Marocco, escluso qualche porto), fu pronta ad accogliere l’invito di quegli altri semiti che giungevano dall’Arabia e che facevano balenare la possibilità di un sogno lungamente coltivato: ributtare a mare gli stranieri che avevano vinto Cartagine.
Molti dei cattolici latini, vista l’impossibilità di arrestare l’orda musulmana, si reimbarcarono davvero verso l’Italia. Molti altri caddero sulle mura delle città assediate, prese spesso per il tradimento non solo di ebrei, ma anche di punici e di berberi “civilizzati”.
Avvenne dunque ciò che era inevitabile: prima la Cirenaica, poi la Tripolitania, poi le province di Africa, Numidia, Mauretania caddero come castelli di carta in mano all’Islam. Poiché qui, a differenza che in Egitto, non c’erano stati accordi con le comunità dei cristiani, molti di essi vennero massacrati, riducendo ancor più il loro numero. I superstiti furono ridotti al rango di uomini di seconda scelta e, soprattutto, schiacciati da tasse impietose. Le quali sembravano (ed erano) ancor più inique di quelle, pur pesanti, imposte dal fisco bizantino perché andavano a totale beneficio dei soli musulmani.
Convertirsi alla nuova fede significava diventare cittadini a pieno titolo, avere aperte tutte le carriere, non pagare più imposte; anzi, godere di quelle estorte a coloro che erano rimasti cristiani (o ebrei). In queste condizioni non stupisce che la massa dei rinnegati divenisse tale da mettere in difficoltà i musulmani stessi, poiché ogni cristiano (o giudeo) in meno era un contribuente da spremere in meno. Anche qui, inoltre, si spostarono masse di immigrati arabi e fu introdotto quel diritto matrimoniale che si diceva, stando al quale ogni matrimonio misto significava nuove generazioni musulmane.
La stessa resistenza dei Berberi, pur durata assai a lungo, finì coll’essere spezzata. Anche se gli storici narrano di tribù cristiane che resistettero eroicamente nel deserto per più generazioni.
Ma, alla fine, cadde il sipario su quella cristianità, anche perché non va mai dimenticato che l’islamismo non e solo una fede ma un modo di vita che informa tutti gli atti non solo del culto ma della esistenza quotidiana. Inoltre, poiché il Corano non è traducibile, ognuno doveva mettersi in condizione di comprendere l’arabo. Quella lingua era imposta non solo ai credenti in Allah, ma a tutti coloro — quale che fosse la loro religione — che vivevano in quei territori. E arabirazione significava necessariamente, prima o poi, islamizzazione.
Queste, dunque, le ragioni storiche della totale scomparsa (gli ultimissimi vescovi indigeni, lo vedemmo, sono attorno all’anno Mille) del cristianesimo nell’Africa latina. Fu, questa, la sola “soluzione finale”. In Egitto un “resto” non indifferente di vita cristiana restò tra i Copti. E anche in Asia la sparizione non fu completa: i monofisiti di Siria, i maroniti del Libano, i nestoriani (poi caldei) della Mesopotamia e della Persia, gli armeni del Caucaso sono restati cristiani sino ai giorni nostri.
Così come rimase eroicamente fedele al Vangelo (seppure anch’esso nella versione monofisita) l’Etiopia, che seppe resistere ai molti tentativi di islamizzazione violenta condotti da Nord, lungo il Nilo o da Est, attraverso il Mar Rosso. Tra gli storici, molto si parla della fine del cristianesimo nell’Africa occidentale mediterranea, ma spesso si tace del tutto sulla resistenza incalcolabile dello stesso cristianesimo tra i poverissimi, disprezzati (il loro nome significa “faccia bruciata”) etiopi che, accettato il Vangelo, non vollero più abbandonarlo.
Ma, se tutto questo forma un quadro storico che ciascuno può ricostruire, il credente è chiamato ad andare al di là dei meri dati per interrogarsi sul loro significato, sul mistero della Provvidenza. In questa prospettiva, perché Muhammad? Perché tanto successo, spesso a spese della croce, della sua mezzaluna? È un tentativo di capire al quale il cristiano non può sottrarsi. Ecco, dunque, che cercheremo di farlo domenica. (390)